Meraviglioso lavorare, ma preferiamo vivere

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Su Instagram gira un meme virale che mostra due foto identiche della stessa ragazza in lacrime. Sulla prima c’è scritto: «Io mentre cerco di ottenere il lavoro dei miei sogni»; sulla seconda: «Io mentre mi dirigo verso il lavoro dei miei sogni». Raccontata così probabilmente non fa ridere – descrivere i meme trasmettendone la carica ironica è pressoché impossibile – ma fa sicuramente riflettere. In altre parole, a quanti è capitato di desiderare tantissimo un lavoro e poi, una volta assunti, di pentirsene altrettanto ardentemente? È successo anche ad Andrea Villalba, 25 anni, che ha studiato statistica e lavora come analista di dati in uno studio di consulenza. «Lavoro dalle 9 alle 18:30» racconta, «e tra ufficio, spostamenti e telelavoro se ne va tutta la giornata. Mi piace quello che faccio e mi trovo bene con i colleghi, ma sembra che per fare strada in questa azienda sia necessario fare gli straordinari e fare sempre più di quanto richiesto. Questa pressione, insieme alla mancanza di tempo per me, mi angoscia. Io voglio lavorare e voglio farlo bene, ma mi rifiuto di vivere con tanto stress: ho bisogno di salvaguardare il mio spazio privato e la mia tranquillità per essere felice. Il benessere psicologico è importante».

Alla ricerca dell’equilibrio

Il caso di Andrea non è isolato. Questo sentimento comune, sempre più radicato nella generazione Z, è quello che gli esperti hanno definito «quiet ambition», o «ambizione silenziosa», termine che descrive gli individui che non rinunciano al lavoro, ma scelgono ruoli meno stressanti e di minore responsabilità per preservare il loro benessere. Come spiega Carolina Rodríguez Montes, psicologa, coach e consulente di benessere organizzativo presso Affor Health, questo fenomeno è caratterizzato dall’idea che «il successo non consista in una scalata lavorativa verso un ruolo di comando, ma nel mantenere un moderato livello di responsabilità che consenta di realizzarsi senza rinunciare ai propri spazi personali». In generale, si tratta di cercare l’equilibrio tra successo professionale e personale, privilegiando la salute mentale rispetto alla smania di potere.

Pro e contro della quiet ambition

La coach Silvia Soria ci guida fra vantaggi e svantaggi di questa filosofia professionale.

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VANTAGGI:

  1. Promuove il benessere personale nell’ambiente lavorativo.
  2. Favorisce lo sviluppo di competenze in modo graduale e sostenibile. Promuove la coerenza personale, consentendo di rimanere fedeli ai propri valori.
  3. Ha un impatto reale e duraturo e privilegia la sostanza rispetto alla visibilità.

SVANTAGGI:

  1. Il valore del lavoratore risulta meno evidente.
  2. Non si percepisce chiaramente il suo contributo all’interno del team di lavoro.
  3. Può essere scambiata per mancanza di ambizione.
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Ciclo virtuoso

Politiche aziendali che incoraggiano la competizione sfrenata fra dipendenti hanno spesso come conseguenza dinamiche umane tossiche che possono portare al burnout. «La vita moderna ci fa schizzare il cortisolo alle stelle e ciò pregiudica sia la salute fisica, sia quella mentale», spiega Carolina Rodríguez Montes. «La costante ricerca di un riconoscimento è stremante e poco sostenibile sul lungo periodo», conclude Silvia Soria, coach e mentor di orientamento vocazionale e imprenditorialità, nonché fondatrice della comunità educativa Universo Poderosas. Un’inchiesta di quest’anno dello studio di consulenza Randstad rivela che il 48% delle persone rinuncerebbe al proprio lavoro se questo impedisse loro di godersi la vita e il 45% non accetterebbe un posto di lavoro con orari d’ufficio fissi. E per quanto la cosa possa sorprendere, avremmo tutti da guadagnare da un approccio simile. Molti studi condotti durante la pandemia confermano che un buon equilibrio tra vita personale e professionale favorisce una maggiore soddisfazione tra i lavoratori, aumenta la produttività e consente di attrarre e trattenere talenti. Anche la trasformazione digitale ha contribuito a cambiare le regole del gioco: «La digitalizzazione e il lavoro da remoto hanno modificato la misurazione e la percezione del successo», spiega Soria.

La parabola del pescatore

Potremmo dire che se prima si viveva per lavorare, secondo la quiet ambition si lavora per vivere. La parabola del pescatore offre una riflessione su questo: la storia narra di un pescatore felice che andava a pescare per tre ore al giorno e dedicava il resto della giornata a dormire, trascorrere tempo con i suoi cari e fare ciò che più gli piaceva. Un giorno incontrò un uomo esperto di affari che, sorpreso dalla sua abilità nella pesca, gli consigliò di allungare la sua giornata lavorativa per far crescere la sua attività. Insomma, lavorare di più per creare un impero, quotarlo in borsa e, a tempi maturi, venderlo a una cifra astronomica. E tutto questo per cosa? Per poter dedicare gli ultimi anni della sua vita ai suoi cari e a fare quello che voleva. Cioè quello che stava già facendo.

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Nuove esigenze

Di cosa hanno bisogno le nuove generazioni per essere soddisfatte del proprio accesso al mondo del lavoro? Marta Freire, psicologa, coach ed esperta del modello comportamentale DISC, individua quattro punti chiave: «Sarebbe interessante implementare misure che permettano di conciliare realmente lavoro e vita privata, come flessibilità oraria, smart working, un ambiente di lavoro positivo, supporto al tempo libero e alla cosiddetta «retribuzione emotiva», cioè la soddisfazione e il benessere che un dipendente può ottenere al di là del suo stipendio monetario; praticare l’ascolto attivo per conoscere gli interessi e rispondere alle reali necessità dei lavoratori; facilitare l’accesso a programmi di formazione, sviluppo professionale e consulenze di mentoring o coaching; infine, favorire una cultura del feedback trasversale per garantire una comunicazione interna chiara, coerente e trasparente».

Effetti indesiderati

Secondo una recente inchiesta di Resume Builder, il 75% dei leader aziendali considera più difficile lavorare con i Millennial che con i dipendenti più anziani. Insomma, sembra che la quiet ambition abbia una conseguenza problematica e cioè che gran parte dei dirigenti si sente sfiduciato verso la generazione Zeta. Anche un recente articolo sul New York Post discute come molti datori di lavoro negli Stati Uniti siano riluttanti ad assumere i più giovani a causa della percezione di scarse competenze comunicative, mancanza di professionalità e una forte richiesta di equilibrio tra lavoro e vita privata. Fortunatamente, non tutti concordano su questo punto: molti dei manager intervistati hanno difeso la generazione Zeta e i più giovani fra i millenial, sostenendo anzi che le aziende potrebbero beneficiare delle loro aspirazioni ideologiche e dei loro valori innovativi.

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Come cambia l’idea di successo

Di generazione in generazione, secondo la coach Carolina Rodríguez Montes.

BOOMER (1946-1964)

Sperano in un riconoscimento da parte dell’azienda in cui hanno sempre lavorato, aspirano a essere un punto di riferimento per i colleghi.

GENERAZIONE X (1965-1980)

Aspirano a conciliare vita privata e lavoro. Vogliono che si tenga conto delle loro opinioni e desiderano vedere applicate le loro proposte.

MILLENNIAL (1981-1996)

Non concepiscono di svolgere un lavoro che non amano e aspirano a uno sviluppo professionale costante, anche detto «learnability».

GENERAZIONE Z (1997-2010)

Cercano ambienti lavorativi multidisciplinari, inclusivi e aperti all’innovazione. Vogliono sentirsi realizzati, ma danno priorità alla salute fisica e mentale.



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