Cooperazione trentina, il presidente Simoni: «Credito cooperativo, il nostro modello va difeso. Stop a nuove fusioni»

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di
Marika Giovannini e Luca Malossini

Il vertice della Federazione riflette sulle partite aperte: «Tensioni nel Consorzio dei caseifici, il settore non è in crisi ma si torni a una logica di squadra. Con l’ateneo formiamola nuova classe dirigente»

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Il 2025, per la Federazione trentina della Cooperazione, sarà un anno importante: a novembre via Segantini celebrerà il 130esimo anno dalla fondazione. Il presidente Roberto Simoni fa capire di essere già proiettato verso quella data. E fissa le priorità per i prossimi mesi: «Mi auguro che si possa tornare a dedicare tempo alle nuove sfide, dalla transizione ambientale a quella digitale. E che si ritorni a dialogare tra di noi». Ma al termine di un anno complicato, sferzato da venti di crisi in più direzioni, Simoni non si sottrae alle domande sui temi più delicati: dal terremoto nel settore della zootecnia fino alle bufere nel coordinamento provinciale imprenditori. Indicando, di fatto, una strada unica e obbligata: «La logica di squadra deve prevalere su quella personale». Poi il messaggio, chiaro, rivolto al mondo del credito cooperativo: «Se si va avanti con le fusioni non si difende il nostro modello».

Presidente Simoni, partiamo dalla Cooperazione: qual è lo stato di salute della Federazione oggi?
«È complicato esprimere un giudizio sintetico sullo stato della Cooperazione trentina, che è per sua definizione articolata e complessa. Ma posso dire che tutto sommato, dal punto di vista economico, non abbiamo situazioni che ci preoccupano particolarmente a livello generale. È chiaro che, all’interno del movimento cooperativo, ci può essere qualche realtà che attraversa momenti di difficoltà, per diverse ragioni. Ma lo stato di salute medio, nel 2024, è buono, sono moderatamente soddisfatto. Aggiungo un elemento: molti settori si stanno orientando per cercare di intercettare gli obiettivi di transizione digitale, ambientale, sociale».




















































Sullo sfondo c’è il problema dello spopolamento delle valli. La Cooperazione è da sempre impegnata su questo fronte, con servizi anche nei territori più decentrati: è questa la via per mantenere in vita le periferie trentine?
«Il modello cooperativo, per sua natura, comporta la presenza capillare anche nei territori meno serviti da altre realtà. Il Trentino è un territorio complesso, complicato, caratterizzato da comuni piccoli, dove fare economia — che sia con uno sportello bancario o con un negozio multiservizi — non è impresa facile. Ma questi sono fattori strategici per far vivere le comunità: hanno una ricaduta sociale, ma anche turistica. Certo, la digitalizzazione è fondamentale e su questo il Trentino non è stato velocissimo: ora si sta andando nella giusta direzione, con ricadute positive anche nella sanità, nella cura degli anziani. Un modo per rispondere al nodo della carenza di manodopera, che sentiamo anche noi, pur avendo una politica orientata all’integrazione. Pensiamo al Progettone».

C’è l’integrazione lavorativa, ma anche l’integrazione di chi arriva da paesi lontani. Come giudica la scelta della giunta provinciale di accentrare tutta l’accoglienza dei migranti a Trento?
«Dal nostro punto di vista, siamo convinti che il Trentino debba svilupparsi tenendo in grande considerazione le periferie. Quando si è accentrato troppo, i risultati non sono mai stati buoni. Dopodiché, rispettiamo le scelte politiche di gestione del fenomeno dell’immigrazione. Ricordandoci che il percorso di integrazione per poter inserire nel mondo del lavoro queste persone, di cui abbiamo bisogno, non è facile. C’è poi un altro fenomeno, legato alla manodopera».

Prego.
«Dobbiamo fermare quelle risorse che non trovano una soddisfazione in Trentino e che quindi vanno all’estero. E che spesso possono diventare anche figure di vertice. Per quanto ci riguarda, stiamo rilanciando un’alleanza con l’ateneo per portare il modello cooperativo nei percorsi universitari. Lo scopo è preparare una classe dirigente che dovrà portare avanti le nostre cooperative».

Quali sono i rapporti con la giunta provinciale?
«Personalmente ho sempre avuto buoni rapporti. C’è massimo rispetto e su diversi temi, soprattutto in ambito sociale, abbiamo trovato disponibilità al confronto».

Il Trentino in questo periodo è finito nel mirino per l’inchiesta «Romeo», poi per la mafia degli alberghi. Prima ancora c’era stata l’inchiesta sul porfido. Il territorio ha gli anticorpi per affrontare queste situazioni? E come?
«Il tema fondamentale è quello dell’Autonomia, che va tutelata, presidiata e sviluppata. Bisogna prestare attenzione: l’Autonomia non va mai data per scontata, è una forza propulsiva per il territorio, ma va guadagnata giorno per giorno».

Ma queste inchieste possono causare un danno d’immagine al Trentino?
«Sicuramente non fanno bene al Trentino, ma aspetterei prima di trarre conclusioni: dobbiamo attendere l’esito dell’inchiesta. Per quanto ci riguarda, in generale condanniamo questi fenomeni: non è questo l’approccio che il politico deve avere nei confronti della finanza pubblica. Ciò che mi preoccupa è la possibilità che passi l’idea, nella coscienza collettiva, che la politica rappresenti il territorio dove è possibile ogni tipo di comportamento. Vale la pena dunque avviare una riflessione collettiva, un’autocritica interna: bisogna far capire che la politica è altro, è spirito di servizio».

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Rispetto ai tempi di Tangentopoli, quando era la politica che chiedeva aiuto all’economia, oggi è l’economia che ha la necessità di avere l’aiuto della politica. Come legge questo cambio di paradigma?
«Starei attento a generalizzare. In ogni caso, dopo il tramonto dei partiti tradizionali, oggi manca una preparazione politica. Una volta c’era una scuola politica: nessuno dall’oggi al domani diventava sindaco. C’era un percorso di apprendimento, che oggi non c’è più. E senza quel percorso, è più facile cadere di fronte agli stimoli di una parte dell’economia. Il movimento della Cooperazione è una via di mezzo tra pubblico e privato, ma anche qui serve l’apprendistato. E per questo anche la Cooperazione può rappresentare una scuola per creare amministratori consapevoli. A volte si parla di ricambio generazionale: il nostro obiettivo è quello far crescere una classe dirigente nuova, preparata. Così diamo futuro alle nostre cooperative. Il ricambio generazionale fine a se stesso e non è mai servito».

Una risposta a chi accusa la Federazione di blocco generazionale.
«Ricordarsi del ricambio generazionale solo in occasione delle elezioni in Federazione è improprio. Perché il tema prevalente è la rappresentanza dei diversi settori. Certo, auspichiamo la presenza dei giovani, ma non vanno mandati avanti allo sbaraglio: bisogna farli crescere».

Parlando di credito cooperativo: questa trasformazione delle casse rurali in banche non spaventa il mondo della Cooperazione?
«Il percorso parte dal 2016 e dalla riforma che aveva come obiettivo quello di mettere in sicurezza i risparmi. In questo contesto il credito cooperativo era visto come l’anello debole. Che andava messo in sicurezza. A livello nazionale si è optato per un modello che garantisse l’autonomia delle singole casse rurali, dando sicurezza attraverso una capogruppo. La capogruppo, a sua volta, ha dovuto mettere in sicurezza alcune Casse, patrimonialmente inadeguate, attraverso fusioni e aggregazioni. Ma oggi c’è un rischio».

Quale?
«Oggi abbiamo ancora un modello che ha una sua validità. Abbiamo un sistema capillare, con una clientela abituata a un confronto interpersonale. Che non capirebbe l’eliminazione di tutti gli sportelli da un giorno all’altro. Sarebbe un impoverimento del tessuto economico-finanziario. Oggi alcune casse rurali aprono filiali, in controtendenza. Questo è il nostro modello, fatto da una capogruppo e da una serie di banche. Se andiamo avanti con le fusioni, riducendo le casse rurali, non difendiamo il nostro modello».

Caso Concast: il settore lattiero-caseario è in crisi?
«C’è una grande rissosità tra i vari esponenti, che se non governata può sfociare in una crisi. Ma allo stato attuale non c’è una crisi conclamata. Ciò che spaventa è la mancanza di un orientamento strategico condiviso: in questo quadro, se prevarrà una logica di squadra possiamo pensare di uscirne, se invece prevarranno le posizioni personali rischia di diventare un problema. Tenendo presente che si tratta di un settore molto delicato».

Come si è arrivati a questa situazione?
«Bisogna partire dal Covid e dalla successiva crisi energetica, con i prezzi schizzati alle stelle e i margini di ricavo ridotti. In questo quadro, chi produceva latte ha avuto soddisfazione, chi produceva grana no. E ha accusato Concast, che tra l’altro quest’anno chiude con un bilancio dignitoso. La scintilla è stata questa: dalla pandemia in poi, abbiamo registrato una fluttuazione dei prezzi che l’allevatore non ha compreso. Da qui le accuse a Concast di non lavorare bene. Ma io dico: lunga vita a Concast. E anche a Latte Trento. Devono coesistere entrambi e creare un modello equilibrato a garanzia degli allevatori: non è possibile che uno dei due sparisca».

I casi dei bambini finiti in ospedale per aver i formaggi a latte crudo possono però intaccare l’immagine del settore e del Trentino?
«Concast ha un protocollo di sicurezza molto rigido, che garantisce al 98-99% che il prodotto non sia contaminato dal batterio. Qualche caseificio ha adottato invece un protocollo di sicurezza diverso, probabilmente con una percentuale di garanzia più basso. Ma se si appartiene a un consorzio si devono rispettare i protocolli. Altrimenti il rischio è di danneggiare tutti: è un peccato, vediamo come va a finire. Nel frattempo, entro fine mese presenteremo al cda di Concast e a quello di Latte Trento i risultati dello studio che abbiamo commissionato per delineare il quadro del settore e indicare una strategia per il futuro. Che sarà efficace se ci sarà condivisione, altrimenti sarà un documento da mettere nel cassetto».

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Parlava di unità: come giudica lo scontro nel coordinamento imprenditori?
«Anche in questo caso, serve una logica di squadra. Auspico che, passata l’emotività, si torni a una logica unitaria. Altrimenti diventa complicato: l’approccio unitario è più faticoso, ma garantisce pareri più pesanti. Per questo c’è grande rammarico: spero che il 2025 riporti quello spirito di squadra che oggi si è perso».

Il 2025 è alle porte: quali sono le sue priorità?
«Innanzitutto mi auguro che la parte economica migliori. E mi auguro che si possa dedicare meno tempo alla risoluzioni di crisi aziendali, per affrontare piuttosto le sfide strategiche, la transizione digitale, ambientale. Infine, che si ritorni a dialogare tra di noi, in un confronto leale e diretto». 

23 dicembre 2024 ( modifica il 23 dicembre 2024 | 12:19)

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