L’ultima risata, i 100 anni del capolavoro di Murnau che racconta la vecchiaia

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Compie cento anni uno dei film-capolavoro dell’espressionismo tedesco: «Der letzte Mann», di Friedrich W. Murnau. Fu la rivelazione sul grande schermo di Emil Jannings. La Germania era sotto inflazione economica a causa dei debiti per la guerra persa. Un biglietto del tram 50 miliardi; un litro di latte 360 miliardi; un uovo 320 miliardi…

23/12/2024

La sera del 23 dicembre 1924, alle 20.00, presso la sala Ufa-Palast am Zoo di Berlino, veniva presentato Der letzte Mann (L’ultimo uomo). Il regista, Friedrich Wilhelm Murnau, insieme a Fritz Lang, Robert Wiene, Karl Grüne, George Wilhelm. Pabst, Arthur Robison, Karlheinz Martin, Phil Jutzi, forma la squadra dell’espressionismo cinematografico tedesco, la felice stagione creativa, ricca di soluzioni stilistiche oltre che tematiche, iniziata all’indomani della fine della Grande Guerra, con il noto Il Gabinetto del dr. Caligari, (R. Wiene) e che terminerà, stroncata, nel 1933, con l’avvento del Nazismo.

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Murnau, due anni prima aveva realizzato Nosferatu (1922) che stava diventando già un classico in tutto il mondo. Nel 1927, trasferitosi a Hollywood, realizzerà un altro capolavoro, Sunrise, con il quale otterrà due Oscar (regia e migliore attrice per Janet Gaynor).

Der letzte Mann, su soggetto di Carl Mayer, il prolifico soggettista di molti capolavori espressionisti, fu poi distribuito in Francia e nel mondo con il titolo The Last Laugh (L’ultima risata). Ciò per via del finale, un happy end aggiunto dall’autore su “consiglio” della produzione.

Lo si può definire senza esitazione il primo film della storia del cinema con al centro due temi sociali molto forti: la terza età e il demansionamento professionale. Ma ne scorrono, sotterraneamente, altri rimarchevoli: l’ipocrisia all’interno della famiglia, la cattiveria del vicinato, il falso rispetto sociale, l’amore per i bambini.

Il protagonista (Emil Jannings), è un uomo intorno ai sessant’anni, capo-portiere del noto hotel della città, l’Atlantic. Nell’incipit lo vediamo davanti alla porta di vetro girevole dell’hotel, sotto un terribile temporale, coperto da un impermeabile, accogliere i clienti, avanti e indietro, senza posa, scaricare valigie dai taxi che arrivano. Ecco ne arriva uno con un grande baule sul portapacchi. L’uomo si gira verso l’hotel e chiama, con il suo fischietto. i suoi aiutanti, più volte, ma nessuno esce. Il tassista, salito sul tettuccio del taxi, innervosito dalla pioggia, non intende aspettare e inizia a scaricare il baule obbligando il portiere a caricarselo sulle spalle. Il nostro, non può sottrarsi. È un baule che andava portato a mano da due persone. Con un certo sforzo raggiunge l’interno dell’hotel e, appena passata la porta girevole, ecco due portieri prendere il baule dalle sue spalle, e a fatica metterlo a terra.

Poi, con l’impermeabile fradicio, il capo-portiere si siede su una sedia, accanto all’entrata. Un ragazzo in divisa, un apprendista alla concierge, gli dà un bicchiere d’acqua. L’uomo è un po’ affaticato. In quel momento il magro direttore accompagna verso l’uscita degli ospiti importanti (uomini d’affari o politici), verso i quali servilmente si inchina per salutarli. Al rientro nota il nostro protagonista seduto mentre beve dell’acqua. Tira fuori da una tasca una piccola agendina e prende nota.

Ora è spiovuto. Il nostro protagonista (nessun personaggio ha un nome) nel piazzale antistante l’entrata dell’Atlantic si toglie l’impermeabile, lo dà al ragazzo aiutante. Murnau inquadra Jannings dal basso verso l’alto, ponendo in risalto la prestigiosa uniforme gallonata da capo-concierge. L’uomo si guarda intorno, poi tira fuori dalle tasche uno specchietto e con le dita dell’altra mano mette in ordine i suoi folti favoriti, con un pizzico di civetteria.

Nello stacco successivo escono due giovani snelle ed eleganti donne fasciate nei loro cappotti alla moda, con tanto di cappellino. Altre gocce di pioggia cadono, l’uomo, con l’ombrello con su la scritta “Atlantic”, va loro incontro per prenderle e accompagnarle al taxi. Esse lo conoscono, lo salutano, con ampie risate, si mettono ai lati del capo-portiere, sottobraccio, sino al taxi.

Lo spettatore nei primi minuti ha conosciuto un uomo che tiene al proprio lavoro, meticoloso, amato dai clienti, ma che per il direttore, che lo ha visto per un momento riposarsi affaticato, qualcosa non va.

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La giornata lavorativa è terminata. Il nostro torna a casa, a piedi. Con il suo passo, lento e ieratico, dentro la sua prestigiosa uniforme, il cappello da “ufficiale”, con tanto di fregi. Nel suo quartiere popolare, tutti lo salutano, alcuni si inchinano quando passa: tutto il vicinato lo rispetta. Lo stesso fanno le donne, popolane, poco curate, ma con un guizzo di invidia negli sguardi.

È mattina. L’amata figlia spazzola la divisa del padre sul piccolo balcone assolato. Poi corre in cucina apre il forno e tira fuori due teglie di pasticcio. Sulla seconda, presa una sac a poche, scrive “For the wedding guests”. Nello stacco successivo il padre accarezza il velo bianco appeso nel soggiorno-cucina, con un filo di mestizia negli occhi.

Guarda la figlia che sta sistemando le teglie sul tavolo. Poi lei va da lui e lo abbraccia, poggiando il capo reclino sul petto del padre. Lo spettatore capisce: “L’amata figlia lascerà la casa paterna per una nuova famiglia. Il padre è felice, ma un po’ triste”. Come tutti i padri.

Con la sua divisa e il berretto è sul pianerottolo. Le donne che sbattono tappeti e coperte, alzano la polvere. Ma subito si fermano, scacciano la polvere con le mani, e lo salutano con inchini. Sorrisi. Nel cortile dei bambini giocano rincorrendosi energicamente e facendosi dispetti. Uno di loro, avrà quattro anni, finisce in terra. Il nostro va verso il piccino, si inchina lo rialza, lo consola, il piccolo piange, gli regala delle caramelle. Poi riprende il suo impettito lento incedere verso il lavoro.

Ma giunto all’Atlantic, mentre entra nella porta di vetri girevole, vede che vi è un uomo più alto di lui, che indossa la stessa livrea, lo stesso berretto con fregi! Non crede ai propri occhi. Il nuovo “ufficiale” ora è nel piazzale aspettando i clienti. Il nostro va verso di lui, ma il ragazzo apprendista cerca di bloccarlo, dicendogli con gesti, che dentro lo cerca qualcuno. Il nuovo capo-portiere, gli passa vicino e non lo degna di uno sguardo.

Nell’ufficio del direttore. Questi, fumando e non guardandolo negli occhi, gli consegna sbrigativamente una lettera. Egli, tremando, inforcando gli occhiali, la legge: «Vista l’età raggiunta è destinato ad altre mansioni nelle toilette dell’Hotel».

La scena della “degradazione” ha qualcosa di militare: la donna responsabile delle toilette, con ruvidi gesti gli toglie la livrea e gli dà un camice bianco senza troppe cortesie. Il nostro scende nel piano sotterraneo dei bagni. Nel giro di pochi minuti, la finezza stilistica di Murnau, come ottimo direttore di attori, e il talento di Jannings, trasformano un orgoglioso “ufficiale” (usava fare il saluto militare ai clienti) in un povero vecchio, curvo, lentissimo nei movimenti, scapigliato, con lo sguardo allucinato, perso nel vuoto.

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Per potersi presentare al matrimonio della figlia, la sera stessa, sarà costretto a rubare dall’armadio la livrea e il cappello. Tutti lo aspettano, giunge a tarda sera dopo il lavoro. La festa è bella ma lui è pensieroso. Poi, come tutti, beve e, nello stato di alterazione dell’ubriacatura, sogna di alzare con una mano bauli pesantissimi. E ricevere applausi nella hall dell’hotel da tutti gli astanti.

La mattina dopo la premurosa mogliettina gli cuce un bottone mancante della livrea. Felice lo saluta mentre egli, sotto ancora lo stordimento dell’alcol, va al lavoro. Giunto davanti all’Atlantic, la vista torna chiara: vede il nuovo capo-portiere, e torna in sé. Tristemente, passa alla stazione, dove lascia in deposito la livrea e il cappello.

Eccolo al lavoro nella toilette. Uomini ricchi vengono per lavarsi le mani, togliendosi i preziosi anelli, nessuno lo degna di uno sguardo. Ora tocca con mano la differenza tra i ceti sociali.

La moglie, venuta all’Atlantic per portagli del cibo rimasto dalla festa di matrimonio, scopre la verità. Corre terrorizzata verso casa. Entrata nell’appartamento racconta tutto alla figlia, ma talmente ad alta voce che una vicina sente tutto e propala la notizia alle altre: tutte godono della “disgrazia” dell’ex capo-portiere.

La sera quando egli torna, moglie, figlia e genero, si sono ritirati nell’appartamento degli sposi, al piano superiore. Egli sale, suona, inizialmente non lo fanno entrare. Poi gli aprono la porta, ma lo guardano con senso di repulsione, di disprezzo. soprattutto il genero. Egli capisce che deve andare via.

Nei bagni continua la sua triste vita. Ma ecco una didascalia, l’unica. «L’autore avendo avuto compassione del nostro personaggio ha deciso per un altro finale».

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Nel ristorante dell’Atlantic i borghesi leggono il giornale e tutti ridono. Donne e uomini, La notizia è curiosa. «Un ricco cliente dell’Atlantic, di passaggio, è improvvisamente morto. Ha lasciato tutta la sua eredità ad un povero ed educato uomo della toilette dell’Hotel Atlantic».

Il finale vede il nostro protagonista, vestito come un ricco borghese, cubano in bocca, davanti a una cena sontuosa, nella sala ristorante dell’Atlantic. Tavolo apparecchiato per due. Chi aspetta? La figlia? La moglie? Arriva il claudicante portiere di notte, elegante, con cappello a cilindro, cravatta, redingote. Carico di pacchi e pacchetti. È colui che lo ha consolato nella disgrazia. Ora si siede al tavolo e mangia le svariate specialità insieme al nostro. Tutti i clienti ridono e gioiscono. I camerieri servono e il direttore non può nascondere la sua faccia cupa.

Murnau chiede il cerchio della fiaba metropolitana, con i protagonisti che lasciano l’Atlantic tra due ali di sorridenti addetti alla reception, felici di salutare i nuovi clienti. Essi salgano su una carrozza dove il nostro protagonista accoglie un povero barbone che sta chiedendo l’elemosina.

Der letze Mann poi The Last Laugh è un prisma di cristallo zeppo di rimandi sociali e di soluzioni stilistiche tipiche dell’espressionismo cinematografico. In un Paese in piena recessione economica (1 uovo costava 320 miliardi di marchi svalutati) a causa dei risarcimenti imposti dopo la guerra (solo il 3 ottobre del 2010 la Germania, con un’ultima rata da settanta milioni di euro, estinguerà i debiti di guerra imposti dal Trattato di Versailles del 28 giugno 1919), Carl Mayer e Murnau raccontavano la tragedia della perdita di un dignitoso lavoro e l’umiliante scendere nella scala sociale.

Colpisce la precisone affilata nel ritrarre la velenosa indifferenza, al limite della crudeltà, del direttore dell’hotel. Atroce la cattiveria del genero, della moglie e, purtroppo, della amata figlia che non sa ribellarsi, quando gli chiudono la porta in faccia e lo caccino via. Tutto quello fatto dal padre di famiglia è già dimenticato. Lo amavano finché era “importante”, indossava la divisa e portava soldi a casa.

Estremo e senza pietà il godimento sadico delle vicine che gridano da una finestra all’altra la notizia del licenziamento del loro “rispettato” vicino (essendo il film muto, l’azione è risolta con la figura della sinestesia: con dei carrelli e rapidi panoramiche dalla bocca all’orecchio delle perfide vicine).

Il film di Murnau, subito considerato un capolavoro, introduceva delle nuove soluzioni sul piano estetico. Innanzitutto, è il primo lungometraggio del muto senza didascalie. Lo spettatore capiva tutto dalla recitazione, dalle inquadrature, dal montaggio. Alcune soluzioni di ripresa faranno scuola. Nella scena che apre il film, rivoluzionaria, la camera è dentro l’ascensore: vediamo la discesa attraverso i vetri della cabina, la hall avvicinarsi dall’alto, sino a raggiungere il piano; la porta si apre e la camera continua in carrello verso la porta girevole dell’hotel: una splendida soggettiva indiretta.

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La camera, raro per quel tempo, spesso è mobile. Nella sequenza della festa di matrimonio, quando il nostro è alticcio, e tutto intorno gli “balla”, Murnau traduce tale situazione legando la camera su una biciletta per un carrello circolare di 360 gradi nella stanza. Nella scena in cui, dopo aver preso la livrea dall’armadio, il protagonista corre attraverso la hall, con gli addetti alla reception appisolati, la camera prima lo segue in oggettiva (corretto) poi lo sorpassa divenendo una soggettiva indiretta (quasi sgrammaticando), per poi attendere che egli torni in campo.

Un ruolo giocano i simboli disseminai nel film. La porta girevole è la vita che passa, come anche il destino (è sulla porta che il vecchio capo-concierge scopre il nuovo capo che gli ha preso il posto). I bagni sono situati in basso, e le scale conducono lì, dove tu lavoratore non conti più, sei senza dignità.

La grande porta che divide l’ufficio del direttore dalla hall è di vetro. Murnau nella scena del licenziamento, tiene la camera di qua della vetrata. Il montante di legno della vetrata, fa da split screen: il nostro tremante apre la lettera, a destra dello schermo; a sinistra, il direttore seduto alla sua scrivania, con la sigaretta in bocca, fa i suoi conti. Due opposti mondi sociali: non possono comunicare.

Murnau non ci fa vedere gli anziani gettati sulle panchine delle piazze di Berlino, come farà poi Phil Jutzi in Mutter Krausens Fahrt ins Glück (1929, qui però i produttori erano appartenenti al Kommunistische Partei Deutschlands, KPD), ma il duro messaggio sociale, filtrato dalla Ufa, produzione di Stato, reso con delicatezza e poesia, è altrettanto forte quanto quello di un manifesto politico.



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