Se la bioeconomia può diventare un (vero) affare

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Economia

di Giovanni Vasso





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La decarbonizzazione può essere un affare, per tutti. Il governo s’è dotato, nei giorni scorsi, di un nuovo piano triennale (2025-27) di implementazione della strategia per la bioeconomia. L’obiettivo è ambizioso: rendere l’Italia una potenza verde (con un occhio sul Mediterraneo e l’Africa) in grado di cogliere, con la valorizzazione delle risorse, due traguardi importanti. Ossia, da un lato, la difesa della biodiversità e del territorio dal punto di vista ambientale. Dall’altro lo sviluppo delle cosiddette aree interne, restituendo loro centralità economica e strategica, grazie all’innovazione e alla produzione di nuovi prodotti e materiali biobased. Che, però, hanno bisogno di un quadro giuridico e normativo armonico ed efficace per imporsi sul mercato. Perché altrimenti, come spiega a L’identità Fabio Fava, docente di biotecnologie industriali presso la Scuola d’Ingegneria all’Università di Bologna e coordinatore scientifico del Gruppo di coordinamento nazionale per la bioeconomia presso il Comitato nazionale per la biosicurezza (a questo link il sito ufficiale), le biotecnologie e scienze della vita della presidenza del consiglio dei ministri, “senza normative e codici a sostegno dei prodotti e materiali biobased, diverrà complicato produrli e lo diventerà anche il trasferimento di molta conoscenza disponibile su scala industriale”. Già, perché sembra un paradosso ma, allo stato attuale, “tutti i prodotti biobased non hanno una classificazione che riconosca la loro particolarità e sono classificati come gli altri composti chimici e gli altri materiali: in pratica una bioplastica è riconosciuta allo stesso modo di un prodotto derivante dalla lavorazione del petrolio”. E ciò comporta conseguenze che, potenzialmente, sono rischiose: “Così non si può giustificare neanche il prezzo solitamente un po’ più alto, come farà a crescere un settore industriale al cui prodotto non venga riconosciuto il vantaggio che può avere, ad esempio, in termini di riduzione delle emissioni oppure, in qualche caso per la sua biodegradabilità nell’ambiente?”. Per questo uno dei punti focali del nuovo piano è giungere, come si legge nei documenti, a “promuovere un quadro legislativo chiaro, stabile e armonizzato, in grado di stimolare il mercato di alimenti e bevande, prodotti chimici, materiali, plastiche e carburanti biobased ottenuti da materie prime biologiche”.

Sì, perché la dicitura “bio” ci fa pensare immediatamente all’agroalimentare ma la bioeconomia è molto più vasta di così. “L’industria alimentare è il primo settore manifatturiero in Ue e solo per poco, in Italia, è secondo dietro la meccanica” afferma Fava. Che snocciola i dati per cui l’Italia può essere davvero una potenza bio: “Accanto a questa produzione, ossia all’agricoltura, allevamento, pesca acquacoltura e industria alimentare e delle bevande, c’è tutta la materia prima biologica non alimentare e quindi la produzione forestale boschiva che è importante nel nostro Paese che vanta 12 milioni di ettari di foreste e boschi; da questa ricaviamo legno ma anche composti chimici, materiali e biocombustibili ”. Verde sì, ma anche blu: “L’Italia ha 8000 km di coste e quella dell’agroforestale costiero come la produzione di biomassa marina algale e residuale  rappresentano una realtà molto importante che fa biomasse da destinare a usi non alimentari”. Si capisce, da questi numeri, che il Paese ha un capitale bio che può trasformarsi in un autentico tesoro. Capace di invertire il trend di una nazione che si va spopolando tra migrazioni interne e una sorta di nuova fuga all’interno delle città. “Il nostro è un Paese speciale – afferma Fava – con una biodiversità che è la più ricca d’Europa che va dal mare alla collina fino alla montagna. Ci sono zone che abbiamo trascurato, altre in cui i terreni non vengono più coltivati, e ogni anno sono sempre di più, perché, magari, non servono più all’agrifood. Il nostro è un territorio ricco di criticità ma anche di risorse da mettere a valore. Per farlo è necessario connettere i settori e dunque la filiera agroalimentare con quelle della valorizzazione integrata delle biomasse non alimentari e residuali per la produzione, ad esempio, di bioplastiche: così, valorizzando i territori, riusciremo anche a farci tornare i giovani”. Il tema delle bioraffinerie è decisivo. Perché si tratta di un settore in netta espansione, che garantisce la produzione di materiale dall’impronta di carbonio neutra e di restituire vita a intere zone del Paese che rischiano la desertificazione. E che ha imposto attenzione a tutto il pianeta: “Quest’anno il Brasile ha voluto un G20 trasversale interamente dedicato alla bioeconomia, ed è stato bellissimo. In molti incontri internazionali G7 E G20 si continua a parlare di triplice crisi ambientale, caratterizzata dal cambiamento climatico, dall’inquinamento e dalla perdita di biodiversità. Ecco, la bioeconomia può rappresentare uno strumento in grado di combatterla in ogni suo aspetto grazie, rispettivamente, all’abbattimento delle emissioni di carbonio, alla biodegradabilità dei prodotti e a una concezione dell’agricoltura più rispettosa della biodiversità e dell’ambiente”. E può farci guadagnare parecchio, sia in termini di fatturato che di posti di lavoro.


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