L’Africa oggi. Quale futuro senza pace e giustizia? Incontro a Roma

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[…] In Australia gli aborigeni non sono stati sterminati eppure si stanno estinguendo e le ricerche cliniche non sono in grado di scoprire le cause organiche; per i papua si tratta di una disperazione mortale, di una specie di suicidio, perché credono che i bianchi si siano impadroniti magicamente di tutti i loro beni; e forse che gli incas sono stati davvero annientati da quei crudeli banditi, da quello sparuto manipolo? E i muruti del Borneo del nord, che muoiono da quando sono in contatto con la civiltà, e prima ancora le razze cui si è portato l’alcool, quelle si sono annientate da sé, per la disperazione. […] non si capisce neppure perché i bianchi abbiano portato via i loro beni ai neri, non soltanto i diamanti e le noci, l’olio e i datteri, ma la pace in cui questi beni crescono, e la salute senza la quale non si può vivere (…)”1 scriveva Ingeborg Bachmann a metà degli anni Sessanta.

Mentre seguivo dal vivo l’evento organizzato presso la Casa della Pace grazie alla sezione ANPI Edmondo Riva, al Comune e alla Fondazione Angelo Frammartino Onlus, lo scorso 19 dicembre a Monterotondo con l’attivista congolese John Mpaliza, la cui conoscenza e amicizia arricchisce da anni la nostra vicinanza all’Africa, mi tornavano in mente queste riflessioni della Bachmann, in perfetta sintonia con il titolo dell’incontro: L’Africa oggi – Sfide e prospettive in un mondo che cambia – Quale futuro senza pace e giustizia? e in sintonia con il fil rouge che ha tessuto l’incontro dall’inizio alla fine. Eravamo, come sempre quando ci troviamo nella Casa della Pace di Monterotondo, davanti a quel ritratto di Angelo Frammartino, attivista ucciso a Gaza nel 2006, che ci sorride e in un certo senso ci parla.

Mpaliza ci fa soffermare su un punto decisivo – il punto nevralgico: generalmente si pensa che l’Africa sia sempre stata umiliata. Potremmo definire questa convinzione, aggiungiamo noi, anche un pregiudizio o uno stereotipo ma, sostiene Mpaliza, se continuiamo a piangere sulle nostre disgrazie non ci sarà mai un cambiamento.

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È la narrazione dell’intero continente africano che deve cambiare, è lo stereotipo della povertà africana che soffoca l’Africa perché l’Africa, invece, è ricchissima. Solo per citare qualche bene inestimabile: ha la seconda foresta pluviale più grande del mondo dopo l’Amazzonia, una delle più grandi riserve idriche sotto il deserto del Sahara Orientale per non parlare del petrolio.

Aleggia nella sala lo spirito di Patrice Lumumba, primo presidente dal 30 giugno 1960 dell’allora Congo belga, poi Repubblica del Congo ma allora colonia belga e di fatto un vero e proprio possedimento personale a partire dal 1885 del Re Leopoldo II del Belgio.

Anche l’educazione in generale negli Stati africani mirava a “plasmare” i colonizzati per facilitarne il controllo. D’altronde la nobiltà di Re Leopoldo II non risparmiava certo crudeltà. Come definire altrimenti azioni atroci come ad esempio far mozzare mani o gambe di schiavi africani qualora non consegnassero le quantità necessarie di caucciù?

Siamo orgogliosi sino nel più profondo del nostro animo di aver dato vita ad una lotta che è stata di lacrime, sangue e fuoco, perché si trattava di una lotta nobile e giusta e necessaria per por termine all’umiliante schiavitù che ci hanno imposto con la forza. Questa è stata la nostra sorte in ottant’anni di regime coloniale e le nostre ferite sono troppo fresche e dolorose per poter essere cancellate dalla memoria. Potremo dimenticarcene noi che conosciamo il lavoro estenuante che non ci permette di soddisfare la nostra fame, vestire e abitare con dignità, educare i nostri figli come si richiede? […] (dal discorso di Patrice Lumumba del 30 giugno 1960, in occasione della cerimonia di indipendenza del Congo).

Come non riconoscere lo stesso spirito di agognata indipendenza e libertà amato e praticato dal militare Thomas Sankarà, certo un militare molto sui generis, presidente dell’allora Alto Volta poi denominato, in lingua locale, Burkina Faso (Il paese degli uomini integri), altro personaggio di altissimo livello umano. Entrambi assassinati.

L’Africa non è povera, prosegue Mpaliza, non è quella strumentalmente raccontata dalla televisione che, infida, la dipinge consumata dalla povertà ma si guarda bene dallo spiegare e documentare perché ci sia tanta povertà, perché ci sia tanta fame, perché ci sia tanto sfruttamento minorile. Non c’è ragione di scavare sulle cause, agli occhi dell’Occidente “democratico” e civile, basta emettere puntigliose sentenze che stravolgano e colpiscano l’operato coraggioso e umano di ONG che si battono per la giustizia.

Come amare lo Stato della criminalizzazione delle ONG che salvano vite nel Mediterraneo – vite che le istituzioni italiane ed europee osservano affogare con compiaciuta indifferenza? si chiede Mimmo Lucano.

L’Africa è un paradiso dal punto di vista di risorse e questo non vale soltanto il Congo, che dal 1996 è vittima di un conflitto che ha generato oltre 7 milioni di profughi interni e oltre 10 milioni di morti.

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La Repubblica Democratica del Congo possiede l’80% delle risorse mondiali di coltan, minerale strategico per la tecnologia, il 70% di cobalto e poi litio, rame, tungsteno e altri minerali preziosissimi senza i quali la tecnologia mondiale si sgretolerebbe, mancando la ‘materia prima’. E che dire delle riserve del sottosuolo di petrolio, uranio, platino, oro e delle terre arabili? Quindi questa è l’Africa che va raccontata e sostenuta, non depredata. Ci sono precise dinamiche di approvvigionamento delle risorse che contrastano con l’indipendenza economica del continente africano.

Le principali sfide geopolitiche globali devono tener conto dell’Africa non come continente da sfruttare e calpestare.

Negli ultimi anni, e in particolare modo con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, stiamo vivendo in un mondo sempre più multipolare, sostiene Mpaliza. Da un lato, l’ancora dominante ma agonizzante Occidente, guidato da un nucleo costituito dai Paesi del G7, sotto lo scudo della NATO. Dall’altra, l’emergente e dinamica, ma ancora poco conosciuta in Italia, alleanza dei BRICS – il Brasile, la Russia, l’India, la Cina ed il Sudafrica, a cui nel  gennaio 2024 si sono aggiunti l’Egitto, l’Etiopia, l’Iran. l’Arabia Saudita e gli Emirati Uniti.

I BRICS oggi rappresentano il 37% del PIL mondiale e più della metà della popolazione mondiale. Questo blocco, sostiene Mpaliza, non essendo basato su un patto di aggressione o di protezionismo militarista attira moltissimo diversi Paesi stanchi della strapotenza degli Stati Uniti e della NATO e vedrà sicuramente altri allargamenti nei prossimi anni.

Questa situazione, che ormai rappresenta una frustrazione per i Paesi del G7 e per la NATO, si è accentuata e aggravata con lo scoppio del conflitto che si sta allargando in tutto il Medio Oriente (Palestina, Libano, Iran). In aggiunta la paura della concretizzazione di una guerra tra Stati Uniti e Cina. Tutto ciò ha portato verso una corsa per l’approvvigionamento di materie prime critiche e strategiche.

Per questa ragione l’Africa si trova a vivere un’altra guerra di conquista, essendo probabilmente il continente più ricco di risorse minerarie e fonti di energia, oltre ovviamente alla manodopera senza rivali: la popolazione africana ha raggiunto, ad oggi, 1,4 miliardi di abitanti e il 60% ha meno di 22 anni, cioè 800 milioni sono giovani con un’età media di 19 anni.

Nel 2050, prosegue Mpaliza, mentre tutti gli altri continenti vedranno diminuire in modo consistente la propria popolazione, quella africana sarà di 2,5 miliardi.  L’Occidente lo sa ed è probabilmente proprio questo dato a preoccuparlo, prima ancora della questione economica e delle risorse naturali.

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Tra i due poli è in atto una guerra di approvvigionamento che si sta combattendo sul continente africano. E come dice un proverbio africano, “quando gli elefanti combattono, chi ne fa le spese è l’erba”.

Chi vincerà tra Cina (BRICS) e Stati Uniti (G7)? Si spera che sia un terzo blocco, sostiene l’attivista, quello africano. Gli africani sono quindi chiamati a unirsi e a pretendere collaborazioni e rapporti dignitosi e win-win. Le sfide sono davvero tante e molto importanti. Se sarà in grado di costruire alleanze strategiche, l’Africa può affrontare questi cambiamenti e affermarsi come partner di valore nel contesto internazionale.

Molti Paesi africani si stanno avvicinando a questo nuovo mondo/polo, pretendendo di avere più partner, non più solo potenze europee come ereditato da contratti e accordi che hanno portato all’indipendenza. L’Africa, nonostante il suo contributo nelle due guerre mondiali e nonostante la sua popolazione, la superficie, il numero di Stati (54), la sua importanza strategica multisettoriale, continua a non avere una rappresentazione adeguata nelle istituzioni internazionali, ad esempio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’Africa è il continente di ieri, di oggi e del futuro. I giovani africani, sempre più istruiti, lo stanno capendo e non esitano a manifestare contro i presidenti dinosauri decisi e protetti dalle potenze occidentali.

Si stanno facendo più facilmente accordi economici con una Cina, sicuramente predatoria, ma che, al contrario dell’Europa, prende ma dove trova delle istituzioni solide contribuisce alla costruzione ad esempio di infrastrutture di cui i Paesi africani sono privi.

Per staccarsi da accordi militari con alcuni Paesi occidentali (Francia, USA) i Paesi africani trovano sostegno nella Russia, che ovviamente, ci racconta Mpaliza, non fa niente per niente, ma che è sempre stata dalla parte dell’Africa, anche durante la lotta per le indipendenze.

Un esempio di come sta cambiando l’Africa è rappresentato dall’AES (Alleanza Economica del Sahel: Burkina Faso, Mali, Niger), Stati oggi tutti controllati da giunte militari guidate da giovani soldati che erano stanchi di vedere massacrati i loro sottoposti e le loro popolazioni senza che l’Occidente dei diritti si impegnasse per evitarlo, come invece ha fatto nel conflitto ucraino-russo.

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La nascita della confederazione ha confermato il rifiuto da parte di Niger, Mali e Burkina Faso di continuare a far parte della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS). Il leader militare del Niger, il generale Abdourahamane Tiani nel suo discorso ha detto: «I nostri popoli hanno irrevocabilmente voltato le spalle all’ECOWAS. Spetta a noi oggi rendere la Confederazione AES un’alternativa a qualsiasi gruppo regionale artificiale costruendo una comunità libera dal controllo di potenze straniere».

Gli africani sono stanchi di questa politica dei due pesi e due misure perché l’Africa ha manodopera, risorse, energie. Il Piano Mattei ad esempio ha una chiara impronta colonialista ed è stato progettato senza coinvolgerli, dunque perché dovrebbero accettarlo?

Secondo Mpaliza le giovani generazioni sono consapevoli della necessità di impegnarsi per restituire dignità al loro continente, ristabilire come ufficiali le lingue africane originarie e non il francese, l’inglese, il tedesco e far tornare la loro agricoltura come all’epoca di Thomas Sankara. Vogliono costruire ponti con i giovani di tutto il mondo affinché un giorno, ci auguriamo non troppo lontano, l’Africa sia meta di viaggi anche di lavoro. Questo incantevole continente, ancora giovanissimo rispetto alla vecchia Europa, ha un potenziale inimmaginabile. Basta dargli la possibilità di esprimerlo.

  1. 1. I. Bachmann, Il caso Franza, Milano 1988

 

 

 

 

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