Oriente Occidente di Rampini | Il 5% del Pil e 50mila soldati sarà il «costo dell’Ucraina» per l’Europa (a prescindere da Trump)

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Cinque per cento del Pil e cinquantamila soldati da schierare in Ucraina, pronti a combattere davvero se Putin attacca di nuovo: è questo «il conto» che Donald Trump e l’Ucraina presentano all’Europa? Più i costi della ricostruzione, se l’Ucraina deve avere un futuro realistico, una prospettiva di rinascita, o addirittura un percorso di adesione all’Unione europea.

Cominciamo dal 5% del Pil. Trump per il momento non ha fatto richieste ufficiali: è quasi un miracolo, e posso essere smentito in qualsiasi momento, vista la raffica di esternazioni che sta facendo. Però dal suo entourage sono trapelate molte anticipazioni, nei giorni scorsi. Secondo queste indiscrezioni, al prossimo summit della Nato che si terrà a giugno all’Aia, il neopresidente americano presenterà agli alleati proprio questa richiesta: che aumentino i loro investimenti per la difesa fino a raggiungere il 5% del Pil. A fronte di un sostanzioso aumento dei loro impegni per la sicurezza del continente, alcuni europei avrebbero già ricevuto delle rassicurazioni: sulla tenuta della Nato e sulla linea di Washington in Ucraina. 




















































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Il cancelliere tedesco uscente, Olaf Scholz, dopo un colloquio telefonico con Trump si è detto «molto fiducioso che sia gli Stati Uniti sia l’Europa continueranno a sostenere l’Ucraina». Diversi consiglieri di Trump hanno fatto pervenire ai media angloamericani dei segnali identici, secondo cui dopo l’Inauguration Day del 20 gennaio il nuovo inquilino della Casa Bianca continuerà a fornire armi a Kiev. Questo non è necessariamente in contraddizione con la sua promessa di raggiungere un accordo rapido con Putin per un cessate il fuoco. Continuare a fornire armi a Kiev, magari addirittura aumentare questo sostegno militare, può essere un modo per mettere Putin alle strette, e migliorare la posizione (al momento debole) di Zelensky a un tavolo di negoziato. Trump, secondo alcune voci, sarebbe sensibile all’argomento per cui Kiev non deve diventare «la sua Kabul», cioè un simbolo di ritirata disastrosa come lo fu per Joe Biden l’Afghanistan nell’agosto 2021.

Anche sulla questione del 5% del Pil da destinare alla difesa, arrivano segnali da Mar-a-Lago che inducono a «interpretare» quel numero percentuale. Per esempio il Financial Times cita una fonte secondo cui Trump – com’è suo solito – la spara grossa all’inizio di un negoziato ma alla fine è pronto ad accontentarsi di meno. Alcuni alti esponenti della Commissione UE ritengono che il suo vero obiettivo è il 3,5%. È un obiettivo peraltro giustificato dalla realtà. Putin ha dimostrato di voler ricostituire la sfera imperiale dell’Unione sovietica, dal 2008 in poi le sue aggressioni ai paesi vicini sono state costanti, i «prossimi della lista» potranno essere gli ex Stati membri del Patto di Varsavia a cominciare dai Baltici. Un riarmo europeo a fini di deterrenza è urgente, a prescindere da Trump. Anche un graduale disimpegno degli Stati Uniti è uno scenario probabile nel lungo periodo a prescindere da Trump: fu Barack Obama il primo a lanciare la strategia del «riorientamento verso l’Asia».

Prendiamo come ipotesi di lavoro che Trump chieda il 5% per ottenere il 3,5%, una percentuale resa assai verosimile dal semplice fatto che gli Stati Uniti sono vicini a quel livello: le statistiche ufficiali della stessa Nato stimano per il 2024 una spesa militare Usa pari al 3,38% del Pil americano. Tra i paesi membri dell’Alleanza atlantica due sono già al di sopra di quel livello: la Polonia è prima assoluta con il 4,12% del Pil (sempre secondo i dati ufficiali Nato), l’Estonia è al 3,43%. Gli altri due Paesi baltici si avvicinano. Non a caso, quindi, i paesi che si sentono più minacciati dall’espansionismo russo sono anche quelli che dedicano maggiori risorse alla sicurezza, nazionale e collettiva. 

Un altro aspetto interessante: i due ultimi arrivati nella Nato che sono Finlandia e Svezia, pur venendo da una lunga tradizione di neutralità, sono ben al di sopra del 2% del Pil dedicato alla difesa, cioè hanno già raggiunto e superato quello che era l’obiettivo proclamato e accettato da tutti: non ai tempi del primo Trump bensì nel 2012 durante la presidenza di Barack Obama. Finlandia e Svezia, anch’esse vicine alla Russia geograficamente, avevano abbracciato una «neutralità armata», ovvero un pacifismo realista: per evitare la guerra è bene dissuadere gli aggressori. 

Le due maggiori potenze militari europee che sono Regno Unito e Francia, uniche due nazioni della Nato ad avere arsenali nucleari oltre agli Usa, anch’esse sono sopra il 2% e quindi rispettano gli impegni presi nel 2012 durante la presidenza Obama. Con l’eccezione della Polonia e dei Baltici, anche per Francia Inghilterra e paesi nordico-scandinavi salire fino al 3,5% sarà uno sforzo notevole, ma non impensabile.

L’Italia è un caso a parte. Non si avvicina neppure al 2% concordato con gli alleati dodici anni fa. In base alle statistiche Nato la spesa italiana per la difesa vale 1,49% del Pil. Peggio di noi fanno solo Canada Belgio Lussemburgo Slovenia e Spagna. E uno di questi paesi, il Canada, ha la scusante di trovarsi dall’altra parte dell’Atlantico per cui la minaccia russa può essere percepita come abbastanza remota dai suoi cittadini (anche se per la verità i russi insidiano i canadesi nell’Artico). Comunque il gruppetto degli inadempienti è piccolo. E sarà in difficoltà davanti alle richieste di Trump. 

Lasciamo stare il 5%, per l’Italia arrivare al 3,5% del Pil significa più che raddoppiare le risorse attuali dedicate alla sicurezza nazionale e collettiva. Non ci sono segnali che siano preparati a questo né il governo Meloni né l’opinione pubblica in generale. Non è stato fatto granché neppure per raggiungere quel 2% che è un impegno solenne assunto nel 2012. Né è stato fatto uno sforzo per spiegare agli italiani che le spese per la sicurezza non sono buttate via: nella misura in cui vengano usate per acquistare sistemi di difesa prodotti dall’industria italiana, creano occupazione e stimolano l’innovazione tecnologica (Stati Uniti e Israele sono due esempi in tal senso). Fatta salva naturalmente l’obiezione etica generale di chi pensa che il pacifismo sia l’unica soluzione: ma dovrebbe spiegare in modo concreto e credibile come i ramoscelli d‘ulivo fermerebbero Putin (contro le cui aggressioni, peraltro, non si sono mai visti cortei pacifisti).

Vengo alle altre condizioni per una «pace stabile» in Ucraina. Non sono meno problematiche. È ormai chiaro che un armistizio imporrà all’Ucraina di accettare dolorose amputazioni territoriali, profondamente ingiuste visto che quelle porzioni di territorio sono state occupate con un’aggressione illegale e criminale. Purtroppo la violenza paga, non è la prima volta che questo accade nella storia. Però affinché questa terribile concessione sia resa accettabile, il popolo ucraino ha diritto a garanzie sulla propria sicurezza futura: si deve cioè cercare di evitare che un armistizio sia solo una pausa prima della prossima aggressione russa. 

Conto e carta

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A tal fine molte fonti europee – non americane – stimano che ci vorranno dai 50.000 ai 60.000 soldati schierati come forza d’imposizione lungo i nuovi confini negoziati con Putin per un cessate il fuoco. Questi sono soldati che dovrà fornire l’Europa, non l’America, e non solo perché il nuovo presidente Usa sarà Trump: lo stesso Joe Biden aveva sempre garantito agli americani «no boots on the ground», cioè che mai e per nessuna ragione avrebbe mandato truppe statunitensi in Ucraina. Cinquantamila soldati pronti a combattere contro i russi: ecco un’altra sfida che coglie l’Europa e l’Italia impreparate.

Un altro argomento divisivo è emerso in un summit informale convocato a casa sua dal nuovo segretario generale della Nato, Mark Rutte. Per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina e anche gli aiuti militari, il presidente polacco ha proposto di attingere finalmente ai 260 miliardi di euro di riserve russe custodite presso le banche europee. Al momento queste riserve sono sequestrate per effetto delle sanzioni ma restano di proprietà di Mosca; gli europei e l’America si sono accordati per usare soltanto gli interessi che fruttano. Ma quando il capo di Stato della Polonia Andrzej Duda ha proposto di usare quelle riserve, è stato duramente respinto dal cancelliere tedesco Scholz, con l’argomento abituale: sarebbe una violazione di alcuni principi legali, come tale metterebbe a repentaglio la credibilità dell’euro e del sistema bancario europeo. L’argomentazione di Scholz è discutibile. Di sicuro quelle riserve consentirebbero di attenuare lo sforzo richiesto ai contribuenti europei: sia per la ricostruzione dell’Ucraina, sia per la sua protezione futura contro le aggressioni russe.

Come dimostra questo scontro Germania-Polonia, i problemi per il futuro dell’Ucraina non sono «il conto di Trump», non sono legati soltanto al suo arrivo, e neanche principalmente. Le divisioni fra europei, lo scollamento tra le loro opinioni pubbliche e la realtà, viene da molto più lontano. 

23 dicembre 2024, 18:45 – modifica il 23 dicembre 2024 | 18:47

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