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Il 6 luglio 1988 la piattaforma petrolifera Piper Alpha, situata nel Mare del Nord vicino alle coste di Aberdeen, in Scozia subì un incendio devastante che causò 167 vittime, 165 lavoratori della piattaforma (su 226 totali) e 2 addetti al soccorso. Si tratta, ancora oggi, del più mortale incedente mai registrato su una piattaforma petrolifera. Le indagini successive evidenziarono una catena di problematiche, dalla progettazione errata a errori umani, uniti a un eccessivo carico di lavoro, a strutture non adeguate a gestire le elevate quantità di petrolio trattate e alla ridotta manutenzione da parte della compagnia Occidental Petroleum e a una “rilassatezza” dei controlli delle autorità, che contribuirono a rendere inefficaci le misure di sicurezza e a ostacolare l’evacuazione dell’equipaggio.
La piattaforma Piper e i suoi collegamenti
La piattaforma Piper Alpha era parte di un sistema di estrazione off-shore (al largo delle coste) alla punta nord del Regno Unito, e rappresentava uno snodo cruciale della distribuzione del petrolio. Questa piattaforma inviava il petrolio estratto verso l’isola di Flotta, una delle isole Orkney, sede di un importante porto petrolifero attualmente controllato dalla società Repsol Sinopec Resources UK Limited; contemporaneamente, trattava il gas estratto dal suo giacimento e quello ricevuto dalle piattaforme limitrofe (la Tartan e la Claymore) per inviarlo verso la stazione di compressione MCP-01, a sua volta collegata con il porto di Saint Fergus nei pressi di Aberdeen.
L’intera struttura si era evoluta nel tempo per rincorrere ritmi produttivi sempre più alti della piattaforma e di quelle collegate, portando ad una estrema compattezza: i moduli di trattamento gas e stoccaggio di petrolio erano estremamente vicini alle strutture per l’equipaggio e il controllo della piattaforma.
L’incidente: esplosioni e incendi a bordo della piattaforma di estrazione
La piattaforma prevedeva, in ottica di sicurezza, diversi sistemi “ridondanti”, termine che indica la presenza di due elementi con stessa funzione. Purtroppo, negli ambienti produttivi la presenza di elementi gemelli è talvolta utilizzata per proseguire le attività in caso di manutenzioni, comportamento che ne elimina la funzione di sicurezza.
Durante i turni diurni del 6 luglio, erano stati eseguiti lavori nel modulo di compressione gas “C”: questo portò al fermo della pompa principale “A” e la rimozione di una valvola di sicurezza per riparazioni, rendendone quindi l’utilizzo pericoloso. Questi interventi del turno mattutino, non vennero segnalati direttamente alla squadra del turno di notte, ma semplicemente annotati su due diversi moduli.
Dopo poche ore, un guasto fermò la pompa “B” e la squadra notturna, ignara del pericolo, cercò di riattivare la pompa “A”: la mancanza della valvola di sicurezza e la chiusura insufficiente di una flangia nelle tubazioni portarono ad un accumulo di gas nel modulo C.
Il gas si incendiò, probabilmente a causa del contatto con superfici calde o per via di una scarica elettrostatica, portando alla prima esplosione che danneggiò immediatamente i confinanti moduli D (locali tecnici che contenevano, tra l’altro, le pompe diesel antincendio di sicurezza) e il modulo di separazione B, dove si verificò una seconda esplosione, per la presenza di petrolio grezzo.
Con la distruzione dei muri di sicurezza antincendio, inadeguati a sopportare esplosioni di questa portata, le fiamme si diffusero rapidamente al ponte superiore verso lo storage module, dove erano stati immagazzinati 1200 barili di combustibile . Le alte temperature portarono inoltre alla rottura della conduttura di gas in arrivo dalla piattaforma Tartan: da questa, il gas ad alta pressione generò un ulteriore incendio “a getto” nella parte inferiore della piattaforma, ripreso in diretta da una telecamera, come testimonia questo video.
La mancanza di elettricità e di coordinamento con le altre piattaforme
La distruzione dei locali tecnici impedì l’uso delle pompe antincendio custodite al loro interno, privando anche la struttura dell’elettricità e del secondo impianto di sicurezza, stavolta elettrico. In realtà, quest’ultimo avrebbe dovuto attivarsi automaticamente, ma era stato disattivato per questioni di sicurezza: visto che questo sistema captava acqua dal mare, le procedure operative prevedevano di fermarlo durante le operazioni del personale subacqueo, in azione quella notte. La mancanza dell’elettricità rese impossibile anche l’attivazione manuale di questo secondo impianto di sicurezza.
La mancanza di elettricità ebbe ulteriori conseguenze: non fu inviato alcun allarme ai moduli dove il personale alloggiava, e le comunicazioni con i soccorsi e con le piattaforme vicine furono ostacolate.
Per via dello scarso coordinamento, ma anche dei costi elevatissimi di un “fermo produzione”, l’invio di gas dalle piattaforme collegate non fu immediatamente interrotto. Se la più vicina piattaforma Tartan interruppe il collegamento indipendentemente e in tempi rapidi, dalla più distante Claymore il flusso di gas continuò ad arrivare alla Piper nella speranza che i sistemi di sicurezza contenessero i primi incendi. L’invio fu interrotto solamente 1 ora dopo, quando una quarta esplosione portò al collasso della struttura. Diversi moduli, compresi gli alloggi del personale, caddero in mare in seguito a questo scoppio, portando con se decine di lavoratori.
I ritardi nei soccorsi e nell’evacuazione
Le successive investigazioni evidenziarono l’impreparazione del supervisore di piattaforma (OIM), che perse la vita nell’incidente e, a detta di testimoni “cadde in stato di shock, non fu in grado di organizzare una difficile evacuazione”. Croniche mancanze di personale, promozioni-lampo di personale impreparato per coprire i ruoli di responsabilità e un carico di lavoro eccessivo furono certamente tra le maggiori cause del disastro.
Dei 226 lavoratori presenti sulla piattaforma, solamente 61 riuscirono a salvarsi decidendo, in mancanza di ordini precisi, di evacuare la piattaforma lanciandosi nel buio e nel freddo del Mare del Nord dai diversi livelli, compreso l’eliporto a ben 50 metri di altezza.
La scarsa attenzione e sorveglianza delle autorità Inglesi, favorite da politiche neo-liberiste e dagli enormi profitti derivanti dal settore petrolifero, contribuì ai bassi standard di sicurezza nelle piattaforme inglesi: la situazione fu già denunciata in un libro edito nel 1982 dal profetico titolo “L’altro prezzo dell’olio Britannico: sicurezza e controllo nel Mare del Nord”, denuncia che rimase però inascoltata.
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