Jacopo Cullin: “Vorrei raccontare Cagliari in una commedia romantica” | L’Intervista, Prima pagina

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Una volta, Jacopo Cullin disse che la risata è come una dipendenza. A guardare negli occhi il pubblico che assiste ai suoi spettacoli o ad una sua parte in una serie televisiva, c’è da dire che ha ragione.

Però ridurre Jacopo Cullin solo ad attore comico sarebbe un errore. Certo, in buona parte lo è. Il suo spettacolo, “È inutile a dire!”, compie sold out come se piovesse da anni. Nell’isola come nella penisola. Certo i ruoli in Lolita Lobosco e nei film di Paolo Zucca lo hanno imposto fortemente all’attenzione della critica, oltre che del pubblico.

Nella biografia di Jacopo Cullin però c’è tanto altro. C’è un film con Bellocchio (Esterno notte), la partecipazione a Napoli Milionaria, diverse parti nelle serie televisive, la regia di alcuni cortometraggi, un anno e mezzo a New York, gli inizi da animatore turistico, un personaggio a Zelig e tanti altri coi Lapola.

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C’è una vita che scivola addosso colma di sogni, di salite e discese, di maturità che viene e della spensieratezza che corre. Ed è in quell’istante che sono arrivate tante soddisfazioni.

Che periodo è per te?

Un bel periodo. Pieno di soddisfazioni. In realtà prosegue da qualche anno. Non riuscirei a racchiuderlo in poche settimane o pochi mesi. Dal lockdown in poi è iniziato un ciclo molto bello con lo spettacolo, le serie tv. Quindi è bellissimo.

Allora ritorniamo indietro. Che bambino eri e come ti sei avvicinato al teatro e alla comicità?

Mi ricordo che ero molto timido. Riservato. Come sono adesso. Quello non è cambiato. Ho lavorato sulla timidezza negli anni. Ero estremamente timido e bisognoso d’attenzioni. Mia madre lavorava tutto il giorno tutti i giorni. A 5/6 anni ho scoperto la risata, le barzellette. Imitavo le persone, la camminata. Mi ricordo che un giorno ho imitato la camminata di un uomo che zoppicava in ospedale. I miei parenti che ridevano e mi dicevano “non si fa, non si fa”, però nel frattempo ridevano. Poi far ridere a scuola è diventata pian piano una dipendenza. Mi è sempre piaciuto far ridere e stare al centro dell’attenzione. Non ero egocentrico, però fare la battutina al momento giusto alle persone mi dava piacere.

In una intervista recente, Carlo Verdone dice che è molto difficile in questo tempo storico trovare i personaggi da riportare poi nei film o a teatro. Nel tuo spettacolo porti in scena diversi personaggi. Hai trovato o trovi la stessa difficoltà?

Ora che ci penso, si. I miei personaggi sono nati 20 anni fa. Era un mondo e una vita diversa. Adesso c’è una sorta di omologazione. Non c’è più il personaggio, sono tutti nascosti in questa immagine che può andare bene un po’ per tutti. Non c’è più il gaggio, per dirti. Che aveva la “divisa” del gaggio. Lo trovi vestito con gli abiti firmati come chiunque altro. Era diverso, era più settoriale.

I personaggi cos’hanno di te e come mai funzionano così tanto dopo tanti anni?

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Hanno il mio punto di vista. Funzionano probabilmente perché sono personaggi legati a chiunque. Ognuno di noi ha conosciuto un ragazzino un po’ gaggio o un vecchietto di paese che parla in quel modo, o un poverello come il signor Tonino. Ci si rivede in persone note. Che potevamo incontrare tutti i giorni. C’è quasi un effetto Amarcord.

L’effetto amarcord è comprensibile in Sardegna, ma hai portato questi personaggi anche al di là del mare. Com’è stata l’accoglienza a Milano, Roma, Bari e nelle altre tappe? Hai dovuto cambiare qualcosa nelle dinamiche?

I vecchietti e i tamarri sono universali. Ne è la prova il fatto che il pubblico ha reagito nello stesso modo che in Sardegna. Un po’ dappertutto. Le dinamiche non le ho toccate, fanno ridere ovunque. Sono un po’ testardo da questo punto di vista: perché devo ridere per un napoletano, un romano, un pugliese, un toscano e noi dobbiamo adattarci? Allora ho detto: tengo le dinamiche identiche. Ho italianizzato qualche termine, ma neanche troppo. Volevo che il pubblico si informasse sul significato di alcuni termini sardi. A parte che capisce.. ad esempio, cosa vuol dire “murigare” si capisce.. (ride).. voglio comunque che diventino dei vocaboli per cui ci sia un minimo di sforzo da parte del pubblico. Dato che ormai non si sforza più nessuno. È dovere di chi fa questo mestiere smuovere la mente, le coscienze, la volontà di capire.

Non sei solo un comico. Sei un attore formato, hai lavorato tanto in tv. Com’è stato il passaggio dal teatro alle serie?

Molto naturale. Io ho iniziato dal teatro classico e non col cabaret. Di base c’è quello. Mi piace far ridere e sono felicissimo di riuscirci. Poi ho iniziato a lavorare in tv nel 2007 quindi ero già abituato. Adesso sono arrivato con una maturità diversa. Me la godo con serenità.

Con Rose Aste abbiamo constatato come sia sempre più crescente il gruppo di attori sardi che si sta facendo notare anche fuori dall’isola. I tempi sono maturi per un prodotto sardo in tv?

Penso di sì. Penso che abbiamo avuto la serie di Gianni Morandi a Carloforte, quindi evidentemente la maturità c’è. Non serve che ci siano molti attori sardi. Se penso a Lolita Lobosco girato in Puglia, di pugliesi ce n’erano pochi. C’era solo Lunetta Savino come protagonista. Siamo maturi come produzione, siamo super pronti. Una serie tutta sarda? Ci sarebbe da investire nelle scuole in ogni ruolo. Dall’attore al caratterista. Ci sono dei professionisti, ma che hanno imparato tutte su un set. Manca una scuola. Non significa essere meno preparati. A volte è più importante imparare sul campo. Però quando crei una scuola stai dicendo che vuoi investire in un campo e credi che il cinema possa essere un volano per l’economia dell’isola.

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Hai maturato diverse esperienze anche dietro una cinepresa. C’è nel futuro un progetto come regista?

Sì sì, certo. Mi piace moltissimo stare dietro la macchina da presa. A volte ho pensato che mi piacesse anche di più, onestamente. Perché mi piace lavorare con gli attori, metterli a loro agio. Essendo anche io attore, capisco le fragilità del momento. Ho anche un gusto mio estetico che vorrei provare ad utilizzare per un lungometraggio a breve termine. Cercherò di fare un film mio. Mi piacerebbe raccontare Cagliari, l’ironia sarda, che secondo me è ancora molto poco conosciuta. Siamo noti per essere accoglienti ma poco inclini alla commedia o alla comicità. Mentre secondo me siamo molto divertenti. Tutta la Sardegna ha dei lati poco conosciuti fuori dalla Sardegna.

Anche perché il rischio in questi anni è stato quello di rappresentare la Sardegna con una sfilza di stereotipi.

Verissimo. Volutamente col film di Paolo Zucca abbiamo utilizzato tutti gli stereotipi, ovviamente ridicolizzandoli. Quello che vorrei fare è raccontare una storia normale, una commedia romantica ambientata a Cagliari. Penso che la città si presti moltissimo. E che ci sia la possibilità di fare qualcosa di bello.

Sui social si parlava di te come un papabile nuovo protagonista della commedia – commedia romantica all’italiana. È troppo?

Macché troppo, anzi. Magari. Sarebbe bellissimo. Diciamo che quello è quello che piacerebbe fare a me. Hai la libertà di raccontare le tue storie facendo il regista, recitandoci dentro e facendola a casa tua, alla fine. È un po’ quello che fanno altri come Pieraccioni, Siani, ecc. Raccontano una Regione proiettandola in un contesto nazionale. Sono dei film che vengono visti ovunque, che raccontano delle storie universali, ma in un contesto piccolo come può essere un paesino della Toscana o della Campania.

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Hai un aneddoto di questi anni di carriera che quando ci pensi ti fa sorridere e star bene?

Uh, mamma mia.. più che un aneddoto, è un periodo in cui abbiamo portato in giro “L’uomo che comprò la luna”. Faceva molto ridere perché eravamo in concorrenza con gli Avengers. E avevamo avuto una media copia più alta degli Avengers. Eravamo su tutti i giornali per questa cosa qua. Quindi io e Benito Urgu dovevamo lottare con Capitan America e questa gente qua.

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