Tra i vari provvedimenti della legge Finanziaria 2025, approvata con la fiducia alla Camera il 19 dicembre e in via definitiva in Senato il 27 prossimo, uno in particolare riguarda Frascati: un beneficio di 300.000 euro, spalmato su tre anni, destinato all’Accademia ‘Vivarium Novum’ ospitata, dal 2016, nella prestigiosa Villa Falconieri. Una manovra la terza dell’attuale Governo, «che ha del tutto rimosso le condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone» come spiega, nell’intervista rilasciata a Castelli Notizie, Marco Grimaldi, capogruppo Avs alla Camera e componente della Quinta Commissione Bilancio
Può riassumere cosa è successo la mattina del 19 dicembre scorso alla Camera dei Deputati?
All’apertura dei lavori i membri del Governo erano assenti dall’Aula. Per questo le opposizioni hanno chiesto e ottenuto la sospensione della seduta. Il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il Ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani sono arrivati solo un’ora dopo, mentre la Presidente Meloni non si è mai presentata. Trovo tutto questo di una gravità inaudita. Ormai, purtroppo, siamo abituati non solo all’assenteismo di tanti deputati, ma degli esponenti del governo dalle sedute più importanti. Disertare la discussione generale sulla legge finanziaria, però, è una vergogna senza precedenti, che mostra in maniera lampante il disprezzo che l’esecutivo, innamorato del premierato, ha nei confronti del Parlamento.
Qual è il suo parere su questa Finanziaria?
Tagli alla sanità, al trasporto pubblico, ai servizi, alla scuola e all’Università: è una finanziaria che ha del tutto rimosso le condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone. Quella realtà in cui il Pil cresce dello “zero virgola”, la produzione industriale crolla da 21 mesi consecutivi e la domanda interna ristagna. In cui precarietà, lavoro nero e sommerso colpiscono 6 milioni di lavoratori, mentre l’evasione fiscale e contributiva ha toccato quota 82,4 miliardi di euro. In cui gli italiani a rischio di povertà assoluta sono il 25% della popolazione e oltre 4,5 milioni di italiani non si curano perché non possono permetterselo. Una manovra di austerity, infarcita di tagli al welfare universalistico, ma con uno sperpero di risorse per il Ponte sullo Stretto e soprattutto per gli armamenti. Una manovra da economia di guerra. E soprattutto, pervasa dal solito rifiuto di prendere le risorse là dove esistono in abbondanza: dai grandi patrimoni, dalle rendite, dagli extraprofitti, per restituirle ai salari e alla salvezza della sanità pubblica.
Se confermati, nel triennio 2024-2027 per gli Enti Locali vi saranno 4 mld di tagli e quasi 8 mld ai ministeri: cosa significherà praticamente?
Significa, nell’immediato, non sostenere i Comuni e gli altri enti locali nella realizzazione del PNRR, non consentire a chi ha aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale di riformulare il piano di riequilibrio, bloccare i trasferimenti per i servizi di rilevanza sociale (asili nido, servizi sociali, trasporto scolastico di studenti con disabilità); significa non aiutare i piccoli Comuni in dissesto o gli enti in difficoltà e con diffusa vulnerabilità sociale a risanarsi. Soprattutto, a livello di politiche nazionali, significa che continueranno a mancare più di 11 milioni per coprire il fabbisogno sanitario e 7.649 milioni per i rinnovi contrattuali del personale sanitario; che le liste d’attesa non saranno abbattute; che non risponderemo alle richieste di manutenzione da parte di scuole che sono in edifici costruiti per la maggior parte tra gli anni ’50 e i primi ’90. Significa non attuare un programma nazionale di adattamento climatico. E continuare ad assistere agli effetti distruttivi di frane, alluvioni, incendi, erosione costiera. Significherà, inoltre, non colmare il gap che esiste tra noi e l’Europa nelle politiche per il trasporto pubblico, in cui le nostre città sono le peggiori dell’Unione. Non risolvere la crisi abitativa, non rinnovare i contratti, non stabilizzare i precari.
Cosa comporterà negli anni a venire?
Il punto è questo: al di là dei vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea, che sono certamente limitanti, esistono modi molto diversi di gestire le risorse a disposizione. Si può promettere una riduzione dell’Irpef finanziata con un concordato preventivo e poi doverla rinviare a data da destinarsi, perché gli evasori – guarda un po’ – hanno preferito continuare a evadere e attendere un altro condono. Oppure andare a prendere le risorse là dove realmente sono: un’imposta ordinaria unica e progressiva sui grandi patrimoni sopra i 5,4 milioni di euro, da sola, coprirebbe un fondo per finanziare politiche per la salute, la famiglia, l’istruzione scolastica e universitaria, il diritto all’abitazione. Sono scelte politiche, l’austerità non è un destino fatale.
Potrebbe spiegare ai lettori di Castelli Notizie l’annuncio sulla “pensione per tutti a 64 anni” circolato in questi giorni?
Hanno spacciato quell’emendamento come la “cancellazione della riforma Fornero”: un mito salviniano sbandierato da inizio mandato e lontanissimo dalla realtà. Ma lo stesso Durigon (autore dell’emendamento, n.d.r.) ha dovuto ammettere che era rivolto a una platea minima, per di più a costo zero. La realtà è che hanno recuperato la “Rita” (Rendita integrativa temporanea), una norma del governo Renzi, che consente di andare in pensione 3 anni prima rispetto alla soglia della Fornero (67 anni) utilizzando i contributi versati ai fondi integrativi. Significa che la misura riguarda solo i lavoratori che hanno versato unicamente nel sistema contributivo, una stretta minoranza. E di fatto è una mossa per privatizzare ancora di più il sistema pensionistico, senza costi per lo Stato: un regalo ai fondi integrativi privati. Per la maggioranza, la soglia dei 67 anni non si sposta. E mai viene affrontato il tema delle pensioni da fame che attendono giovani e precari.
Sostegno ai redditi e alle famiglie sotto forma di ‘bonus’ settoriali, ‘categoriali’, parcellizzati, di lunga preferiti ad interventi strutturali e duraturi: a quale scopo?
Questa manovra è lo specchio di una frammentazione delle politiche che va insieme al loro definanziamento. Ciò che abbiamo ottenuto – il bonus psicologo a scuola, le risorse per gli insegnanti di sostegno, la stabilizzazione dei precari del Cnr, il sostegno al pluralismo dell’informazione, un (misero) rifinanziamento del Fondo per la morosità incolpevole – ha a che fare con bisogni cui si dovrebbe dare risposta attraverso il welfare universale, in ogni caso con interventi strutturali e corposi. Di fatto il disegno (non originale) di questa destra è depauperare e prosciugare progressivamente i servizi pubblici per favorire quelli privati. Si pensi alla sanità: nemmeno la pandemia ha invertito la tendenza (già in atto) di progressiva riduzione dei finanziamenti; le maggiori risorse stanziate sono state eccezionali e temporanee. Dal 2010, la spesa sanitaria ha imboccato una discesa senza fine e le previsioni di questa finanziaria sono di scendere, alla fine, al di sotto del 6% del PIL (quando secondo l’OMS è il 6,5% la soglia minima per garantire una sanità pubblica di qualità e accessibile a tutti). Ma il Governo Meloni pensa a tutt’altro: per esempio spingere la crescita del welfare aziendale e delle relative agevolazioni fiscali, ovvero incentivare la spesa privata e quindi privatizzare progressivamente la sanità. La logica dei bonus è quella di nascondere con interventi spot e di scarsissimo impatto una progressiva erosione dello stato sociale.
Sul Welfare universale Avs cosa ha proposto?
In questa discussione siamo stati gli unici a presentare un emendamento sul reddito di base. La cancellazione del reddito di cittadinanza è un vulnus che ha privato 500mila famiglie di una misura di sopravvivenza. È scomparso un principio di universalità presente in tutti i Paesi dell’Unione Europea e i destinatari del reddito di inclusione sono stati suddivisi in base all’età e alla composizione del proprio nucleo familiare, anziché al bisogno economico e di disagio. Con una logica punitiva, le persone sono state colpevolizzate per la loro condizione di povertà. Dal 1990 al 2020 in Italia si è perso il 2,9% del potere d’acquisto. Invece nella zona euro, è aumentato in media del 22,6%. Questo è stato possibile perché sempre più quote di reddito si sono spostate dal lavoro ai profitti. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al ’91: del 3,41%, ossia 1.089 euro. Nello stesso periodo, in Francia e in Germania sono cresciuti di più del 30%, in Spagna del 9,15%. Ignorare questo stato di cose e respingere, come ha fatto il Governo, una proposta seria sul salario minimo legale, significa in sostanza accettare un tessuto produttivo in cui a crescere sono i servizi a bassa qualificazione, mentre scompaiono posti di lavoro di qualità; spalleggiare imprese che non investono in tecnologia e produttività, ma vivono di tagli sul costo del lavoro. Gli azionisti negli ultimi quattro anni hanno reinvestito nelle loro società solo il 20% degli utili netti, l’80% è stato distribuito in dividendi.
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