Nell’Alto Adige contemporaneo dovrebbero tornare a valere il merito e il bisogno delle persone a prescindere dal gruppo di appartenenza. Il taccuino di Guiglia.
Il censimento linguistico che ha appena registrato – prima volta in cinquant’anni – non più il calo costante della comunità di lingua italiana, bensì l’aumento di quasi un punto in percentuale, è il selfie di un mondo che è finito. Correva l’anno 1972 e in Alto Adige entrava in vigore il nuovo statuto di autonomia speciale, cioè provinciale e non più regionale. Censimento e proporzionale etnica ne rappresentavano il capitolo più controverso.
Quell’anno il presidente degli Stati Uniti era Richard Nixon e l’Urss s’affidava a Leonid Breznev e al muro di Berlino. L’Unione europea -ma ancora non si chiamava così- era composta da 6 Stati, anziché dai 27 dell’attualità. A Parigi funzionava ancora la ghigliottina: accusate di rapimento e omicidio, due persone ci lasciarono la testa, letteralmente.
Al festival di Sanremo (edizione 22, la prossima sarà la numero 75), vinceva Nicola Di Bari. Gustav Thöni conquistava la seconda Coppa del mondo consecutiva e l’americano Fischer batteva il russo Spassky in una leggendaria sfida scacchistica.
Al Quirinale sedeva Giovanni Leone, Palazzo Chigi passava da Emilio Colombo a Giulio Andreotti. Il Pci eleggeva Enrico Berlinguer alla segreteria.
Il carosello dei personaggi e delle circostanze elencati ci riporta a un’epoca a metà tra l’archeologia politica e la preistoria: ghigliottina a Parigi, un brivido dietro la schiena che arriva fino alla Rivoluzione francese del 1789.
Il nostro tempo del computer, del telefonino e dell’intelligenza artificiale, il nostro mondo delle guerre ripugnanti alla frontiera d’Europa e dell’uomo che cerca la sua nuova frontiera su Marte, del clima che non ha più stagioni e della stagione geopolitica dell’Asia prorompente, è lontano anni luce da Breznev e dalle teste tagliate in Francia. Non sembra neanche figlio di quell’era in bianco e nero. L’era dei muri e dell’Occidente spaccato.
Anche il separatismo etnico della proporzionale fotografava, allora in Italia, un modo di pensare che oggi non esiste più. Oggi c’è l’Erasmus e si viaggia senza passaporto nella “nostra” Europa, dove la libertà di circolazione e l’incontro fra persone e culture sono acquisiti per sempre.
Del resto, il criterio della separatezza non rispecchiava neppure quell’Europa timida ed embrionale, quasi cinque volte più piccina dell’Ue nel presente. L’Apartheid, che significa, appunto, separatezza, era di casa in Sudafrica, non a Vienna o a Berlino, non a Londra o a Madrid.
Ma, se tutto cambia, non si comprende perché l’Alto Adige dovrebbe restare abbarbicato al passato che è passato per tutti.
Il censimento testimonia che, dopo mezzo secolo di “pacchetto”, le tre comunità qui conviventi hanno trovato un equilibrio radicato e definitivo. Non ci sono più pericoli di “marce della morte” per nessuno. E c’è posto per tutti in una Provincia che fa da sé a beneficio dell’intera società di cittadini italiani d’ogni lingua e di stranieri residenti.
L’autonomia è tutelata non già dal pomposo e pompato “ancoraggio internazionale”, che in punta di diritto è da riferirsi al solo Accordo De Gasperi-Gruber del 1946, ossia alla preistoria della preistoria. E’ tutelata dall’“ancoraggio nazionale” del moltissimo che ne è derivato per l’Alto Adige quale libera scelta del sovrano Parlamento della Repubblica italiana e degli accordi tra i rappresentanti politici di Roma e di Bolzano, che quel moltissimo hanno elaborato. L’autonomia è tutelata dall’“ancoraggio nazionale” della Costituzione, delle leggi costituzionali, delle sentenze costituzionali che la rendono inviolabile. Nessun Vladimir Putin potrebbe mai attentare all’autonomia altoatesina, che è parte viva dell’ordinamento nazionale. Lo stesso toponimo Südtirol è stato scolpito nella Costituzione italiana. Definitivamente.
E allora, poiché il tempo della rasserenata convivenza è finalmente sbocciato, poiché il 27% della popolazione che s’è dichiarata di lingua italiana è in piena armonia con la maggioranza che s’è dichiarata di lingua tedesca (68,61) e con la piccola, ma orgogliosa comunità ladina (4,41), la stabilità raggiunta dovrebbe essere al passo del mondo che cambia. Un mondo dove non può esserci più posto per la proporzionale, strumento riparatorio che doveva durare trent’anni -lo prescrive la stessa norma d’attuazione!-, ma che 52 anni dopo divide ancora tra noi.
Nell’Alto Adige contemporaneo dovrebbero tornare a valere il merito e il bisogno delle persone a prescindere dal gruppo di appartenenza. Vadano i più bravi, riconosciuti come tali da concorsi e curriculum, a ricoprire gli incarichi pubblici qualunque sia la loro lingua. Senza più “posti riservati” in nome dell’anacronismo, che nel 1972, l’era della diffidenza e della rivendicazione, poteva avere una spiegazione. Ma che con l’autonomia tatuata sulla pelle della Repubblica suona ingiusto, discriminatorio e penalizzante per tutti i cittadini, come soprattutto -ma non solo- nella sanità pubblica è sotto gli occhi di chiunque. Tant’è che la stessa politica altoatesina punta al minimo sindacale: deroghe alla proporzionale.
Paradossalmente, oggi sono esponenti di partito di lingua italiana a non voler archiviare una logica che alla fine “garantisce anche gli italiani”: meno posti, certo, ma almeno assicurati. L’alibi dell’aiutino.
Ma nel mondo che è già cambiato, la proporzionale non è più un totem: è semplicemente un modo oggi indifendibile per organizzare la società.
È finito per tutti il tempo delle stampelle etniche. Gli altoatesini d’ogni lingua sono più liberi, consapevoli e rassicurati, ha certificato il censimento.
Correva l’anno 2024.
(Pubblicato sul quotidiano Alto Adige)
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