Disastri e caldo, un annus horribilis. Nel 2025 serve una svolta ambientale

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Il 2024 è stato una sequenza di eventi climatici così spaventosi che la nostra attenzione non è più in grado di contenerli tutti: chi ricorda, al di fuori del Brasile, le 169 vittime e i 7 miliardi di dollari in danni per le alluvioni che hanno colpito lo stato del Rio Grande do Sul, con le immagini apocalittiche degli stadi di Porto Alegre trasformati in grandi piscine?

L’anno si è chiuso con la tempesta del secolo per l’arcipelago di Mayotte, territorio francese d’oltremare dove il ciclone Chido ha devastato le baraccopoli, distrutto le infrastrutture e messo in ginocchio a tempo indeterminato i servizi sanitari.

In autunno c’erano state le colonne di auto nel fango di Valencia, il peggior disastro nella storia recente europea, quello che (forse) ha cambiato la percezione della crisi nel continente. Negli Stati Uniti c’è stato il doppio colpo pre-elettorale degli uragani atlantici Helene – che ha portato la distruzione fin sugli Appalachi – e Milton, che è stato così veloce a intensificarsi nel golfo del Messico da far piangere un meteorologo in diretta tv.

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Lontano dalle percezioni e dai canali di informazione del nord globale, ci sono state le inondazioni devastanti che hanno colpito Kenya, Tanzania e Nigeria, quelle in Afghanistan, quelle in Nepal. C’è stata la peggiore ondata di calore nella storia recente del subcontinente indiano. L’Italia ha avuto una siccità estrema in Sicilia e Sardegna, che secondo gli studi di attribuzione è stata resa più intesa e probabile dalle emissioni di gas serra.

I sintomi più gravi

E questi sono solo i fatti che affiorano e che si possono misurare in modo puntuale in termini umani: vittime, danni. Poi ci sono le tendenze di lungo corso nel pianeta, la fusione ormai fuori controllo del ghiaccio marino in Artico, le crepe sempre più vistose nei ghiacciai dell’Antartide occidentale, il rallentamento dell’Amoc, la circolazione atlantica meridionale.

Queste sono notizie che non arrivano alla sezione cronaca o esteri, che rimangono confinate nelle brevi di scienza, ma sono i sintomi più gravi della crisi climatica, multe il cui pagamento sarà dilazionato nel tempo ma rischia di essere altissimo. Questa è la radiografia della Terra, anno 2024, il più caldo dall’èra pre-industriale, quindi probabilmente il più caldo mai affrontato dalla civiltà umana, secondo i dati sia dell’Organizzazione meteorologica mondiale sia del servizio europeo Copernicus.

Il problema è che il record di temperatura precedente era quello stabilito nel 2023. Il secondo problema è che il 2024 sarà il primo anno che la Terra avrà stabilmente trascorso sopra la soglia di sicurezza di +1.5°C, il primo limite di riscaldamento globale da non superare secondo l’accordo di Parigi. Per i parametri climatici è ancora solo uno sforamento temporaneo, la soglia potrà dirsi superata solo con un decennio stabilmente al di sopra di essa, ma è la prima volta che abbiamo un anno oltre quella soglia ed è un segnale sinistro, uno dei tanti scricchiolii del pianeta nell’anno che si sta chiudendo.

Non solo cattive notizie

Il 2024 è stato un anno complicato per la politica del clima a livello globale, ma prima di addentrarci nelle sfumature e nelle sottigliezze del negoziato diplomatico e di tutti i punti in cui si sta rompendo, ci sono altri fatti che devono essere messi sul piatto.

Non sono tutte cattive notizie: il 2024 sarà ricordato anche come l’anno in cui la transizione energetica ha iniziato a manifestare tutto il suo ritmo. Nel 2024, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) sono stati aggiunti 660 GW di rinnovabili ai sistemi energetici, nel 2030 saranno, secondo questi trend, 935 GW. La curva diventa sempre più verticale.

Il 90 per cento di queste aggiunte sono eolico e soprattutto fotovoltaico, fonte energetica che sta avendo una crescita soprattutto grazie alle aggiunte in Cina (che sono circa la metà del totale).

Nonostante questa crescita, che è promettente e che secondo la Aie ci permette di tenere in vista il picco delle fonti fossili negli anni ‘30, il 2024 sarà un altro anno in cui le emissioni risulteranno salite, anche se solo dello 0,8 per cento, invece che calate, come avrebbero dovuto. Il ritmo prescritto dalla scienza per tenere in sicurezza la vita umana sulla Terra sarebbe del 5 per cento ogni anno, e questo per darci almeno una possibilità su due di rispettare i parametri stabiliti dall’accordo di Parigi.

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Insomma, le cose si stanno muovendo, ma ancora troppo lentamente per l’urgenza di questa crisi. La quota nel sistema energetico di fonti fossili, quelle che contribuiscono per due terzi a questo vertiginoso aumento delle temperature globali, continua a non decrescere, è ferma da decenni all’80 per cento, questo perché i numeri di installazioni di fonti rinnovabili crescono, ma cresce anche la torta generale dell’energia: secondo i dati Ember la media dell’ultimo decennio è stata del 2,5 per cento ogni anno, ma nel 2024 è stata addirittura del 3,3 per cento o, in termini assoluti, +969 TW di energia elettrica.

Il problema è finanziario

Aumentano i bisogni, crescono i consumi energetici, per ora la transizione non riesce a tenere il ritmo dello sviluppo. Il 2024 è stato l’anno in cui tutte le Cop sono, in modi diversi, fallite, e tutte hanno riportato la stessa diagnosi: il problema è finanziario. Le risorse per questa grande riconversione globale ci sarebbero, ma non si riescono a trovare né il modo né la volontà politica di reindirizzarle.

È stato il risultato della Cop16 sulla biodiversità a Cali, in Colombia, che non è riuscita a dare risorse e gambe all’ambizioso obiettivo di proteggere il 30 per cento delle terre emerse e degli oceani entro il 2030, e si riaggiornerà a fine febbraio a Roma per provare a riuscirci. La maggior parte della biodiversità ancora da proteggere si trova nei paesi in via di sviluppo, che per farne una priorità rispetto alla crescita economica e sociale hanno bisogno di soldi, almeno 300 miliardi di dollari ogni anno.

È stato lo stesso imbuto in cui si è infilata, uscendone a fatica con uno stiracchiato e contestato compromesso, la Cop29 di Baku, in Azerbaigian, quella sul clima, la più importante delle tre. Per la decarbonizzazione globale e l’adattamento servono 1.300 miliardi di dollari all’anno, ne sono stati trovati meno di un terzo, da stanziare solo tra dieci anni, e con un misto di finanza pubblica e privata che ha scontentato tutti.

Infine, la Cop16 sulla desertificazione di Riad, in Arabia Saudita, la cenerentola della diplomazia ambientale, da cui è arrivato però l’invito più politicamente interessante: unire ciò che era stato diviso alla conferenza di Rio nel 1992, generando tre filoni di lotta ambientale a compartimenti stagni: natura, clima e desertificazione. Più di trent’anni dopo, possiamo dire che questo metodo non ha portato i risultati sperati, dal 1992 al 2024 le tre crisi non hanno fatto che aggravarsi.

“Ultima chiamata”

I motivi di questo peggioramento delle condizioni ambientali sono tanti, ma sempre più voci dal mondo della politica e della scienza chiedono una riforma del metodo di fondo che abbiamo usato finora, e questo sarà probabilmente il grande tema del 2025.

Gli ultimi a chiederlo sono gli scienziati che hanno curato il recente rapporto Ipbes, cioè Intergovernmental platform on biodiversity and ecosystem services, la rete Onu che fa sulla biodiversità lo stesso lavoro che Ipcc fa sul clima. La crisi climatica, la sesta estinzione di massa e l’insicurezza alimentare sono crisi intrinsecamente collegate e l’approccio a silos, cioè trattarle come se fossero temi diversi, non ha funzionato finora perché non può strutturalmente funzionare.

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Nel 2025 l’accordo di Parigi compie dieci anni e la comunità internazionale, per le coincidenze della storia, si ritroverà proprio in Brasile, dove tutto fu deciso nel 1992, per la Cop30, la conferenza sul clima che proverà a rilanciare e ristrutturare tutto l’approccio usato finora. “Ultima chiamata” è stato un concetto un po’ abusato negli ultimi anni, ma è probabilmente appropriato spenderlo per le due settimane che ci aspettano a novembre a Belém, nella foresta amazzonica.

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