Neanche le Feste sono riuscite a tenere a bada il livello di tensione registrato in Siria, dove le forti polemiche per l’incendio a un albero di Natale nel distretto cristiano di Hama arrivano a pochi giorni dalla caduta del regime di Bashar al-Assad durato quasi un quarto di secolo. Segnali di un equilibrio sociale sottilissimo a causa dei cambiamenti repentini in un Paese che ha vissuto «il peggior disastro umanitario dopo la Seconda Guerra Mondiale», secondo quanto affermato dall’Alto rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti umani.
In un contesto difficile che si trascina ormai da anni, il personale di Medici Senza Frontiere rappresenta un ingranaggio determinante nel sistema di aiuti per la popolazione, tanto nelle città quanto nei campi in cui trovano riparo centinaia di sfollati interni, composti per il 15 per cento da bambini. Tra un diffusissimo clima di violenza e povertà, frutto della guerra civile scoppiata all’indomani delle cosiddette primavere arabe a cavallo del 2011, il ribaltamento politico può rappresentare una concreta via d’uscita da un’emergenza altrimenti senza fine.
Per fare il punto sulla situazione in corso e analizzare la crisi sotto il profilo umanitario e sanitario, La Stampa ha raccolto la testimonianza di Carlos Arias, da tre anni coordinatore in Siria per Medici Senza Frontiere, che opera nel Paese con un team di 849 persone.
Com’è cambiata la situazione in Siria dal vostro arrivo nel 2011, proprio in concomitanza con l’inizio delle ostilità interne?
«Appena arrivati ci siamo subito resi conto di una situazione molto grave, soprattutto in relazione al numero di sfollati interni che oggi sono aumentati fino a raggiungere i cinque milioni e mezzo in tutto il Paese. In quindici anni abbiamo affrontato tanti momenti difficili in un contesto contrassegnato dalla violenza quotidiana, ma il terremoto del 2023 rappresenta senz’altro uno dei più tragici che è costato la vita a molte persone, compresi diversi componenti del nostro staff. Ci sono stati poi gravi danni a diverse infrastrutture essenziali, tra cui strade e ospedali: chi ha perso o famigliari o la propria casa sta ancora pagando forti conseguenze in termini psicologici».
Nelle scorse settimane la caduta del regime di Assad ha spianato la strada ad un avvicendamento politico in Siria: quali sono state le ripercussioni sulla popolazione?
«Prima della caduta del governo le condizioni di vita delle persone erano terribili, ma ancora oggi persistono numerose criticità: il 75% dei siriani versa in gravi condizioni umanitarie e oltre due milioni di sfollati risiedono nei campi profughi. Molti intravedono la possibilità di tornare a casa, ma tantissime aree versano ancora in condizioni drammatiche, senza acqua né elettricità, e con l’incubo delle mine antiuomo che causano spesso incidenti anche mortali in tutto il Paese».
Che impatto potrà avere, invece, sul vostro lavoro?
«In questi giorni stiamo avviando i dialoghi con le nuove autorità a Damasco per avere accesso alle aree precedentemente sotto il controllo governativo, in particolar modo nella capitale ma anche ad Aleppo, dove speriamo di avviare le nostre attività il prima possibile. È stato un cambiamento repentino che ha colto tutti di sorpresa, al momento siamo in fase di negoziazione ma siamo molto ottimisti, abbiamo colto segnali positivi sulla possibilità di espandere le nostre zone di lavoro per il bene dell’intera popolazione siriana. Intanto, guardando a un cambiamento già in atto, da una decina di giorni stiamo lavorando con pazienti provenienti dalle ex carceri governative che evidenziano chiari segni di tortura, ma nei prossimi mesi prevediamo che il numero possa salire ancora».
Recentemente il vostro responsabile delle attività di salute mentale a Idlib, Omar al-Omar, ha riportato la testimonianza di una ex detenuta oggi 27enne che trascorso otto anni a Sednaya, uno dei centri di detenzione del regime di Assad, le cui condizioni disumane sono state denunciate anche da Amnesty International. «È entrata in prigione con suo figlio che all’epoca aveva 3 mesi e oggi ne ha 8: non sa cosa sia un biscotto, un albero, o un giocattolo, non sa leggere né scrivere e ha visto sua madre subire abusi fisici e sessuali».
«Queste testimonianze sono orribili e arrivano da persone sottoposte a un enorme stress psicofisico: la loro prima necessità è il supporto psicologico, che riusciamo a fornire grazie ai tanti esperti del nostro team specializzati in queste situazioni drammatiche. Provvediamo a curare infezioni cutanee, casi di malnutrizione anche molto grave, avviamo percorsi ad hoc per chi ha subito violenze sessuali e disponiamo di professionisti esperti in psichiatria, fisioterapia e persino chirurgia plastica. In questo momento stiamo concentrando gli sforzi per coordinarci con le organizzazioni locali per fornire anche altre forme di sostegno, soprattutto legale ed economico, che risultano fondamentali su tutto il territorio siriano: c’è bisogno di denaro, acqua, cibo e un riparo permanente, sia per chi vive nelle tende sia per chi ha perso la propria abitazione».
Quali sono le altre attività svolte dal personale di Medici Senza Frontiere in Siria?
«In attesa di nuovi sviluppi, il nostro team ha accesso solamente all’area Nord-Est del Paese, dove supportiamo sei ospedali fornendo tutto il supporto necessario, dal reparto neonatale e pediatrico fino alla chirurgia, le vaccinazioni e il sostegno psicologico. Inoltre, siamo presenti in dodici centri di primo soccorso e possiamo contare su sette cliniche mobili, preziose alleate per raggiungere le aree più remote. Nel corso del 2024, da gennaio a novembre, abbiamo effettuato oltre 600mila visite, mentre da dicembre sono partite una serie di attività mirate: trasfusioni, interventi chirurgici e il sostegno a oltre 200 famiglie con tende, kit per l’igiene personale, lenzuola, coperte e materiale per riscaldarsi e far fronte all’emergenza freddo».
Ancora sul tema degli sfollati interni: esistono progetti dedicati espressamente a loro?
«All’interno dei campi in cui risiede la popolazione sfollata svolgiamo numerose attività, in particolar modo per i bambini, a partire dalla prevenzione e la riabilitazione fino al supporto psicologico, sempre in stretta collaborazione con le autorità che hanno in gestione queste porzioni di territorio. I nostri mobile teams specializzati si recano nei campi per trasportare i pazienti negli ospedali delle città vicine e per svolgere visite e fornire cure pediatriche ai più piccoli direttamente in loco: è un’attività molto importante se consideriamo l’incremento dei profughi a partire dal 2011, quindi il fatto che molti bambini vivono all’interno di queste strutture da quando sono nati e senza avere la possibilità di uscire per ragioni economiche o sociali, con i campi che per loro rappresentano quindi la normalità».
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