Il pontefice, non da oggi, sceglie di enfatizzare e sfruttare la sua fragilità per indicare il declino delle condizioni del mondo “al di qua”. Un messaggio potente anche per i laici. Ci dice che le forze statuali e politiche non sono in grado di fermare la nuova era dei conflitti
Nel tradizionale rito dell’apertura della porta santa della basilica di San Pietro, e con essa l’apertura dell’anno santo, papa Francesco non ha spinto la porta per aprirla, ha bussato. Nello primo Giubileo in tempi di guerra, anzi nel Giubileo che si celebra in quella che ormai possiamo con desolazione definire la nuova età della guerra, quel suo bussare dice qualcosa di peculiare.
Per entrare nell’anno santo, non vi è dunque una forza che autonomamente e autorevolmente è in condizioni di aprire la porta.
Un mondo debole e disabile
Il papa, seduto nella sua carrozzina, si presenta a quella soglia come un malato, un disabile, un uomo indebolito dalla malattia. Il papa, con questa sua scelta – ed è una scelta, perché ieri, all’apertura della porta del carcere di Rebibbia a Roma, ha scelto di presentarsi in piedi – rappresenta la società in piena malattia. Il papa, non da oggi, ha scelto di mostrare, se non di enfatizzare e sfruttare, la sua condizione fisica di fragilità anche in un rituale sacro e spirituale, per indicare la decadenza delle condizioni generali della convivenza civile del mondo, precarie se non disfatte.
Il messaggio simbolico è potente: di fronte alla decadenza dell’esterno, è dall’interno che si deve aprire la porta, è dall’interno che arriva la misericordia e la speranza, e non è un caso che questo Giubileo sia quello della speranza.
La speranza dei laici
La speranza cos’è? Per i credenti, per quello che possiamo capire forse solo intuire noi laici, è che per la salvezza bisogna ricorrere a un ambito superiore, perché gli uomini di questo mondo non sono in condizione di poter autonomamente salvarsi. Per noi laici, e qui posso dire con maggiore cognizione, la speranza è la fiducia in questo nostro mondo, nonostante i segni di decomposizione.
Il messaggio per i laici è importante, per le sue conseguenze logiche. È in decadenza l’intero complesso della società, la quale non è in condizione di compiere autonomamente il suo passaggio alla fase nuova: deve bussare. Vale per il mondo civile, sociale e politico, eppure vale, sembra dirci il papa, vale anche per il mondo religioso. In questa grave debolezza è anche la chiesa, le chiese, le fedi.
Il papa siamo noi
Il papa dunque in questo rito rappresenta la chiesa ma anche la società tutta: il pontefice ha dunque un giudizio profondamente radicale della condizione di decadenza delle vicende mondane. Non solo le forze statuali, quelle politiche quelle sociali, ma anche le grandi autorità spirituali non sono in condizione di essere protagoniste dell’apertura di una fase nuova: sono richiedenti di un atto misericordioso da parte di chi sta nella parte spirituale superiore, nell’aldilà.
Noi estendiamo questa valutazione al campo politico. Il giudizio del papa ci appare simile al nostro. E ci interroghiamo se sarà anche quello del capo dello stato Sergio Mattarella quando, fra pochi giorni, pronuncerà il suo discorso di fine anno. Ci spiegherà se il popolo italiano è in condizione di aprire la porta del nuovo anno, o è in una condizione in cui deve sperare che qualcuno che la apra.
Ma chi ormai in condizione di farlo? In questi ultimi tempi, dobbiamo prendere atto che è mutata radicalmente la valutazione oggettiva dei termini della discussione politica del paese. L’opposizione stenta a rendersene conto: non siamo in presenza di una dialettica fra forze politiche, magari anche molto diverse, siamo in presenza del diffondersi di una malattia che ogni giorni di più ha i caratteri della gravità, vogliamo sperare non irreversibilità.
Le ondate del populismo
Da anni assistiamo al rincorrersi di forze politiche che si gonfiano del voto populista e che si giovano del non voto astensionista per arrivare al governo. Oggi è il turno del melonismo, che sembra aver conquistato il dibattito pubblico.
Ma sbaglieremmo noi, e sbaglia la sinistra, a leggere questo fenomeno come una, l’ennesima o la più recente, delle ondate populiste di questi decenni, dal grillismo al salvinismo fino a oggi, appunto. Il melonismo è una malattia grave del populismo, sta cambiando i termini della costituzione e cioè i principi della convivenza conquistati con la lotta delle forze democratiche contro il nazifascismo. Non è né deve essere scambiata come una forza sostitutiva della dialettica politica ordinaria.
La malattia del sistema
Ma a differenza della fede del papa nella dimensione superiore, la politica italiana non può aspettarsi il miracolo della salvezza dall’alto. E la sinistra non può continuare a considerare il melonismo come una forza politica su cui provare a prevalere, ma deve leggerne la natura di malattia grave del populismo, capirne la genesi, per trovare la profonda cura necessaria al paese.
Ci torneremo nei prossimi giorni. Il melonismo non è un movimento politico, è una malattia del sistema in decadenza. Riponiamo la nostra speranza nel messaggio del capo dello stato, garante e interprete della nostra costituzione.
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