Il neoliberismo globale, che fallimento: solo nuovi conflitti

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Sulla scena mondiale si stanno delineando due centri di potere: Stati Uniti e loro alleati da un lato; Cina e Russia dall’altro. Invece di superare i conflitti, ne sono stati generati di nuovi e di più pericolosi. È fallita la politica economica, ma è fallita soprattutto un’idea di uguaglianza. Che va recuperata con un salto di paradigma

Gli anni Novanta del secolo videro la piena affermazione dell’ideologia neoliberale. L’Unione Sovietica si era dissolta e i governi di ogni colore, dall’Europa agli Stati Uniti ai Paesi in via di sviluppo, liberalizzavano, privatizzavano e riducevano le protezioni sociali. In questa ideologia non vi era solo una concezione dell’efficienza economica, ma anche un’idea di socializzazione: contrapposto al potere dei governi e delle istituzioni, il mercato era visto come il terreno privilegiato per lo sviluppo delle libertà individuali, peraltro in linea con un’antropologia, priva di riscontri oggettivi, che fa risalire al “selvaggio barattante” dell’alba dell’umanità il comportamento finalizzato all’utile economico. Realizzando l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani nella democrazia e nell’ordine di mercato, si sarebbe raggiunta nientedimeno che la “fine della storia”. Ciò non significa, sottolineava Fukuyama nel suo saggio del 1989, che non ci sarebbero più stati fatti storici, ma non ci sarebbe più stata contrapposizione tra diverse forme di convivenza umana. All’insegna dei valori dell’Occidente, la mercificazione delle relazioni umane avrebbe avuto una valenza universale, scongiurando così il rischio di conflitti su larga scala tra le nazioni.

Nel 2001 la Cina entrò nell’Organizzazione mondiale per il commercio. Oltre a favorire la delocalizzazione e a mettere i lavoratori dei Paesi avanzati in competizione con quelli mal pagati e privi di protezioni sociali della Cina, l’idea era che anch’essa, come la Russia, avrebbe aderito al modello sociale dell’Occidente. Ma la storia non si è sviluppata secondo questa direttrice.

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Tra il 2007 e il 2011 l’Occidente è stato investito da una gravissima crisi finanziaria, le cui cause risiedono proprio nell’idea dell’autoregolazione dei mercati. Stati e governi, che secondo l’ideologia neoliberale dovevano restare fuori dall’economia, sono pesantemente intervenuti, e non già per sostenere quelle fasce sociali impoverite dalla globalizzazione e dalla crisi stessa, ma a vantaggio di quelle oligarchie che dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione avevano ricevuto i maggiori benefici. La crisi dell’ordine neoliberale, negli anni, ha prodotto proteste e instabilità politica in importanti Paesi occidentali quali Grecia, Regno Unito, Italia, Francia, Germania e Stati Uniti.

Accanto a questa crisi interna all’Occidente, la Cina ha sfruttato l’accesso ai mercati mondiali non solo per far uscire dalla miseria centinaia di milioni di cittadini, ma anche per competere con l’Occidente in settori innovativi quali i chip ad elevata capacità di calcolo, l’intelligenza artificiale, l’energia solare ecc. La Cina possiede inoltre posizioni decisive nel campo dell’estrazione di numerosissimi materiali indispensabili per le tecnologie più avanzate. Gli Stati Uniti e i Paesi occidentali, pur avendo delocalizzato molte fasi della produzione, al momento mantengono il controllo di alcuni passaggi chiave delle catene del valore più innovative. Ad esempio la Nvidia è all’avanguardia nella progettazione dei processori grafici, ma lascia la loro realizzazione ad imprese collocate a Taiwan, Singapore e nella Corea del Sud. I prodotti finiti, come gli iphone della Apple, sono assemblati in Cina e infine venduti in tutto il mondo. Per portare un altro esempio, l’Asml, società olandese che vende attrezzature indispensabili per produrre i chip più sofisticati, realizza i suoi prodotti assemblando macchinari che acquista dalle più avanzate imprese del mondo. Ma questa globalizzazione dei processi produttivi rende precario per i Paesi di più vecchia industrializzazione il mantenimento del loro predominio tecnologico. Sulla scena mondiale si stanno pertanto delineando due centri di potere: Stati Uniti e loro alleati da un lato; Cina e Russia dall’altro. Ciascuno di essi cerca di consolidare le alleanze con i propri partner e di sfruttare gli strumenti di cui dispone. Gli Stati Uniti hanno dalla loro il controllo di alcune delle tecnologie più avanzate, una potenza militare senza eguali e il dollaro, moneta chiave per gli scambi internazionali. Essi inoltre, tramite le grandi imprese tecnologiche, controllano le reti globali di comunicazione. Seguendo una linea di politica economica che ormai prescinde da chi guida il Paese, gli Stati Uniti cercano di difendere la propria supremazia usando per questa finalità anche regole e istituzioni comuni. Dazi, sanzioni, friendshoaring (cioè spostamento delle produzioni delocalizzate in Paesi amici) sono gli strumenti utilizzati per raggiungere questo obiettivo. La Cina dal canto suo ha sviluppato una capacità industriale che non ha eguali e della quale anche gli Stati Uniti non possono fare a meno. Memore della colonizzazione e delle umiliazioni subite nel passato, essa si è data come obiettivo quello di colmare il gap tecnologico che la divide dall’Occidente. Oggi però essa vede colpiti i propri interessi con dazi commerciali che alterano le regole del gioco, quasi che il libero commercio fosse un valore quando il dominio globale restava saldamente nelle mani dell’Occidente, e possa essere manipolato per mantenere i vecchi equilibri di potere.

Va anche ricordato che la Cina, assieme ad altri Paesi quali Russia e Arabia Saudita, possiede una parte consistente del debito estero degli Stati Uniti, debito accumulato grazie agli attivi commerciali. Essa cerca di usare il suo potere d’acquisto anche per comprare imprese e tecnologie nei Paesi avanzati, incontrando veti e ostilità da parte di americani ed europei. In un sistema di mercato il creditore dovrebbe essere libero di disporre a proprio piacimento dei propri fondi, ma gli Stati Uniti, come si è detto, pongono veti alla presenza cinese cercando di ostacolare in ogni modo l’ascesa del Paese.

Anche la Russia vede l’Occidente usare come arma di guerra i meccanismi economici e finanziari internazionali. Essa, infatti, dopo l’invasione dell’Ucraina si è vista esclusa dai circuiti finanziari ed è stata privata dei fondi accumulati grazie alla vendita delle proprie materie prime energetiche. La potenza atomica della Russia e la potenza industriale della Cina si trovano dunque affiancate nel tentativo di contestare il dominio degli Stati Uniti su meccanismi e istituzioni che dovrebbero definire le regole della convivenza comune.

Venendo all’Europa, è possibile scorgere una similitudine tra i problemi del continente e quelli che attualmente attanagliano l’ordine economico globale. A seguito delle terribili guerre dei primi decenni del Novecento, si è pensato che la colpa di quelle distruzioni fosse nella volontà di dominio degli Stati nazionali. Dunque, per assicurare la pace, sarebbe stato necessario limitare il loro potere costruendo un ordine e delle istituzioni sovranazionali basati sulle libertà economiche. La crisi del progetto europeo è il frutto del fallimento di un’idea di integrazione la quale, piuttosto che far leva su quel “modello sociale europeo” che aveva garantito democrazia e benessere proprio tramite i poteri statali, ha mirato alla sua distruzione. L’idea che l’Europa possa superare le proprie difficoltà e svolgere un ruolo nel mondo aumentando le sue capacità militari – idea espressa da Gentiloni in un’intervista al Foglio del 16.12.2024 – è la lampante espressione del fallimento di quel progetto.

Per concludere, la globalizzazione neoliberista ha prodotto un mondo dove, piuttosto che superare i conflitti, ne sono stati generati di nuovi e di più pericolosi. È fallito non solo un insieme di prescrizioni di politica economica, ma è fallita soprattutto un’idea di uguaglianza che avrebbe dovuto unire tutti i popoli della terra. Oggi non è proponibile né un ordine mondiale basato sulla contrapposizione militare, né è auspicabile il ritorno ad un precario equilibrio fondato sulla minaccia della totale distruzione reciproca, come quello della guerra fredda. L’utopia da perseguire è quella di un mondo rispettoso delle diversità di culture e ordinamenti, ma governato da principi universalmente riconosciuti. Questi principi, certo, devono comprendere la regolazione delle dispute e degli squilibri commerciali, ma devono presupporre un’idea di umanità che vada oltre quel “selvaggio barattante” su cui sono fondati la teoria economica e le prescrizioni politiche neoliberali.

L’autore: Già docente di economia politica, Andrea Ventura è autore di numerosi saggi, fra i quali “Il flagello del neoliberismo” (L’Asino d’oro edizioni). Per la stessa casa editrice ha curato il saggio “Pensiero umano e intelligenza artificiale”.

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