“Io carabiniere nel team che identificava le vittime”

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Comandante Andrea Giacomini, dov’era il 26 dicembre 2004?

“Ero carabiniere e lavoravo al Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche (RaCIS), da cui dipendono i Ris di Parma, Roma, Messina e Cagliari, che si occupa delle investigazioni scientifiche dell’Arma dei Carabinieri. Ero a Roma e si stava costituendo il Dvi (Disaster Victim Identification), team che si doveva occupare dell’identificazione delle vittime di disastri, a livello internazionale”.

E un disastro il giorno di Santo Stefano di vent’anni fa successe…

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“Sì, il terremoto e lo tsunami che colpirono anche la Thailandia”.

Cosa ricorda di quel giorno?

“Avevo 30 anni, ero in licenza, nelle Marche, e mi chiamò il colonnello del RaCIS per chiedermi se ero disponibile a partecipare a questa missione: bisognava partire subito. Andare nel teatro operativo di un evento come quello prevedeva una profilassi sanitaria con anticolera, antitetanica che richiedeva immediata disponibilità. Io rientrai subito a Roma, preparai i bagagli e il 31 dicembre fui portato in Thailandia con un volo da Roma a Phuket, la capitale. Con me c’era un altro maresciallo, un collega biologo forense di riconosciuta fama, che oggi è uno dei dirigenti della banca dati nazionale del Dna, il colonnello Giuseppe Iacovacci, il primo al mondo a estrapolare il Dna da una traccia biologica di soli 2 picogrammi, raccolta dalle stanghette di un paio di occhiali”.

Cosa avete visto davanti ai vostri occhi all’arrivo?

“La notizia era su tutti i tg da giorni e avevamo visto la devastazione. La fascia costiera era la più toccata, travolta dallo tsunami, mentre l’entroterra e l’aeroporto non erano stati colpiti”. Qual è l’immagine che le è rimasta più impressa nella memoria?

“Il quantitativo enorme di cadaveri. L’esercito thailandese nelle primissime ore aveva raccolto i corpi in un tempio buddista a Krabi, a sud di Phuket, che faceva riferimento alle Phi Phi Islands. Era uno dei quattro punti di raccolta dei corpi. Così tanti cadaveri li avevo visto prima di allora solo nelle foto in bianco e nero dell’Olocausto. Fu particolarmente forte, tant’è che il mio collega, già padre di due figli, era in difficoltà soprattutto alla vista di cadaveri di bambini”.

Tra le vittime in Thailandia ci fu anche un bimbo ravennate di soli due anni e mezzo, che purtroppo morì, Alex Ceotto. Si ricorda l’episodio?

“L’ho scoperto a Ravenna qualche anno fa da un articolo scritto in occasione di un anniversario dell’evento e ho ricollegato. Vent’anni fa ci diedero la lista dei dispersi e conoscevo un po’ le storie”.

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Si occupò lei dell’identificazione?

“L’identificazione delle vittime è avvenuta molto tempo dopo. Tutti i team lavoravano su 30 o 40 cadaveri al giorno e si compilavano schede post portem che poi andavano confrontate con quelle ante mortem compilate in patria, nelle quali venivano raccolte radiografie dentarie, campioni dna, cicatrici, tatuaggi. Quella dell’identificazione è una procedura andata avanti per quasi due anni, un lavoro estremamente complesso con persone disperse – non gli italiani che furono riportati tutti in patria – che non risultano più tornate a casa”.

Lei per quanto restò in Thailandia?

“Restai fino a fine gennaio: ci si avvicendava con altre squadre, man mano che veniva effettuata la profilassi sanitaria, e veniva portata la strumentazione necessaria per autopsie, prelievi di Dna, assunzione di impronte digitali. Io, da analista di laboratorio specializzato in investigazioni scientifiche, mi occupavo in particolare di assunzione di impronte digitali e compilazione schede”.

Cosa le è rimasto di quell’esperienza?

“Da un punto di vista professionale è stato molto formativo operare in quell’ambito, con le polizie scientifiche di altri Paesi come quelle australiane, molto abili, tant’è che divennero i gestori dell’attività, o quelle israeliani, le migliori”.

E al rientro a casa ricevette l’encomio…

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“Sì, fummo encomiati dal comandante generale dell’Arma”.

Dal punto di vista personale cosa le resta dell’esperienza in Thailandia?

“Tutti gli operatori turistici erano disoccupati e io e il mio collega ingaggiammo due ragazzi, uno come autista e uno come guida, che pagammo con i nostri soldi: furono molto disponibili con noi in quei giorni. All’esterno del tempio c’erano le foto dei cadaveri e ogni giorno si ripeteva la scena straziante di persone che esaminavano decine di migliaia di foto e ogni tanto qualcuno riconosceva un parente e la reazione era di disperazione”.



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