Nelle ultime settimane che hanno visto la caduta del regime di Bashar al Assad in Siria, un nome non è stato quasi mai citato: quello del gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, oppositore strenuo della dittatura prima, e del fondamentalismo islamico poi.
Scomparso a Raqqa il 29 luglio del 2013, per mano degli integralisti dell’Isis, di lui non si è saputo più nulla. Di certo, il fatto che la sua voce sia stata cancellata, ha fatto comodo a molti; al regime, che lo aveva espulso dal paese nel 2012, dopo trent’anni di permanenza in Siria dove aveva fondato la comunità monastica di Mar Musa, dedita all’incontro fra cristiani e musulmani, e anche ai gruppi fondamentalisti per i quali il modello di convivenza che proponeva, così come l’impegno che, fino all’ultimo, aveva messo per costruire un’opposizione democratica che garantisse tutte le componenti della società siriana, costituivano un ostacolo e un intralcio. Senza dimenticare le gerarchie ecclesiastiche locali, fedeli ad Assad, che accettavano di buon grado la protezione dei militari in cambio del silenzio sulle malefatte del regime.
Di lui non si sa nulla
Nei giorni scorsi, solamente il cardinale Matteo Zuppi ha voluto ricordare l’impegno di padre Dall’Oglio. Intervenendo a Bologna all’inaugurazione di un presepe nel cortile d’onore di Palazzo d’Accursio, sede del comune, l’arcivescovo e presidente della Cei, toccando il tema della situazione nuova venutasi a creare in Siria, ha detto: «Aggiungerei soltanto un nome, di uno che speriamo di poter riabbracciare e che si chiama padre Paolo Dall’Oglio. Un missionario, un padre gesuita, che cercava la pace e di cui da più di dieci anni non si sa più nulla».
Padre Dall’Oglio, ha aggiunto Zuppi, «lo ricordiamo con tantissimo affetto e tanto debito perché è uno dei quei tanti che ha voluto la pace». Della sua sorte «non si sa nulla, quindi è chiaro che speriamo in qualche modo si possa ritrovare», ha concluso il cardinale.
L’auspicio espresso dal presidente della Cei, è parso, tuttavia, più un modo per ricordare la vicenda umana di Dall’Oglio che un’affermazione fondata su dati di fatto tangibili. Oltre a ciò, però, sarebbe importante che si venisse a sapere quale sorte sia toccata al gesuita, affinché, almeno sulla sua fine, si possa avere una qualche certezza. E forse la dichiarazione di Zuppi, in questo senso può essere d’aiuto.
Un silenzio assordante
Tuttavia, a colpire è soprattutto il silenzio che circonda la figura di padre Dall’Oglio da parte del Vaticano e delle istituzioni italiane, entrambe in difficoltà, a dire il vero, rispetto all’evoluzione repentina e sorprendente di questa fase della rivoluzione siriana e delle sue conseguenze geopolitiche su tutta l’area mediorientale e non solo.
D’altro canto, la figura del religioso è tutt’altro che scontata nel suo percorso. Padre Dall’Oglio è stato sì un uomo che credeva profondamente nel dialogo interreligioso, nella costruzione di una società pluriconfessionale e pacifica, ma allo stesso tempo si era schierato, fin dal principio della rivoluzione scoppiata nel 2011, quando le proteste di piazza erano state represse nel sangue, con l’’opposizione al regime.
Successivamente ha condiviso l’idea di una autodifesa militare da parte della popolazione che veniva perseguitata dall’esercito di Assad, quindi ha chiesto un intervento limitato internazionale a difesa dei civili.
Quando poi, nello scenario siriano, hanno fatto la loro irruzione i turbanti neri dell’Isis, che sembravano il nemico perfetto per giustificare la permanenza al potere del clan degli Assad, Dall’Oglio, che fra l’altro conosceva bene l’islam e il Corano, ha attaccato frontalmente i fondamentalisti che «tradivano» la stessa religione islamica.
Cristiani conniventi
Certo è che la sua visione della vicenda siriana, appare oggi drammaticamente profetica. Nel settembre del 2012, quando già era stato espulso dal paese dal regime che lo accusava di essere in combutta con i terroristi e con la Cia, spiegava a margine di un convegno tenutosi a Roma: «Mi hanno mandato via perché ho parlato chiaro».
Quindi raccontava: «Io ho visto uno dei leader della rivoluzione di fronte a 15 salme del suo paese, suoi parenti, sunniti per altro, gridare e far gridare: “una sola Siria per i sunniti, per i cristiani, per tutti”». «Tuttavia il contesto mediorientale – osservava – è stato iniettato di islamismo militante clandestino». «La pericolosità è però aumentata dal fatto – affermava ancora – che ci sono molti cristiani che usano la paura dell’islamismo per giustificare un allineamento totale con la repressione a prescindere da ogni considerazione sui diritti dell’uomo».
In tale drammatica situazione, concludeva, «la comunità internazionale è percepita come irresponsabile». Su un piano più generale, affermava quindi Dall’Oglio, andava ricercata una soluzione diplomatica al conflitto, tuttavia, aggiungeva, la comunità internazionale «anche sul terreno deve chiedersi cosa fare per evitare che dalle centinaia di morti civili per massacri si passi a migliaia e poi a centinaia di migliaia».
Per il gesuita, esponenti religiosi cristiani si erano «prestati sistematicamente a riecheggiare le tesi collaborazioniste e repressive dello stato». «Il punto – affermava ancora – è che qui c’è un’emergenza umanitaria, la gente viene arrestata e torturata, le persone sono vittime di violenza di Stato e di repressione sistematica, le città vengono bombardate, distrutte, abbiamo milioni di sfollati, fuori o all’interno del pese, per non dire della guerra civile».
L‘attuale, superiore della Comunità di Deir Mar Musa (quella fondata da padre Dall’Oglio), Jihad Youssef, ha scritto una riflessione su quanto sta avvenendo oggi in Siria, pubblicata dall’agenzia di stampa missionaria, Asianews. «Il rapporto prevalente tra chiesa e autorità in Siria – si legge nel testo – è malsano e poco evangelico. Dobbiamo trasformarlo e rinnovarlo in una forma di interazione costruttiva e non di mera sottomissione finalizzata a guadagni e privilegi, spesso solo in apparenza, e a volte, ma non raramente, guadagni per una comunità a scapito di un’altra…».
Nessuno, secondo padre Youssef, deve sentirsi «oppresso o odiato, spaventato o minacciato. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo costruire un concetto “civile” di cittadinanza che non sia contro la religione e la religiosità, ma si basi sulla fede, rispetti la religione e garantisca le minoranze religiose, etniche e linguistiche, e così via. È con umiltà e coraggio che proponiamo questo tipo di collaborazione».
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