«Sono spaventato dalla mediocrità della società e della politica. Per Berlusconi dovevo guidare la sinistra»

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Ha attraversato sessant’anni di storia repubblicana. Le sue ricerche sono state studiate da decine di ministri e presidenti del Consiglio, e da una mezza dozzina di presidenti della Repubblica. Ha fondato, nel 1967, il Censis, il più importante istituto di ricerca economico e sociale d’Italia. E a 92 anni, Giuseppe De Rita, è ancora uno dei più lucidi osservatori della società italiana.

La politica nel nostro paese «oggi rischia di avere più gerarchi che oligarchi». È una frase che lei ha pronunciato qualche settimana fa durante il forum organizzato da Coldiretti. A cosa pensava?

Noi abbiamo oggi una società così frammentata, articolata e divisa, che è molto difficile ricondurre a unità. E chi ci sta provando a farlo, sogna la verticalizzazione del potere attraverso progetti come il premierato. Pensano che verticalizzandolo, la gente sta dentro quel potere e in questo modo non resta così confusa e disarticolata. Questa idea esiste oggi, ma ricorreva anche qualche tempo fa con Matteo Renzi e il suo progetto di riforma costituzionale. Invece la società moderna ha bisogno di essere governata a livello medio-alto, ma in termini non gerarchici, bensì di indirizzo, di sostegno, di interpretazione. Ogni gruppo sociale vanta persone che ragionano di sistema all’interno del loro stesso gruppo. E queste donne e questi uomini finiscono per essere degli oligarchi di quel settore, ma soltanto quando riescono a collegare le loro azioni a quelle di altri settori. In questo senso l’oligarca diventa tale non per meriti propri, ma per le sue capacità di interpretare il proprio ambito di riferimento e di collegarlo ad altri. Penso al mio ambito, che da sessant’anni è quello della ricerca.

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Sta dicendo che si augura un ritorno del ruolo delle grandi organizzazioni, partiti di massa e corpi intermedi come li abbiamo conosciuti durante la Prima Repubblica?

Più che le grandi organizzazioni in sé, sono i loro leader che ne hanno costituito la loro forza, in passato. Sono questi che definisco gli oligarchi. Se penso all’immediato Dopoguerra, la Coldiretti non sarebbe diventata quella grande organizzazione senza una guida autorevole come Paolo Bonomi. E ancora: la Cisl non sarebbe neppure nata senza Giulio Pastore; oppure, la Cgil, cosa sarebbe stata senza Giuseppe Di Vittorio e Bruno Trentin? Nell’ambito dei corpi intermedi, degli organismi sociali, è sempre il leader che rende grandi le organizzazioni, forgiando le loro caratteristiche.

A proposito della Cgil, mi viene in mente che durante l’incontro al forum di Coldiretti, lei ha criticato la frase pronunciata da Maurizio Landini sulla necessità della rivolta sociale, sostenendo che non andava detta perché non bisogna istigare le emozioni.

Ma non è solo quello, l’istigare alle emozioni. Anche Giuseppe Di Vittorio, autorevole predecessore di Landini, suscitava le emozioni. Il problema è strategico: se hai di fronte una realtà faticosa e difficile da affrontare, devi saper andare oltre, altrimenti resti un minoritario. Landini ha una sua capacità di mobilitazione, però, a mio avviso, deve avere un’idea chiara di cosa significhi per il sindacato andare oltre, oltre la crisi della conservazione, della contrattazione. Se non va oltre, finisce in un’oltranza, cioè in un oltre generico ma non reale. Dire in questo senso che le persone devono fare la rivolta sociale, significa che non si ha una visione, un programma di lungo periodo per poter attraversare la crisi. Ma questo ultimo aspetto combacia con l’identità degli italiani che negli ultimi 50 anni si è forgiata nel superare le difficoltà quotidiane, mai con una visione di lungo periodo.

Eppure proprio il gruppo di studiosi in cui Lei è si è formato agli inizi della sua carriera, penso a Pasquale Saraceno e alla fucina dello Svimez che poi ha lasciato a metà degli anni ’60 per fondare il Censis, sono la testimonianza della pianificazione, di una visione delle cose. Mi riferisco alla politica industriale dei poli di sviluppo, pur con tutte le sue contraddizioni che poi il tempo ha fatto venir fuori.

La società italiana ha saputo uscire dalle sue fasi di crisi, procedendo per tentativi. Siamo usciti dalla guerra, dal terrorismo, dall’inflazione, dalla pandemia, ma senza mai avere la capacità della programmazione. È il carattere distintivo di un popolo che è stato costruito negli ultimi 70 anni. Che ha avuto la capacità di inventare sulla propria stessa storia, come diceva Benedetto Croce. Un popolo che ha saputo inventare, per superare le sue stesse crisi, prima il lavoro sommerso, poi i localismi e la piccola impresa, ben impiantandoli, però, nelle fondamenta della propria storia, di cui uno dei caratteri centrali è la pesantezza della propria pubblica amministrazione. Una visione riformista non c’è mai stata perché mai è esistita una pianificazione di lungo periodo della società italiana. Il gruppo di studiosi di cui ho fatto parte ci ha provato, ma è stato sconfitto proprio dal carattere distintivo della società italiana. Dall’eterno presentismo che ci caratterizza.

Alcuni pilastri di questa pianificazione di politica economica sono stati poi sconfitti dalla storia, nonostante l’importanza rivestita allora da questi progetti, la costruzione dell’impianto siderurgico più grande d’Europa nel Mezzogiorno d’Italia, a Taranto, per esempio. Cosa è possibile salvare quella idea di sud Italia?

Ciò che sarebbe possibile salvare, è tutto messo nero su bianco nei documenti preparatori alla legge sul Mezzogiorno dei primi anni ’60, non c’è nei documenti ufficiali. Lì, in quelle carte, si diceva proprio che non occorrevano soltanto i grandi investimenti, ma si sarebbe dovuto recuperare in primo luogo il rapporto con il popolo meridionale, si sarebbero dovuti costruire nuovi rapporti tra l’amministrazione centrale e il Sud, fondandoli sul potere dei sindaci e dei cittadini e sulla mobilitazione delle forze sindacali ed imprenditoriali. Sono sempre stato convinto che nel Mezzogiorno l’intervento pubblico abbia avuto l’effetto di addormentare la società.

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E della società attuale, «questa fabbrica degli ignoranti» secondo la definizione del Censis, «una società che avanza alla cieca è terribile» per dirla con Walter Benjamin, cosa le fa paura?

Mi fa paura la mediocrità, soprattutto quella dei suoi governanti, che da camerieri si sono trasformati in dei semplici portapiatti. L’altra cosa che mi tormenta è la mancanza di cultura collettiva, la nostra è una una cultura di adattamento e non ha capacità di evoluzione e costruzione. Non è un caso che gli unici momenti di costruzione collettiva siano stati quelli immediatamente successivi al Dopoguerra, quando non c’era più nulla e bisognava ricostruire tutto daccapo, e sono stati redatti i piani per la casa, il sud, per il lavoro, per la scuola.

Lei ha attraversato tre repubbliche, analizzando i cambiamenti intervenuti nella società e segnalandoli con indipendenza e obiettività, tra gli altri, a decisori pubblici, ministri, segretari di partito, boiardi di stato. Le è stato mai proposto di assumere cariche politiche, per esempio durante i governi tecnici?

L’ho già raccontato in un mio libro di qualche anno fa, Oligarca per caso. La prima proposta mi arrivò con Giovanni Goria presidente del Consiglio alla fine degli anni ’80; mi fu proposto il Mezzogiorno perché su quello degli Affari sociali c’erano pressioni da parte del mondo del volontariato. E rifiutai. E poi l’altra proposta, quella più straordinaria, fu quella di Silvio Berlusconi che mi disse che avrei dovuto fare il capo dello schieramento avverso al suo, invece che Francesco Rutelli. Poi il Pds mi avvicinò per sondare la mia disponibilità a presiedere la Repubblica dopo il settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Ma poi i dirigenti puntarono su Giorgio Napolitano, presi soltanto una trentina di voti, quelli del gruppo di Clemente Mastella, che li aveva usati per contarsi.

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