La morte di Walter Pedullà: l’ultimo saggista-moralista

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Ora che non c’è più, ora che Walter Pedullà se n’è andato, novantaquattrenne dopo una lunga malattia – era nato a Siderno, in provincia di Reggio Calabria il 10 ottobre 1930 – senz’altro qualcuno tra i tanti e affezionati allievi nei corsi di Letteratura italiana da lui tenuti fin dal 1958 presso l’università La Sapienza di Roma proverà a cimentarsi con la definizione di quello che già potrebbe dirsi il Codice a lui intestato. Il Codice Pedullà mutuando il Codice Perelà, il protagonista leggero e mutevole del romanzo dell’amato Aldo Palazzeschi: una cifra in grado di raccogliere le mille vite dello studioso autore di un centinaio di pubblicazioni, del docente con mezzo secolo di corsi alle spalle, del critico – anche de «Il Mattino» ai primi anni ’90 -, del giornalista, del socialista lombardiano, del fondatore di riviste, dell’amministratore del Teatro di Roma, del presidente della Rai.

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Walter Pedullà è morto, il critico e saggista letterario aveva 94 anni: fu presidente della Rai

Una sintesi attendibile potrebbe ritrovarsi nel marchio dell’ironia. Cioè, nell’intelligenza dei fatti che diventa categoria interpretativa della realtà, racconto da suggerirgli di scrivere, nel suo ultimo libro che può ben essere considerato la sua autobiografia, Il pallone di stoffa pubblicato nel 2020 da Rizzoli, in sequenza con Giro di vita uscito da Manni nove anni prima: «Soltanto chi arriverà alla fine saprà se ha vissuto una vita tragica o comica. Se la conclusione sembra ridicola, ridiamone».

Pedullà ha interpretato sotto questo segno la sua esistenza. È stato l’ultimo dei cosiddetti saggisti-moralisti, della tipologia intellettuale del secondo Novecento nel solco di De Sanctis e Croce: Praz, Macchia, Ripellino, soprattutto Debenedetti. Curioso, interdisciplinare, accademico quanto basta, non amico di Garboli, difensore di Guglielmi direttore di Raitre senza però essere ripagato in gratitudine, è stato un uomo del Sud aspro e vero che per simbolo aveva il pallone di stoffa di Maradona alla sfera di cuoio di certa eleganza calviniana. Un duellante, un combattente delle lettere, pronto al corpo al corpo con la pagina, ricercatore dell’autenticità, della semplicità nella complicatezza che svela la bellezza nel testo, pronto al partigiano giudizio di valore.

Era un lascito del suo maestro, di Giacomo Debenedetti, il docente che lo conquistò ventenne nelle lezioni dalla cattedra dell’università di Messina, di cui sarebbe diventato assistente e collaboratore fino alla morte nel 1967 a Roma. Walter Benjamin basava l’efficienza della critica «sul perfetto affiatamento di informazione e di reazione»: a tali principii è rimasto fedele, negli anni del disincanto e nel tempo della sua seconda vita, postumo a se stesso al pari di un personaggio pirandelliano: il 13 dicembre del 2010 aveva subìto un infarto ed era stato dato per defunto, salvato da un miracoloso defibrillatore: «Scrivo per sapere quale è stata la mia vita vera», aveva poi commento.

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Debenedetti gli aveva indicato la strada, cercare un punto di vista da cui osservare e costruire un linguaggio. Da allora Pedullà aveva trascinato i territori della comicità, dello sperimentalismo e del fantastico: qui aveva incrociato i percorsi di Gadda e Pizzuto, di Strati e Tomasi di Lampedusa, di D’Arrigo e Landolfi, di Pasolini nelle borgate romane, di Rea e Ortese liberati dalle gabbie del realismo. Aveva ricostruito l’alfabeto di Savinio e ridisegnato una mappa del ‘900 attorno all’azzardo spiazzante delle figure di Gadda – Il simboliche narratore come delinquente , Rizzoli 1997 – o di Italo SvevoLo schiaffo di Svevo , Camunia 1990 – , catalogando Miti, finzioni e buone maniere – Rusconi 1983 – nel tentativo di Quadrare il cerchio – Donzelli 2005 – : le sue parole erano Le caramelle di Musil – Rizzoli 1993 -, ritratti fulminei e illuminanti che conducevano a Luigi Malerba, del quale ha curato il Meridiano, fino a Gianni Celati. Spiegava che la narrativa italiana novecentesca si poteva dividere tra scrittori «obesi» gaddiani e «smilzi» alla Bilenchi, aggiungendo che per scegliere occorreva convocare la Cabala di Kafka, «il segreto si nasconde meglio sotto le parole che non con il silenzio». Basta saperlo svelare.





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