Addio, vecchia e cara Italia

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Di Giovanni Papini

 

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Milano, 20 Novembre (*)

 

Ho voluto risivisitare l’Italia, le sue città più favolose e popolose, le sue sorprendenti capitali di provincia, i suoi paesaggi di sogno e di grido: da Taormina alle Borromee.

Dopo tre mesi e mezzo di errabondaggio e di soggiorni, sono stranamente rattristato. Per me e per questo paese.

Ho visto l’Italia, per la prima volta, cinquant’anni fa. Era già intaccata e deturpata dalla cosiddetta civiltà moderna ma era pur sempre la patria bella di uomini umani.

V’erano città e regioni intatte, dove si respirava ancora l’aria del beato Ottocento in uno scenario del Trecento o del Cinquecento.

L’Italia era povera ma gl’italiani possedevano ancora quelle ricchezze che nessuna banca può fornire: l’amore, la cordialità, la gentilezza, il buonumore.

L’Italia, in alcune sue parti, era sucidia ma di un sudiciume antico e salubre, naturale e paesano, che non offendeva la bellezza della natura e non toglieva all’aria la sua purezza.

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L’Italia era scomoda, un po’ primitiva, sprovvista di comfort ma compensava il visitatore con la quiete delle sue strade, l’ariosità delle sue piazze, la pace delle sue piccole città, con la tranquillità della sua vita umile e operosa, con la cara semplicità dei suoi costumi, la bonaria serenità dei suoi signori popolani e dei suoi popolani signori.

V’erano, anche allora, briganti, imbroglioni, mendicanti e sgualdrine. Ma in misura modesta e tollerabile, sotto forme distinte e riconoscibili.

I briganti antichi avevano ancora qualche cosa del paladino e del gentiluomo, mentre oggi i rapinatori e i grassatori sono giovinastri brutali che hanno trasformato i loro delitti in grossa organizzata industria senza poesia.

I mendicanti apparivano parte legittima della cristianità, ed erano quasi pittoreschi custodi delle chiese e dei palazzi. Oggi si chiamano disoccupati e vivono a spese di chi lavora, detestando coloro che sono più intelligenti e operosi di loro.

I truffatori erano una classe a parte, simpatici artisti dell’inganno, e si contentavano di modesti guadagni. Oggi l’imbroglio è dappertutto, nell’industrie, nelle botteghe, negli uffici dello Stato come sui marciapiedi.

Le sgualdrine bisognava cercarle nelle suburrre; oggi anche le signorine di buona famiglia e le signore titolate hanno conosciuto i frutti della prostituzione clandestina.

Addio, vecchia e  cara Italia. Addio scugnizzi e lazzaroni di Napoli.  Addio fiaccherai e posteggiatori di Firenze. Addio, stornellatori, zampognari, ciociare e fioraie di Roma. Addio, gondolieri e scialletti neri di Venezia. Addio pescatori di Capri e burattinai di Palermo. Addio, popolaresca, festiva, ingegnosa e geniale Italia. In questi anni, dopo la seconda guerra infernale, anche il dolce paradiso italiano sta diventando un inferno di stile yankee.

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La civiltà americana, la civiltà del dollaro e della macchina, ha invaso la vecchia adorabile penisola per “incivilirla” a sua immagine e somiglianza.

Le strade, quasi tutte anguste, fatte per un popolo di pedoni e di cavalcanti, sono ingombre di automobili rumorose, di biciclette a motore insopportabili. In quei luoghi dove si sentivano soltanto le musicali nenie dei venditori girovaghi, i canti delle ragazze e dei garzoni, le gaie risate delle comari sull’uscio e gli sciocchi delle fruste, non si odono, ora, che gli strepiti di ferraglia, guaiti e muggiti di automobili, stridori di ruote, fragori di scappamenti aperti, rombi di motori e clangori di trombe, cori cacofonici e assordanti di grammofoni e di altoparlanti.

Le strade d’Italia son diventate le più rumorose e pericolose di tutta l’Europa. Gl’italiani si comportano come se i rumori fossero l’affermazione indispensabile del movimento, della velocità, della ricchezza, del lusso, dell’orgoglio, della vita. Non è più possibile fermarsi in una piazza per ammirare tranquillamente una facciata o una statua.

Il cervello è stordito e rintontito dai rumori, la persona è sotto la continua minaccia di essere travolta e sfracellata. Le macchine hanno, mutato in peggio, l’indole degli italiani. Tutti hanno fretta, tutti hanno voci dure, facce tristi e sprezzanti.

I puzzi si sono moltiplicati insieme ai rumori; e non soltanto nelle formicolanti vie cittadine. Anche nei viali lungo il mare, anche nei viuzzi delle città medioevali, anche nei parchi pubblici e sulle colline fiorite, perfino in certe strade di campagna, gli odori portati dalla brezza son sopraffatti dal puzzo della benzina, della nafta, dell’olio bruciato, di tutti gli acri residui della combustione.

Così hanno ridotto la divina Italia della mia gioventù. Essa appare ora più ricca, più attiva, più “moderna”. In realtà è più povera e più brutta di prima.

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La nuove case sono casermoni anonimi e ignobili, che non arrivano ad avere la grandiosità dei grattacieli ma fanno rimpiangere le umili case all’antica, tra orti e pergolati, sprovviste forse degli ultimi ritrovati idraulici ma consolate dal verde e patinate dal sole.

Quasi tutto quel che s’è fatto di nuovo in Italia, negli ultimi decenni, è più pretenzioso, ma indicibilmente pù brutto. Nelle città si distruggono crudelmente gli ombrosi giardini per fabbricare casermoni di cemento, alverari odiosi di piccoli idioti benestanti.

Sulle grandi strade, a cospetto dei laghi e dei monti, la vista è impedita e offesa da cartelli di pubblicità, verniciati di coloracci volgari per decantare le virtù d’un liquore o d’un sapone da barba. Dappertutto si tagliano alberi e si diradano le foreste. La Patria di San Francesco e di Leonardo non può soffrire la bellezza della vegetazione e il canto degli uccelli.

In ogni italiano si annida, in germe, l’anima di un tagliaboschi e di un cacciatore. In nessun paese del mondo, come in Italia, c’è una passione così forte di recidere le piante e di ammazzare i pennuti.

Lo stemma dell’Italia dovrebbe portare come emblemi simbolici un’accetta e un fucile.

Io vengo da un paese dove la “modernità”, con tutte le sue macchine, è incontestata e trionfante ed io non sono un nemico del cosidetto “progresso”. Ma in America, prima dell’invasione europea, non esistevano che praterie deserte e le tende dei Pellirossi.

L’Italia, invece, è un venerabile museo di tre o quattro civiltà e avrebbe il diritto e il dovere di salvare, per la gioia di tutti, le sue fattezze e le sue bellezze.

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L’Italia, invece, va diventando ogni giorno più rumorosa, più puzzolente, più volgare, più meccanica, più brutta. Cioè sempre meno ammirabile e abitabile.

Fra cinquant’anni, se tanto mi dà tanto, le grazie e le glorie del “giardino d’Europa”, saranno sopraffatte, degradate e nascoste da una cattiva copia della “civiltà barbarica” di questo secolo impazzito.

 

Di Giovanni Papini

(*) = “L’imbruttimento dell’Italia”, tratto da Il Libro Nero, Nuovo Diario di GOG,  Vallecchi Editore, 1951

Giovanni Papini (1881 – 1956), è stato scrittore, poeta e saggista.



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