La partita più fredda di sempre – Ultimo Uomo

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È la vigilia di Natale del 1967. I Dallas Cowboys hanno appena strapazzato i Cleveland Browns 52-14 qualificandosi per la finale NFL contro i Green Bay Packers.

I Packers – che si erano qualificati il giorno precedente grazie a un comodo 28-7 sui Los Angeles Rams – sono i campioni in carica, avendo battuto proprio i Cowboys nella finale della stagione 1966, giocata a Dallas il giorno di Capodanno del 1967. La rivincita è prevista al Lambeau Field, lo stadio di Green Bay, il 31 dicembre. Tutti sanno che per la prima volta si giocheranno nello stesso anno solare due finali di due stagioni diverse, nessuno ancora sa che quella partita diventerà il più grande spot della storia per il football americano, trasformandolo nello sport più popolare del Paese. A quell’incontro, come a volte accade a certi eventi sportivi straordinari, verrà appiccicato presto un nome tutto suo: “Ice Bowl”.

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All’epoca, la finale del campionato NFL era considerata “La partita”. Fino a due anni prima era anche l’atto conclusivo della stagione. Dal 1966, in vista della fusione – prevista dal 1970 – tra la NFL (National Football League) e la più giovane, ma ricca e agguerrita AFL (American Football League) si decise di giocare un’ulteriore gara tra i campioni delle due leghe. Di lì a poco tutti avremmo conosciuto quella gara come il “Super Bowl”, ma quando il 15 gennaio 1967 si assegnò il primo titolo quel nome ancora non esisteva. A trionfare, con un netto 35-10 ai danni dei Kansas City Chiefs, furono – senza nemmeno sforzarsi troppo – i Green Bay Packers.

In quel momento c’era ancora una tale distanza tra i campioni della NFL e quelli della AFL, che la partita più attesa e – potenzialmente equilibrata – era ancora la finale NFL. Quel 31 dicembre, tra l’altro, era in calendario anche la finale AFL tra Houston Oilers e Oakland Raiders, ma dal giorno di Natale, e poi per tutta la settimana, non si parlò d’altro che della rivincita – a 364 giorni di distanza – tra Cowboys e Packers.

La squadra della piccola città del Wisconsin (oggi rimasta l’ultima tra i cosiddetti “small town teams” a sopravvivere) era una corazzata capace di vincere il campionato in quattro delle ultime sei occasioni e il suo allenatore italoamericano Vince Lombardi (nato a Brooklyn, figlio del salernitano Enrico Lombardi e di Matilde Izzo, originaria di Vietri di Potenza) era talmente iconico che, dopo la sua morte, nel 1970, il trofeo del Super Bowl prese il suo nome, che mantiene ancora oggi. Per capire l’impatto di Lombardi sul football americano, Oltreoceano sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ma se si ha fretta basta un riassunto infarcito con qualche numero. Dopo il trentennio d’oro sotto la guida di Earl “Curly” Lambeau – mito locale a cui ancora oggi è dedicato lo stadio di Green Bay – con sei titoli (di cui tre consecutivi, un record eguagliato poi solo da Lombardi e mai più ripetuto da nessun altro team), i Packers misero insieme solo 32 vittorie a fronte di 74 sconfitte e due pareggi. L’ultimo a sedersi in panchina prima di Lombardi, Ry “Scooter” MacLean, nella stagione 1958, collezionò dieci sconfitte, un pareggio e un solo successo. Dal 1959 al 1967, sotto il regno di Lombardi, la squadra inanellò 5 titoli (tra cui 2 Super Bowl), 98 vittorie, 4 pareggi e 30 sconfitte. Non bastasse a chiarire il quadro, tutti e cinque gli allenatori che si sono succeduti dal 1968 al 1992 (anno dell’arrivo di Nick Holmgren, l’uomo che guidò di nuovo al titolo i Packers, nel 1996) hanno tutti riportato più sconfitte che vittorie.

In quel 1967 anche i Cowboys avevano un allenatore che si apprestava a entrare nel mito: Tom Landry. Cornerback dei New York Giants negli anni Cinquanta, per sei anni fu anche il coordinatore difensivo del team, due dei quali mentre ancora giocava. In cinque di quei sei anni, nello staff dei Giants, a coordinare il gioco offensivo c’era proprio Vince Lombardi. Landry è stato il primo allenatore dei Dallas Cowboys, fondati nel 1960, nonché il più longevo della storia della Nfl con una sola squadra, avendo guidato Dallas per 29 stagioni. Innovatore e inventore di alcuni sistemi difensivi poi usati da tutti, vincitore di due Super Bowl e per cinque volte finalista, per gli americani – e anche per lui, che ne andava molto orgoglioso – il suo vero record, ancora ineguagliato, è quello di 20 stagione consecutive chiuse con più vittorie che sconfitte.

I Cowboys, che nei primi anni Sessanta Landry aveva dovuto costruire da zero, erano stati la sorpresa del campionato 1966. Un team giovane andato oltre le sue possibilità che, seppur con il vantaggio del fattore campo, non riuscì a venire a capo di Green Bay nonostante la grande occasione di ritrovarsi a sole due yard dall’area di meta a pochi secondi dalla fine sul risultato di 34 a 27 per i Packers: con un touchdown e la successiva trasformazione, i Cowboys avrebbero portato la gara in parità e quindi all’overtime (i supplementari del football).

La finale del 1967, con un anno di esperienza in più per Landry e per i Cowboys, sembrava potesse essere la partita della consacrazione proprio contro quelli che ormai erano diventati veri e propri rivali, nonostante la distanza geografica (Green Bay e Dallas si trovano a 1.500 chilometri e per andare dall’una all’altra bisogna attraversare altri 3 Stati). Una rivalità ancora esistente e ulteriormente rinfocolata a cavallo degli anni Dieci di questo secolo.

Ma torniamo alle feste di Natale del 1967 con i Cowboys che atterrano in Wisconsin e scoprono, a dispetto dei luoghi comuni, che uno degli Stati più freddi del Paese non fa poi così freddo. La colonnina di mercurio rimane infatti, seppur di poco, sopra lo zero.

Il 30 dicembre, alla vigilia dell’incontro, il cielo è terso, il vento è pressoché inesistente e la temperatura (-3 gradi) viene definita “ideale” sia da Lombardi che da Landry per assistere a una grande partita. Sarà in effetti una grande, indimenticabile partita, di quelle che ancora oggi, a quasi 60 anni di distanza, si vanno a cercare gli ex giocatori e gli spettatori ancora in vita per intervistarli, di quelle che appena a un’asta spunta un biglietto d’ingresso si sprecano offerte a tre zeri per accaparrarsi niente più – a pensarci – che un vecchio pezzo di carta.

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Sarà una grande partita, ma in quel momento nessuno, nemmeno i meteorologi, erano in grado di prevedere perché. L’unica preoccupazione dei Cowboys in quel momento era potersi allenare almeno una volta sul prato del Lambeau Field. Attività che Lombardi provò a negargli fino all’ultimo, salvo poi dover arrendersi al diktat della Federazione e concedere – obtorto collo – il via libera ai Cowboys. Mentre gli ospiti si allenano al Lambeau Field il termometro segna un confortante -1.

Quello stesso giorno, a meno di 24 ore dal calcio d’inizio, il commissario Nfl Pete Rozell preoccupato per un primo report che segnalava una temperatura a Green Bay intorno ai -15 gradi centigradi durante l’incontro (previsto per le 13.30 locali), cercò di capire se non fosse il caso di posticipare la finale di un giorno, spostandola a lunedì primo gennaio. Stando agli esperti, a Capodanno avrebbe fatto ancora più freddo. Tanto valeva scendere in campo. In più, lui era al caldo, in California, per la finale di AFL tra Houston e Oakland. I commissari in Wisconsin si convinsero che questo non aiutò a prendere la giusta decisione, e cioè rinviare non di un solo giorno, ma finché le temperature e le previsioni non fossero migliorate.

Per capire come tutto iniziò a cambiare la mattina del 31 dicembre vale la pena affidarsi al racconto di Lee Roy Jordan, giocatore dei Cowboys, e della sua sveglia, che, nel 1967, negli hotel, avveniva con una serie di telefonate, stanza per stanza: «Sento squillare il telefono, avvicino l’orecchio alla cornetta e sento una voce dire “Buongiorno. Sono le 7.30, la temperatura a Green Bay è di 26 gradi sotto zero”. Penso sia un errore e vado alla finestra a controllare. A vedere com’è il mondo a 26 sotto zero». Quella telefonata, con quelle stesse parole, è rimasta impressa e poi raccontata negli anni da molti giocatori dei Cowboys.

L’hotel era a ferro di cavallo e Jordan vide diversi compagni di squadra affacciati alla finestra delle proprie stanze, come lui: «C’era Bob Hayes con gli occhi stralunati. Nato e cresciuto in Florida non aveva mai visto la neve. Ma pure io, nato nel sud dell’Alabama, non ero meno sconvolto di Bob». Hayes, vincitore dei 100 metri piani alle Olimpiadi di Tokyo, nel 1964, è ad oggi anche l’unico sportivo ad aver vinto sia i Giochi Olimpici che il Super Bowl (nel 1971, proprio con i Cowboys).

Dall’altro lato dell’hotel c’erano solo tende chiuse, erano quelle di chi ancora non era stato chiamato al telefono. «Man mano che le tende si aprivano e nuovi compagni si affacciavano, capivi chi era stato avvisato e chi no».

Sei ore più tardi, Jordan e gli altri sarebbero scesi in campo per giocare la partita più fredda della storia di tutta la NFL: – 25 gradi con una temperatura percepita, per via del vento, di -44.

I problemi ci furono anche per i giocatori della squadra di casa, che dormirono nelle loro case, non in albergo. Il linebacker Dave Robinson, la cui auto non partiva per il gelo, chiamò il meccanico che gli rispose: «Ci vorrà del tempo. Sei il numero 110 in lista». Quando Robinson gli spiegò che non aveva tempo perché era un giocatore dei Packers e sarebbe dovuto andare alla partita si sentì rispondere di non preoccuparsi, che tanto l’avrebbero rinviata. Un dialogo simile con l’assistenza auto lo ebbe anche un altro giocatore, Willie Wood. Robinson alla fine dovette promettere due biglietti a un ragazzo che passava con l’auto davanti a casa sua, per lui e per la fidanzata che stava andando a prendere, per farsi accompagnare. Quella mattina il quarterback Bart Starr era andato in chiesa a pregare con il padre. I due, tremolanti, parlarono di tutto tranne che del freddo, per «non suggestionarsi ulteriormente e peggiorare le cose», disse poi Starr.

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Faceva così freddo che il riscaldamento pre-gara avvenne in uno stadio semivuoto nonostante il tutto esaurito, con la gente fuori che si attardava a comprare alcolici, guanti e vestiti pesanti. Un inviato della Cbs intercettò un uomo con addosso tre paia di pantaloni e cinque paia di calze una sull’altra. Gli stessi arbitri andarono nel negozio più vicino allo stadio a comprare paraorecchie, mutande di lane e maglie termiche. Uno di loro, Norm Schachter, raccontò di aver messo anche dei sacchetti di plastica ai piedi e un altro grande sacco tra una maglia a collo alto prestata da una delle due squadre e la divisa da arbitro per attutire l’effetto del vento.

Una foto dall’alto dello stadio quel giorno.

Per quanto si potessero coprire, qualcosa andò storto praticamente subito, quando l’umpire Joe Connell fischiò l’inizio dell’incontro e il fischietto di metallo gli restò appiccicato alle labbra. Nel tentativo di staccarlo, Connell si ruppe il labbro, ma il sangue, sebbene copioso, si congelò subito.

Da quel momento in poi, gli arbitri decisero di fermare il gioco mettendo da parte il fischietto e usando solo la voce e le mani. Da quella sera, la NFL decise invece che i fischietti sarebbero stati in futuro tutti di plastica.

Basta vedere le foto del pubblico per rendersi conto dell’eccezionalità di quel freddo che lasciò al Lambeau Field un soprannome, “Frozen Tundra”, che resiste ancora oggi. In molti scatti si vedono persone con dei passamontagna calati sulla testa e berretti schiacciati sino al collo, con buchi talvolta fatti sul momento per lasciare spazio a bocca, naso e occhi e lacci improvvisati sotto al mento. Tra gli spettatori immortalati dalle fotocamere si intravedono molte maschere simili a quelle dei lottatori di lucha libre, ma di lana. Impressionanti anche le nuvolette di condensa, a tal punto che alcuni giocatori dissero che dal campo, in alcuni momenti vedevano solo una fitta nebbia di respiri gelati e non il pubblico. Le nuvole di condensa formate dai giocatori in campo sono così spesse, voluminose e bianche che, a distanza di tempo, ti viene voglia di scriverci qualcosa dentro, come se fossero balloon di una striscia comica.

Foto dal Green Bay Press Gazzette

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La banda della Wisconsin State University-La Crosse che avrebbe dovuto suonare prima dell’incontro e durante l’intervallo non riuscì a portare a termine nessuna esibizione fino a cancellare quella post-partita. Nel frattempo alcuni strumenti a fiato si erano congelati, alcuni musicisti erano rimasti con le labbra incollate agli strumenti e ben sette membri della banda furono ricoverati per ipotermia. La mancata esibizione della banda nell’intervallo creò anche ulteriori problemi al terreno, che divenne ancora più duro di quanto non lo fosse nella prima metà di gioco, visto che per svariati minuti nessuno ci era passato più sopra, smuovendolo e scaldandolo. Un terreno che, a detta di diversi giocatori, era duro come cemento. Un cemento su cui, però, era facilissimo scivolare. Basta vedere una delle prime azioni di gioco, dove cascano nel giro di pochi secondi quasi tutti, per capire la difficoltà anche solo nello stare in piedi, figuriamoci giocare a football.

Quattro spettatori hanno avuto un infarto durante la partita, uno è morto, i ricoverati per ipotermia sono stati decine. Molti, giocatori compresi, hanno ripreso la piena sensibilità alle dita dei piedi dopo giorni o settimane. Il sistema di riscaldamento che avrebbe dovuto almeno proteggere il campo, una novità assoluta venduta a una cifra astronomica per l’epoca (80mila dollari) da George Halas Junior (nipote del pioniere del football professionistico nonché padre-padrone della prima NFL, George Halas) ai Packers non funzionò, facendo rimpiangere il vecchio metodo, e cioè – semplicemente – adagiare tonnellate di fieno sul campo per proteggerlo.

A bilanciare questo scenario apocalittico virando il tutto in farsa ci fu l’atteggiamento di alcuni tifosi dei Packers che continuavano a staccare i cavi della corrente che tenevano calda la panchina dei Cowboys. A fissare invece per i posteri, con una frase, l’intera atmosfera – in bilico tra il surreale e il congelato – fu l’ex giocatore e commentatore della Cbs Frank Gifford, che disse in diretta: «Sto dando un morso al mio caffè». Anche la parte psicologica ebbe un ruolo. Molti giocatori di Green Bay si imbottirono il più possibile di indumenti pesanti, ma poi tagliarono le maniche per mostrare agli avversari che non pativano il freddo, mentre i giocatori dei Cowboys furono inizialmente mandati in campo senza guanti, per lo stesso motivo, salvo poi accorgersi che molti tra i padroni di casa, i guanti li avevano eccome.

In campo, al primo affondo, i Packers vanno in vantaggio 7-0. Il secondo quarto si apre con un secondo touchdown dei padroni di casa: 14-0 e partita finita? No.

I Cowboys guadagnano campo, accorciano prima 14-7 e poi 14-10 grazie a un calcio da 3 punti. Mentre Vince Lombardi si agita con in testa un colbacco e un cappotto austero che lo fanno sembrare un signore russo finito dentro lo sport sbagliato, coach Landry, con il suo inseparabile panama coperto in parte da un cappuccio, tiene fede al suo aplomb mentre la sua squadra mette a segno il touchdown che porta Dallas davanti per 17 a 14. Con il passare dei minuti sembra che il re degli schemi offensivi non riesca più a impensierire lo stratega della difesa con cui lavorava ai tempi dei Giants.

Quando mancano 5 minuti e 4 secondi alla fine della partita, Green Bay si ritrova a 68 yard di distanza dalla End zone di Dallas, vale a dire dall’area di meta. Tanta strada. Sembra una missione disperata contro una squadra così attenta, ma grazie alle corse dei running back Donny Anderson e Chuck Mercein e ai lanci di Bart Starr (che perdendo due volte palla aveva rimesso in partita Dallas), i Packers si ritrovano a due sole yard dalla vittoria a trenta secondi dalla fine. I primi due dei quattro tentativi a disposizione falliscono. Green Bay, che ha finito i time out e non può più fermare il cronometro, può prendere a questo punto tre strade. La più sicura porta al pareggio 17-17, ed è un calcio da tre punti troppo vicino per poter essere sbagliato. La seconda opzione è un lancio verso l’esterno, rischiosa perché se il ricevitore non portasse la palla oltre la linea del touchdown o perlomeno non riuscisse ad uscire dal campo (cosa che fermerebbe il tempo) non ci sarebbero abbastanza secondi per organizzare una quarta giocata.

Lombardi richiama Starr e gli dice di tentare una terza opzione, talmente strampalata, in quel momento, da non essere contemplata quasi da nessuno (il coach di Dallas tempo dopo disse: «Ora quella giocata è considerata un colpo di genio, ma era un’idea così insensata che se non fosse riuscita sarebbe stata ricordata come la più grande stupidaggine tattica del football »). Anche per quello Lombardi, in campo, si raccomanda a Starr di non dire nulla a nessuno. La linea a protezione del quarterback avanzerà pensando di proteggere la corsa da dietro di un running back, ma Lombardi ha capito che il terreno ormai non permette scatti potenti. Quindi la giocata da “o la va, o la spacca” sarà un quarterback sneak, in cui di fatto Starr cercherà di saltare sopra la mischia per superare con la palla in mano la riga che vale il touchdown e quindi la vittoria.

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Una foto di quella giocata storica.

Starr esegue, riesce. Dietro di lui, il compagno Mercein, quando capisce, alza le braccia mentre è ancora in fase di slancio per non toccare Starr. In quel caso, sospettando una spintarella, gli arbitri avrebbero potuto non convalidare il touchdown. Così non è. I Packers sono davanti 20 a 17. Il kicker Don Chandler trasforma anche il punto extra. I Cowboys hanno 13 secondi in attacco per tentare l’impossibile, che non riesce. Centinaia tra gli oltre 50mila tifosi sugli spalti entrano in campo, vorrebbero spogliare i giocatori che nemmeno ci pensano, con quel freddo. In mancanza d’altro sradicano i pali delle trasformazioni, li portano a spasso per il Lambeau Field, qualcuno prova anche a scalarli.

Negli anni, oltre ai due allenatori, ben dodici giocatori di quella partita entreranno nella Pro Football Hall of Fame. Dopo quella sera, Lombardi allenerà i Packers solo una volta, nel Super Bowl che ancora non si chiama Super Bowl, contro gli Oakland Raiders, il 14 gennaio 1968, a Miami, senza freddo né ghiaccio né vento. La partita sarà una formalità: 33-14 per i Packers. I Cowboys, come detto, vedranno giorni migliori, sotto la guida proprio di Tom Landry. L’NFL, scottata dal ghiaccio del Wisconsin non assegnerà mai più il Super Bowl a una città con inverni rigidi in uno stadio senza copertura per quasi 40 anni, fino al 2014, quando si giocò a East Rutherford, in New Jersey. Il Lambeau Field di Green Bay è diventato nel frattempo un gigante di 81mila posti, sempre, orgogliosamente, senza copertura.





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