Il sequestro di Simonetta Lorini: la studentessa trasportata da Milano alla Calabria in treno, il riscatto «scontato» di 200 milioni, i rapitori a pranzo con ostriche e champagne

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di
Paolo Beltramin

Il 9 ottobre 1980 a Vimodrone il blitz dei criminali, membri della Banda della Comasina. Il ruolo decisivo di un parroco nella trattativa. Oggi i sopravvissuti sono tutti liberi, mentre la stagione della Mala viene esaltata da libri, film e pure da una serie di magliette

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Simonetta scende dalla Golf nera per aprire il cancello del cortile della sua abitazione, una villetta in via San Remigio 35, a Vimodrone. È la sera del 9 ottobre 1980, una sera di inizio autunno come tante altre. La ventunenne studentessa di Medicina è appena rientrata dopo aver riaccompagnato a casa il nipotino e la cognata. Questione di attimi: da un’Alfetta beige parcheggiata poco distante scendono due uomini armati di fucili a canne mozze, la immobilizzano e minacciano la mamma, la signora Marisa, che attendeva nell’auto e aveva cercato invano di chiamare aiuto. Magari fosse una rapina, quelli si portano via la ragazza e spariscono nel nulla.
Ci vorranno giorni, giorni di paura e di ipotesi – un sequestro? «Ma non siamo ricchi», dirà papà Luigi, contitolare di una fabbrica di vernici – prima di capire. 

Un articolo del Corriere della Sera di sabato 11 ottobre descrive Simonetta Lorini come «carina ma non particolarmente vistosa, priva di caratterizzati interessi politici e culturali, senza inquietudini esistenziali e conflitti aperti con i genitori». Nessun fidanzato, «solo qualche simpatia», come si dice a quei tempi. Improbabili piste diverse dal rapimento per soldi, e infatti la conferma arriva con una telefonata: «Se volete rivedere Simonetta servono tre miliardi», chiedono i banditi dall’altro capo del filo.




















































È la lunga stagione delle bande, dell’Anonima sequestri, della Mala, di Milano capitale del crimine organizzato. Una Milano oggi rievocata da libri e film con una certa fascinazione, quasi con nostalgia, ma terribile da vivere. Nei dodici anni dal ’72 all’84 in città si contano 161 rapimenti a scopo di estorsione. Passeggiando per le strade del centro capita di imbattersi nei check point delle organizzazioni i criminali, mentre le famiglie benestanti si pagano la scorta o mandano i figli a studiare all’estero per proteggerli.
Pochi mesi prima di quel 9 ottobre 1980, il 28 aprile, il carcere di San Vittore è teatro di una delle più clamorose e spettacolari evasioni della storia recente. Sedici criminali, compresi Renato Vallanzasca, e il leader di Prima Linea Corrado Alunni, riescono a tagliare la corda. Il bel Renè, gravemente ferito, e altri nove sono subito ripresi. Altri sei fanno perdere le tracce: tra questi Enrico Merlo e Osvaldo Monopoli, nomi di spicco della banda della Comasina, luogotenenti di Vallanzasca. Sono loro a orchestrare il rapimento di Simonetta, con l’idea di assicurarsi i soldi sufficienti a sparire per sempre. Ma le cose non vanno esattamente come avevano immaginato.

In città si sentono braccati, e così, dopo pochi giorni, trasferiscono la ragazza in Calabria, a Gallico, quartiere nord di Reggio, affidandosi a criminali locali per gestire la casa-nascondiglio, finché in città – diretta da alcune soffiate – non arriva la Squadra mobile di Milano, guidata dal quarantenne Achille Serra. Quel che accadde dopo ha dell’incredibile: prima Merlo e Monopoli riescono miracolosamente a spostare Simonetta in un’altra abitazione procurata da un boss locale, don Ciccio Chirico; poi i rapitori «armati di pistole, bombe a mano e fucili che tenevano in una borsa», racconterà l’edizione milanese del Corriere, decidono di riportarla a Milano usando i mezzi pubblici. Niente manette o catene, solo una minaccia: «Se parli, se ti fai riconoscere, sei morta. Se la polizia ci sorprende, ci faremo scudo con il tuo corpo».

I tre percorrono a volto scoperto mille chilometri cambiando treni e autobus, attraversando stazioni affollatissime, senza essere mai fermati nonostante la foto della ragazza sia stata appesa in tutti i posti di polizia e pubblicata in prima pagina sui giornali. C’è anche il tempo per una piccola sosta, a Napoli, in un noto ristorante dove i sequestratori si concedono un’abbuffata di ostriche e champagne. Poi l’arrivo in Stazione Centrale a Milano e le corse in taxi da un punto all’altro della città, bussando in cerca di aiuto. Ma ecco che, riferiscono sempre le cronache dell’epoca, «tante porte, un tempo aperte agli amici di Vallanzasca, si chiudono davanti a uomini ormai bruciati». Alla fine rapinatori e ostaggio trovano rifugio in via Bovisasca, in casa di Michele Faiella, che però spaventato fa spostare tutti nell’appartamento del figlio Donato, a Quarto Oggiaro.

Merlo e Monopoli sanno di avere i giorni contati. E cominciano a trattare, a scendere sul prezzo. Entra in scena un altro personaggio, don Stefano Valtorta, questo non è un boss ma un sacerdote, amico di famiglia dei Lorini e parroco di San Remigio, la chiesa a pochi passi dalla casa dove è avvenuto il sequestro. La sera del 10 novembre, è passato appena un mese dall’agguato, alle nove di sera Valtorta riceve una telefonata. Sono i rapitori: «È disposto a collaborare?».

In pochi minuti don Stefano è sulla sua 128 diretto verso la Tangenziale Ovest, l’appuntamento è all’imbocco con l’Autostrada dei Laghi: è lì che deve consegnare la valigetta coi soldi, secondo le istruzioni ricevute. Ripete la parola d’ordine: «In montagna nevica». Poi il passaggio del denaro, «appena» 200 milioni di lire. Braccati, i rapitori avevano finito per accettare una cifra che secondo gli esperti non bastava neanche a «coprire le spese» dell’operazione criminale.

Un’ora più tardi, in una piazza Gramsci buia e deserta, molto diversa dal luogo brulicante di ristoranti che è oggi, un’auto si ferma e scende Simonetta. I rapitori le hanno lasciato 50 mila lire per pagare un taxi, che alle 23.35 la riporta davanti al cancello di casa, dove tutto era cominciato. Suona al citofono. «Chi è?», è la voce del papà. «Sono io, aprite».

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Davanti ai giornalisti, maglioncino e gonna blu, dimagrita di qualche chilo, mano nella mano con mamma Marisa, la mattina dopo Simonetta sembra tranquilla, anche quando racconta i momenti più difficili, come le minacce dei rapitori di tagliarle la testa se non avessero incassato quanto richiesto. Ma di quell’incredibile viaggio da un capo all’altro dell’Italia, «scortata» dai banditi, racconterà solo più avanti, al processo, tenuto con rito direttissimo visto la quantità e la qualità delle prove raccolte dagli inquirenti.

I due rapitori vengono arrestati il 17 febbraio del 1981, sorpresi dopo giorni di appostamenti degli uomini della Mobile. Si erano nascosti in un lussuoso attico di via Muratori, a Porta Romana, 120 metri quadri più ampi terrazzi, contratto d’affitto a nome di un’attrice che aveva lavorato con Adriano Celentano ne «Il bisbetico domato».

Con Merlo e Monopoli ci sono altri due evasi, anche loro ex banda della Comasina. Hanno pistole, mitra, bombe a mano, denaro e due progetti di lavoro: il rapimento di un noto industriale milanese – era già tutto pronto, bende, cerotti, manette, la scelta dell’appartamento prigione sul lago di Como – e una rapina in una banca svizzera. E invece per loro, ancora una volta, si spalancano le porte del carcere, dove qualche giorno dopo saranno raggiunti dai Faiella. Il processo si concluderà con le condanne a 18 anni di Merlo e Monopoli e a 16 di Donato Faiella, il quale molti anni dopo, uscito di prigione, tornerà a far parlare di sé.

È il 2009 quando l’uomo, conosciuto fin dagli anni Settanta nel grande racconto della Mala come «il Ringo della Comasina», scarcerato appena due anni prima, entra in un bar di Quarto Oggiaro e scarica gli undici colpi della sua pistola calibro 9 addosso a Francesco Crisafulli, balordo di piccolo cabotaggio e fratello del più noto boss «Dentino». L’assassino viene arrestato due giorni dopo: Faiella aveva sparato a Crisafulli per antichi rancori nati dietro le sbarre, e dietro le sbarre è tornato, probabilmente per sempre.

Quanto agli altri rapitori di Simonetta, Enrico Merlo è morto per un tumore al cervello. Osvaldo Monopoli, che era uno delle menti della banda di Vallanzasca, quello che studiava e preparava i colpi, «il professionista di evasioni», il 30 giugno del 1990 compie la sua ultima fuga, stavolta uscendo dal portone principale del penitenziario di Opera: aveva ottenuto un permesso di cinque giorni grazie alla contestata legge Gozzini, e non si presenta al rientro. Verrà arrestato una settimana dopo in via Ascanio Sforza. Al poliziotto che lo immobilizza per terra quando il bandito tenta di estrarre la pistola, dirà: «Ho tentato ma mi è andata male. Peccato».
Oggi Monopoli è libero, unico superstite della banda della Comasina assieme a Vallanzasca, che, affetto da demenza senile, sta per essere trasferito in una Rsa, e a Tino Stefanini. E proprio Stefanini – il cui nome è emerso anche nelle intercettazioni dell’inchiesta sugli ultrà dell’Inter – ha appena lanciato una linea di magliette, «MalaMilano». Le prime sono state messe in vendita online a inizio settembre ed esaurite in pochi minuti: pare che i ragazzini ne siano entusiasti.


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