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Nel mese di novembre scorso, il governo degli Stati Uniti ha fatto una mossa storica, chiedendo a un giudice federale di obbligare Google a vendere il suo browser Chrome. In un documento di 23 pagine presentato dal Dipartimento di Giustizia, viene delineato un pacchetto di sanzioni severe, tra cui la vendita del browser Chrome, uno degli strumenti digitali più utilizzati al mondo, e altre restrizioni rigorose sul sistema operativo Android.
La decisione potrebbe influenzare drasticamente il futuro del mercato tecnologico, ridefinendo le leggi antitrust.
La strategia Usa contro il monopolio Google
Questa proposta è parte della strategia[1] più radicale del Dipartimento di Giustizia (DOJ) americano per affrontare il monopolio di Google nella ricerca sul web.
La richiesta del Dipartimento arriva dopo la storica sentenza[2] del giudice Amit P. Mehta della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto di Columbia, con la quale è stato stabilito che Google si è reso responsabile per aver violato le leggi antitrust. La sentenza di 286 pagine di Mehta è un documento che merita sicuramente almeno una rapida lettura. Il giudice conclude che la capacità dell’azienda di pagare Apple, Samsung e altri per ottenere il posizionamento predefinito, insieme al controllo su Android, le dà un vantaggio insormontabile rispetto a rivali potenziali come DuckDuckGo e Neeva.
Sostiene che la quota di mercato di Google Search, pari all’89,2%, le dona un accesso senza pari a dati inestimabili, fondamentali sia per la ricerca attuale che per le sue incursioni nell’intelligenza artificiale. Inoltre, afferma che il controllo di Google sulla pubblicità di ricerca le ha permesso di manipolare i prezzi degli annunci in modi che non sarebbero stati possibili se ci fosse stata una concorrenza più forte.
Google ha ora tempo fino al 20 dicembre per proporre i propri rimedi, mentre il giudice Mehta prenderà una decisione definitiva sui rimedi entro agosto dell’anno prossimo.
Gli impatti della sentenza
La sua sentenza potrebbe avere un impatto significativo, potenzialmente rimodellando l’intero panorama del web.
Al momento, tuttavia, appare sin troppo prematuro concentrarsi sull’esito finale del caso.
Le conseguenze che Google potrebbe affrontare spazieranno da una scissione forzata simile a quella di Standard Oil nel 1911 e AT&T nel 1982, a misure più mirate che vorrebbero limitare la sua capacità di stipulare accordi come quello che rende Google il motore di ricerca predefinito sui dispositivi Apple. Anche se si optasse per un intervento radicale, ulteriori sviluppi in aula saranno inevitabili e potrebbero portare conseguenze meno gravi per Google. Un precedente evidente è il caso antitrust contro Microsoft, che si è protratto per anni e ha quasi portato alla divisione del gigante del software, ma senza mai realizzarsi.
Quali sono le soluzioni proposte dal Dipartimento di Giustizia?
Il Dipartimento di Giustizia ha dichiarato che:
- Google deve essere costretta a vendere Chrome,
- all’azienda dovrebbe essere impedito di stipulare accordi di esclusiva per i motori di ricerca.
- Il giudice dovrebbe inoltre obbligare Google a condividere i risultati e i dati di ricerca con i rivali per un decennio, secondo il governo.
- Secondo il governo, Google dovrebbe essere costretta a scegliere tra la vendita di Android, il suo sistema operativo per smartphone, e il divieto di adottare misure che costringano le aziende ad abbinare i suoi servizi ai telefoni Android.
- Inoltre, l’azienda dovrebbe cedere tutte le partecipazioni in società di intelligenza artificiale in cui ha investito, dal momento che l’intelligenza artificiale può rafforzare la ricerca, ha aggiunto il governo.
Qual è la soluzione di Google?
L’azienda della Silicon Valley ha dichiarato a metà dicembre che dovrebbe continuare a essere autorizzata a pagare altre aziende affinché il suo motore di ricerca ottenga un posizionamento privilegiato. Ma ha detto che questi accordi dovrebbero essere meno restrittivi che in passato. Apple, ad esempio, potrebbe selezionare diversi motori di ricerca da far apparire automaticamente agli utenti di iPhone e iPad.
Anche i produttori di cellulari che utilizzano il sistema operativo mobile di Google, Android, potrebbero offrire ai clienti diverse opzioni di motori di ricerca da selezionare sul dispositivo al momento della configurazione. Google ha affermato che i produttori di browser come Apple e Mozilla dovrebbero essere autorizzati a cambiare i motori di ricerca predefiniti almeno ogni 12 mesi.
L’azienda ha proposto quello che ha descritto in un post sul blog come un “robusto meccanismo” per soddisfare i desideri della corte, senza “dare al governo un ampio potere sulla progettazione della vostra esperienza online”.
Il monopolio di Google: il problema dell’auto-preferenza
Chrome è ben lontano dall’essere un semplice gateway neutrale per il web.
Negli ultimi anni, Google Chrome si è infatti affermato come il browser web più popolare al mondo, diventando una componente cruciale nella strategia di Google per mantenere ed estendere il suo potere di mercato.
Mentre da una parte Google continua a perpetuare l’immagine di Chrome come una piattaforma imparziale basata su tecnologie open source, dall’altra, muovendo da diverse prospettive, emergono con sempre più evidenza fatti e circostanze che dimostrano come Chrome sia determinante per rafforzare il predominio di Google in settori chiave come la pubblicità online, l’editoria e il mercato dei browser stessi.
Con un costo di sviluppo iniziale di oltre 20 miliardi di dollari e altri miliardi di dollari all’anno necessari per il mantenimento e l’espansione, Google ha invero costruito una barriera d’ingresso piuttosto impenetrabile per i concorrenti.
Solo due altri motori di ricerca, Bing di Microsoft e Yahoo, sono rimasti in gioco, con quote di mercato però poco consistenti, rispettivamente del 10% e meno del 3% ca..
Anche se Microsoft e Yahoo hanno i propri motori di pubblicità testuale, la predominanza di Google è in tutto e per tutto rafforzata dal controllo quasi totale sul mercato della ricerca.
Le accuse del DoJ
Il Dipartimento di Giustizia ritiene che Google abbia mantenuto un monopolio illegittimo negli ultimi dieci anni, adottando pratiche commerciali che hanno soffocato la concorrenza. La causa si concentra in particolare sui contratti di esclusiva stipulati da Google con importanti produttori di dispositivi mobili e browser, al fine di garantire che Google Search fosse impostato come motore di ricerca predefinito. Secondo il DOJ, questi contratti, che prevedono ingenti pagamenti a aziende come Apple e altre, avrebbero rafforzato la posizione monopolistica di Google.
Il Dipartimento di Giustizia sostiene infatti che l’azienda paghi miliardi di dollari ogni anno per assicurarsi lo status di motore di ricerca predefinito e, in molti casi, per “proibire specificamente alle controparti di Google di trattare con i suoi concorrenti”.
Sebbene teoricamente esistano alternative, la notorietà del marchio Google e la sua posizione strategica nei browser avrebbero garantito senza difficoltà il mantenimento della sua quota di mercato dominante. Inoltre, l’integrazione verticale tra i suoi prodotti sarebbe vista come un ostacolo alla concorrenza non solo nel settore della ricerca online, ma anche in ambiti emergenti come l’intelligenza artificiale.
Il giudice Amit P. Mehta, malgrado abbia respinto alcune delle accuse mosse dal DOJ contro Google, restringendo in tal modo il caso e segnando una piccola vittoria per l’azienda (ha dichiarato che Google non era tenuta a difendersi dalle accuse secondo cui la sua pagina dei risultati di ricerca avrebbe danneggiato concorrenti come Expedia o Yelp), ha tuttavia riconosciuto meritevoli di accoglimento alcune delle accuse più significative, incluso l’addebito chiave per cui i contratti esclusivi di Google con i produttori di smartphone stesse, a tutti gli effetti, danneggiano i concorrenti.
Addirittura secondo il DOJ l’eliminazione delle clausole di esclusiva dai contratti di Google – ovvero quelle clausole che limitano o proibiscono a una delle parti di collaborazione con concorrenti – potrebbe influenzare positivamente la struttura del mercato.
Tuttavia, il giudice Mehta ha respinto questa teoria, sostenendo che, indipendentemente dalle specifiche dei contratti, Google manterrebbe comunque la sua posizione dominante senza operare interventi più incisivi. Il parallelo con il fallimento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti nel caso Microsoft degli anni ’90, dove un tale rimedio non è riuscito a scalfire efficacemente il monopolio del sistema operativo, è evidente e consiglia proprio che la semplice eliminazione delle clausole di esclusiva potrebbe non rivelarsi sufficiente.
Pare dunque che la pronuncia del giudice Amit Mehta possa aver aperto la strada a un intervento corposo benché ancora imprevedibile.
Jonathan Kanter, capo dell’antitrust del DOJ, ha dichiarato che la decisione ” non solo rende Google responsabile” e “ma apre la strada all’innovazione per le generazioni future, proteggendo l’accesso alle informazioni per tutti gli americani“.
Anche DuckDuckGo, rappresentato dal vicepresidente senior per gli affari pubblici Kamyl Bazbaz, ha accolto favorevolmente il verdetto di Agosto, pur riconoscendo che la battaglia si presenta ancora lunga, con Google che probabilmente cercherà di evitare cambiamenti significativi.
I prossimi step del provvedimento e la reazione di Goolge
La sentenza, come evidenziato, non determina i rimedi che verranno imposti a Google. La fase successiva del procedimento sarà pertanto cruciale nel definire il futuro dell’azienda, con possibilità che vanno dall’interruzione di specifiche pratiche commerciali alla possibile divisione delle attività di ricerca di Google.
Intanto Google ha già dichiarato la sua intenzione di appellarsi, prolungando un contenzioso che si sta già trascinando da più di quattro anni.
Non è un caso che Kent Walker, presidente degli affari globali, abbia manifestato disappunto e perplessità: “Questa decisione riconosce che Google offre il miglior motore di ricerca, ma conclude che non possiamo essere autorizzati a renderlo facilmente disponibile“.
Gli avvocati del DOJ invece sono sempre più convinti che la vendita di Chrome consentirebbe ai motori di ricerca rivali di accedere a un punto di ingresso fondamentale nel web, mettendo in discussione il predominio della piattaforma di Mountain View.
Sanzioni proposte, reazioni e preoccupazioni
La proposta di scissione, se accettata, potrebbe costringere Google a vendere Chrome entro sei mesi dalla decisione finale del giudice, prevista prima del Labor Day.
In più il Dipartimento di Giustizia chiede il divieto dei contratti multimilionari che fissano il motore di ricerca di Google come opzione predefinita su dispositivi come l’iPhone di Apple. La questione della trasparenza commerciale appare infatti uno dei cardini delle richieste sanzionatorie. Solo rendere noti i criteri di pricing per gli inserzionisti, nelle intenzioni del DOJ, potrebbe colpire direttamente la strategia economica alla base del business di Google.
Tanto Kent Walker, responsabile legale di Google, quanto il vicepresidente degli affari normativi, Lee-Anne Mulholland, hanno nondimeno denunciato quanto le soluzioni proposte dal DOJ rappresentino “un programma radicale” che esula dal contesto legale in questione, intendendo colpire in modo sproporzionato non solo Google Search ma un’intera gamma di prodotti Google amati e utilizzati in tutto il mondo..
“Se il governo facesse questo tipo di scelte danneggerebbe i consumatori, gli sviluppatori e la leadership tecnologica americana proprio nel momento in cui ce n’è più bisogno“, ha affermato Mulholland in una nota.
Oltre a ciò Walker ha criticato la proposta del Dipartimento di Giustizia di installare due schermate di scelta separata prima di poter accedere a Google Search su un telefono Pixel ed ha avvertito che il piano del Dipartimento, qualora condiviso dalla Corte, potrebbe seriamente esporre segreti commerciali ad aziende straniere così come, per altri versi, un eccessivo intervento normativo rischierebbe di compromettere il potenziale innovativo di Google e altre aziende americane, specialmente nel campo dell’intelligenza artificiale.
Viceversa il Dipartimento di Giustizia continua a ritenere estremamente nociva l’abitudine di Alphabet di preinstallare i prodotti Google su Android, insistendo per “incisive correzioni comportamentali e strutturali” volte ad impedire a Google di utilizzare la sua posizione dominante su Chrome, Play Store e Android.
Sia come sia, gli effetti anticoncorrenziali delle grandi aziende digitali, insieme alle pratiche di esclusione, abuso di posizione dominante e fusioni e acquisizioni che alterano la libera concorrenza, restano evidenti. Tuttavia, le misure repressive intraprese finora non sembrano preoccupare particolarmente i colossi tecnologici del web. Le recenti sanzioni contro i giganti digitali non sono riuscite a contrastare le loro pratiche di concorrenza sleale, né sembrano incidere sulle loro previsioni di guadagno. La percezione di un’insufficienza della risposta sanzionatoria è palese, così come appare evidente l’inadeguatezza dell’attuale normativa antitrust. Crescono i dubbi non solo tra gli economisti, ma anche tra le istituzioni politiche.Le teorie economiche tradizionali si dimostrano sempre più inadeguate; la vaghezza delle norme del diritto antitrust e i concetti indefiniti della disciplina della concorrenza non rispondono alle esigenze di giustizia e benessere sociale derivanti dallo sviluppo di un’economia digitale basata sui dati. Approcci ancora fortemente legati alla teoria dei prezzi e al “benessere dei consumatori”, misurabili a breve termine, risultano completamente disallineati rispetto alle strutture di potere di mercato dell’economia moderna, tanto in America quanto in Europa.Di fronte alla crescente complessità della società del XXI secolo, le attuali regole a tutela del pluralismo e dei diritti fondamentali appaiono in realtà fortemente in crisi. Le stesse leggi antitrust, soggette a diverse interpretazioni, contribuiscono all’incertezza sulle condotte proibite e sulle modalità di applicazione delle norme. I poteri privati sfruttano queste ambiguità: le peculiarità della data economy, caratterizzata dalla valorizzazione dei dati, sono strettamente legate al potere di mercato delle realtà tecnologiche dominanti, le quali continuano ad abusare delle loro posizioni a discapito della libera concorrenza. Inoltre, le grandi industrie tecnologiche operano a livello globale, e le violazioni antitrust possono coinvolgere giurisdizioni multiple. La cooperazione tra diverse autorità di regolamentazione antitrust non sempre risulta efficace e richiede tempo per raggiungere un consenso e un’azione coordinata.
È dunque impossibile immaginare un business etico?
I rimedi alternativi alla scissione
Molti esperti del settore tecnologico sono ansiosi di vedere come il giudice Mehta affronterà i vari aspetti del caso. Tuttavia, è importante ricordare che la storia degli Stati Uniti offre già diversi esempi di aziende smembrate per motivi antitrust, come la Standard Oil, il colosso petrolifero fondato da John D. Rockefeller nel 1911, e AT&T, il principale monopolista delle telecomunicazioni negli Stati Uniti , smembrato nel 1982.
La teoria antitrust suggerisce che i rimedi strutturali, come la separazione delle linee di business, possono essere efficaci per prevenire pratiche escludenti, specialmente quando un’azienda controlla una “struttura essenziale”. Tuttavia, ci sono poche prove empiriche sui vantaggi e gli svantaggi di tali scissioni. In tal senso, proprio le esperienze passate possono offrire importanti spunti su cui riflettere.
Nel 1911, il governo smembrò la Standard Oil, dividendo le sue azioni tra 33 società, tra cui Exxon, Arco e Chevron. Nonostante la quota di mercato complessiva delle società derivate dalla Standard Oil fosse scesa al 50% nel 1920 e al 40% nel 1940, queste continuarono a dominare l’industria petrolifera. Nel 1982, sotto la spinta delle autorità antitrust, anche AT&T fu smembrata. La compagnia madre si ridusse, mentre sette “Baby Bells” venivano creati, con le loro azioni distribuite agli azionisti di AT&T. Tra ottobre 1982 e ottobre 1992, il valore complessivo di queste azioni aumentò di oltre due volte e mezzo, pari a un incremento di 140 miliardi di dollari.
In altre parole, coloro che hanno perso nelle cause antitrust hanno continuato a prosperare nel mercato, mentre le aziende che hanno avuto successo sul piano politico, come GM (prima della GM c’era la US Steel) e IBM, un tempo simboli di potenza economica americana, hanno sperimentato un successo che ha avuto impatti significativi sull’economia e sulla società degli Stati Uniti nei primi anni ’90. Alla luce di queste lezioni, è quindi lecito chiedersi se non sia giunto il momento di adottare approcci diversi nei confronti delle aziende dominanti nei settori industriali strategici.
I metodi antitrust per affrontare i problemi legati ai monopoli e all’auto-preferenza
I metodi antitrust utilizzati per affrontare i problemi legati ai monopoli e all’auto-preferenza, soprattutto nel contesto delle Big Tech, sono da tempo oggetto di dibattito. L’auto-preferenza si verifica quando una piattaforma dominante favorisce i propri servizi o prodotti a discapito della concorrenza, riducendo le scelte per i consumatori e ostacolando l’innovazione. Per contrastare tale comportamento, i regolatori hanno sviluppato due approcci principali, che vengono metaforicamente identificati come il “Cleaver” e il “Watcher“[3].
Approfondiamo.
Entrambi questi strumenti mirano a limitare il monopolio delle grandi aziende tecnologiche, come Google, ma presentano sfide e limitazioni significative.
Il metodo Cleaver
Il metodo “Cleaver” si riferisce a misure strutturali dirette a spezzare le entità che detengono poteri monopolistici, ad esempio attraverso la scissione delle aziende o la separazione delle loro linee di business. Questo approccio è visto come una “lama” che separa fisicamente o funzionalmente le parti di un’impresa che, operando insieme, potrebbero abusare del loro potere di mercato. L’idea alla base di questa strategia è che quando un’azienda ha il controllo di più segmenti di mercato che interagiscono tra loro (ad esempio, una piattaforma che opera sia come operatore di mercato sia come fornitore di servizi), la separazione di queste l’attività riduce la possibilità di auto-preferenza e facilita la concorrenza. L’obiettivo è quello di creare una netta divisione tra le parti di un’azienda che potrebbero potenzialmente generare auto-preferenze e altre parti che operano in un mercato competitivo. Questo criterio è considerato drastico e diretto, con l’idea che rimuovere l’integrazione verticale possa ridurre il potenziale abuso di potere di mercato. Se applicato correttamente, potrebbe portare a una maggiore concorrenza e all’innovazione in segmenti di mercato precedentemente dominati. Tuttavia, le scissioni possono avere costi elevati e conseguenze negative sull’innovazione. Le aziende scisse potrebbero perdere sinergie che erano alla base della loro crescita e della loro capacità di innovare. Inoltre, l’applicazione di rimedi strutturali non sempre appare efficace nel contesto di aziende che lavorano in settori ad alta innovazione, come quelli tecnologici.
Come dimostrato dal caso AT&T, ciò che viene smembrato può, col tempo, riunirsi.
Le divisioni possono essere temporanee, e le aziende possono trovare modi per reintegrare le loro operazioni.
Il tentativo di smembrare un monopolio può creare nuovi monopoli. Nel caso di Microsoft, il rimedio proposto dal DOJ avrebbe creato due nuovi monopoli: uno per il sistema operativo e uno per le applicazioni.
Alcuni colli di bottiglia non sono facilmente divisibili. Le infrastrutture complesse possono richiedere una gestione unificata per funzionare efficacemente.
Il metodo “Watcher”
Il metodo “Watcher”, al contrario, si riferisce ad un approccio che si concentra sul monitoraggio e sull’intervento diretto sui comportamenti aziendali, senza dover ricorrere alla scissione delle aziende. Questo approccio mira a prevenire comportamenti anti-concorrenziali attraverso regolamenti specifici che limitano le pratiche di auto-preferenza, ma senza stravolgere la struttura delle aziende. Si tratta di un tipo di “sorveglianza” in cui le autorità antitrust monitorano e regolano l’operato delle aziende dominanti, intervenendo quando viene rilevato un abuso di potere di mercato. Un esempio è rappresentato dal Digital Markets Act (DMA) dell’Unione Europea, che impone restrizioni a piattaforme “gatekeeper” come Google, Amazon e Facebook. Le norme specificano comportamenti proibiti, come l’auto-preferenza dei propri servizi nelle ricerche o nei risultati di acquisto, e richiedono che queste piattaforme non discriminino i concorrenti nei loro mercati digitali.
Questo approccio include:
- Enti regolatori: agenzie o autorità per monitorare e far rispettare le regole contro l’auto-preferenza. Ad esempio, le autorità di concorrenza o i regolatori specifici del settore possono indagare e penalizzare le aziende che abusano della loro posizione dominante.
- Requisiti di trasparenza e rendicontazione: obbligare le aziende a divulgare determinate informazioni e ad attenersi a rigorosi standard di rendicontazione per garantire che non adottino pratiche anticoncorrenziali.
- Programmi di conformità: richiedere alle aziende di implementare programmi di conformità interna e di condurre audit regolari per garantire il rispetto dei principi di concorrenza leale.
Il criterio di tipo “Watcher” può tuttavia risultare inefficace nel contrastare comportamenti elusivi o complessi. Le regolazioni normative possono essere difficili da applicare in modo uniforme e possono essere vaghe e aggirate dalle aziende dominanti, soprattutto in settori tecnologici in rapida evoluzione. Inoltre, un monitoraggio eccessivo può disincentivare l’innovazione e portare a una sovra-regolamentazione.
Nel caso specifico dei mercati digitali, l’approccio “Cleaver” è quello insito nelle proposte di separare le piattaforme dei giganti della tecnologia dalle loro altre attività commerciali. Google nel caso de quo. L’approccio “Watcher” è invece quello alla base delle indagini e normative antitrust in corso per garantire che le piattaforme non favoriscano ingiustamente i propri prodotti. Il DMA dell’UE per l’appunto.
Secondo il documento “Resolving the Google dual bottleneck monopoly” di Peter Carstensen e Darren Bush, potrebbero però esserci altre opzioni per affrontare il monopolio di Google.
Il riferimento è rivolto ai modelli cooperativo e condominiale che offrono soluzioni alternative basate sulla condivisione e la gestione collettiva delle risorse e delle infrastrutture.
Il modello cooperativo
Il modello cooperativo, in ambito antitrust, si riferisce alla creazione di una cooperativa composta da vari stakeholder del mercato chiamati a gestire un asset monopolistico. Nel caso di specie una cooperativa potrebbe possedere il motore di ricerca, con i costi di manutenzione condivisi tra i membri in base all’utilizzo. Le proprietà essenziali, come le piattaforme digitali o le reti di telecomunicazioni, sarebbero possedute collettivamente da un consorzio di partecipanti del mercato. Le decisioni su come gestire e utilizzare queste risorse verrebbero prese collettivamente, spesso attraverso votazioni democratiche tra i membri del consorzio. Tutti i membri del consorzio dovrebbero avere accesso equo alle risorse condivise, prevenendo pratiche di esclusione e promuovendo la concorrenza.
Questa trasformazione della proprietà dovrebbe modificare gli incentivi che regolano il funzionamento e l’espansione del collo di bottiglia. In un modello cooperativo, ogni partecipante ha interesse a gestire l’entità in modo efficiente e con la massima capacità possibile. Un esempio storico è rappresentato dagli elevatori per cereali nei primi anni del 1900, dove gli agricoltori istituirono elevatori cooperativi per aggirare le pratiche monopolistiche e aumentare i loro ricavi.
Il modello condominiale
Il modello condominiale, noto anche come “governance multi-stakeholder”, prevede invece che le risorse essenziali siano gestite come un condominio, dove diverse parti interessate (stakeholder) condividono la responsabilità della gestione e delle decisioni operative. Le risorse sono possedute da un insieme di stakeholders che includono aziende, governi, organizzazioni non profit e utenti finali. Le decisioni sulla gestione delle risorse sono prese attraverso un processo inclusivo che coinvolge tutte le parti interessate. Le operazioni quotidiane e le politiche di utilizzo sono governate da norme e regolamenti stabiliti collettivamente. Ogni partecipante possiede una quota dell’asset e ha il diritto di utilizzarlo, mentre la gestione e la manutenzione dell’asset sono effettuate da un’entità separata, che agisce come l’amministratore di un condominio.
Questo modello è adatto quando la conduzione del collo di bottiglia è facilmente separabile dall’utilizzo conseguente. Un esempio è la gestione dei diritti di capacità sui gasdotti, dove il gestore coordina l’uso e i titolari dei diritti possono utilizzare la struttura secondo necessità. In alcuni paesi, le risorse idriche sono gestite da consorzi multi-stakeholder che includono enti governativi, aziende private, e comunità locali. Organizzazioni come ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) lavorano secondo un modello multi-stakeholder per la gestione delle risorse di internet.
In un modello condominiale, i diritti di utilizzo sono negoziabili. La dispersione dei diritti tra molti proprietari elimina le opportunità di condotta discriminatoria o escludente, poiché ogni proprietario ha l’incentivo a vendere o affittare i propri diritti quando il prezzo supera il loro valore per il diritto.
Come i precedenti entrambi questi modelli rappresentano soluzioni percorribili e potenzialmente idonei ad un’applicazione congiunta con altri rimedi strutturali in ambito antitrust. Chiaramente la scelta tra l’uno o l’altro modello dipenderà dalle specifiche esigenze del mercato e dagli obiettivi delle autorità antitrust. Soprattutto, sia nel modello condominiale che in quello cooperativo, come in ogni altro modello, si rivelerà fondamentale la presenza di strutture di governance che dovranno essere affidabili, tempestive ed efficienti. Ogni modello presenta infatti rischi e difficoltà e richiede un’attenta implementazione per promuovere una concorrenza efficace. Garantire un mercato digitale competitivo è essenziale per stimolare l’innovazione e prevenire l’abuso di potere da parte delle grandi aziende tecnologiche.
Implicazioni per il futuro della concorrenza
Il caso Google ha sollevato importanti interrogativi sul potere monopolistico nel settore tecnologico, con ripercussioni che si estendono anche ad altri colossi della Silicon Valley. Questo episodio sembra essere solo l’inizio di una serie di interventi antitrust che coinvolgeranno non solo Google, ma anche Amazon, Apple e Meta.
Google, in particolare, affronterà un altro processo antitrust relativo alla sua attività di tecnologia pubblicitaria[4], dove, tra le altre cose, viene ritenuto responsabile di aver stipulato un “accordo illegale” che nel 2018 avrebbe coinvolto sia il colosso della pubblicità che il suo rivale, Facebook (Meta), dando vita a un’intesa controversa. In sostanza, Google avrebbe mantenuto il suo predominio nel settore della pubblicità programmatica, mentre Facebook, promettendo di non sostenere sistemi pubblicitari concorrenti, avrebbe ottenuto accesso a condizioni vantaggiose nel mercato degli annunci online. L’accordo riguarda la pratica dell’header bidding, un processo tecnologico utilizzato nel programmatic advertising che, pur essendo automatizzato, permette frequentemente offerte personalizzate, denominate “markup”, che facilitano le vendite mirate e accordi strategici controversi. Il nome dell’accordo, emerso da un’inchiesta del Wall Street Journal firmata da Ryan Tracy e John D. McKinnon, che ha analizzato una versione non oscurata della causa, evoca l’immaginario di “Star Wars”, a partire dal titolo stesso : “Blu Jedi”.
Riguardo a Meta, la Federal Trade Commission ha avviato un’azione legale per bloccare l’acquisizione di WhatsApp e Instagram. L’azione legale si inserisce in un contesto più ampio di interventi antitrust che mirano a contrastare pratiche anti-concorrenziali nel settore tecnologico. Meta è accusata di aver utilizzato strategie per consolidare il suo predominio nel mercato dei social media e limitare la crescita di potenziali concorrenti. Parallelamente, alcune cause sono state intentate contro Apple da sviluppatori e Stati. L’azienda viene accusata di violare le leggi antitrust con le sue politiche sull’App Store, imposte attraverso commissioni elevate e restrizioni che limitano le scelte degli sviluppatori, ostacolando la concorrenza nel mercato delle app.
Le battaglie legali su questi temi domineranno il 2025, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, dove la Commissione Europea ha recentemente introdotto nuove normative specifiche. L’Unione Europea ha infatti una lunga tradizione di interventi contro pratiche anticorrenziali. Google è già stato oggetto di diverse sanzioni nell’UE, in particolare per il suo dominio nel mercato della pubblicità online e per il trattamento privilegiato dei propri servizi nei settori della ricerca e dello shopping.
Non solo.
Il Digital Markets Act, entrato in vigore nel 2023, è la regolamentazione europea mirata a garantire una concorrenza leale nel mercato digitale, e lascia intendere implicazioni dirette per Google e altre grandi piattaforme. Questa legge requisisce rigorosi, tra cui potenziali misure di separazione o il divieto di comportamenti monopolistici.
Negli anni passati, Google ha già affrontato sanzioni significative dalla Commissione Europea, ammontanti a miliardi di euro. Un eventuale smantellamento di Chrome sarebbe solo l’ultima di una serie di misure destinate a garantire la concorrenza.
L’UE sta inoltre investigando sulle pratiche di Meta riguardo alla pubblicità mirata e ha avviato un’inchiesta su Apple riguardo alle politiche dell’App Store e al trattamento dei concorrenti, soprattutto per le condizioni imposte agli sviluppatori. Anche Amazon è sotto indagine per l’uso dei dati dei venditori terzi nel suo marketplace, violando le norme sulla concorrenza.
La crescente attenzione nei confronti delle pratiche messe in atto dalle big tech è pertanto evidente. Così come è certa la preoccupazione sui loro poteri monopolistici e sugli effetti delle loro politiche sulla concorrenza, i diritti dei consumatori e l’innovazione.
Le azioni antitrust, ritenute inevitabili per ristabilire un equilibrio nel mercato e proteggere i diritti dei consumatori e delle piccole imprese, non sembrano però sortire l’effetto desiderato. Almeno fino ad ora.
L’attenzione pubblica e la pressione politica su questi temi continueranno dunque a essere un fattore chiave negli sviluppi futuri.
A tal riguardo resta da capire se il tentativo del DOJ di forzare Google a separare Chrome avrà impatti significativi non solo su Google, ma su tutta l’industria tecnologica e se la decisione del giudice Mehta, qualunque essa sia influenzerà il modo in cui altri giudici applicheranno le leggi antitrust ai mercati digitali moderni.
David Halliday, professore associato di gestione strategica e politica pubblica alla George Washington School of Business, sostiene che i rimedi proposti dal DOJ “potrebbero mettere a rischio la capacità di Google di competere nel suo core business di ricerca e pubblicità” e “che l’impatto potrebbe essere meno eclatante della divisione della Standard Oil, ma più significativo della divisione di AT&T”.
Chiaramente la separazione di Chrome da Google farebbe pensare al rischio di una minore efficienza operativa e a un aumento dei costi; potrebbe influenzare il valore di mercato di Google e anche rallentare l’innovazione.
Per l’industria tecnologica in generale, gli impatti potrebbero includere una maggiore rivalità tra i browser e la creazione di un precedente significativo nel campo delle leggi antitrust, con altre grandi aziende tech che potrebbero trovarsi sotto scrutinio. Anche l’ecosistema delle applicazioni web potrebbe essere influenzato, con cambiamenti nel supporto e negli aggiornamenti delle API che potrebbero avere ripercussioni su miliardi di utenti e sviluppatori.
In Europa i cambiamenti forzati a Google potrebbero incoraggiare altre aziende europee a investire nello sviluppo di tecnologie alternative, inclusi browser indipendenti o motori di ricerca, accelerando il progresso in ambito tecnologico.
La separazione di Chrome potrebbe aprire la strada a nuovi attori nel settore dei browser, simile a quanto può avvenire in seguito a regolamentazioni più severe. Ciò potrebbe portare a un ambiente di mercato più dinamico, a beneficio degli utenti europei.
Un caso così sostanziale potrebbe influenzare anche la cooperazione tra Stati Uniti e Europa riguardo alle politiche sulla tecnologia.
Potrebbe esserci un’influenza reciproca, in cui le azioni regolatorie sfruttano i punti di vista e le esperienze l’una dell’altra per affrontare il potere delle big tech.
Tante previsioni dagli esiti però molto incerti[5].
La situazione è complessa e le conseguenze di tali possibili misure richiederanno tempo per manifestarsi appieno.
Verso un quadro concorrenziale equo ed efficiente?
L’imposizione di una vendita di Chrome come “punizione” contro Google rappresenta una mossa certamente audace nel tentativo di reprimere pratiche monopolistiche. Le conseguenze di tale decisione possono diffondersi ben oltre i confini di Google e influenzare radicalmente la struttura dell’intero ecosistema della tecnologia.
Tanto basterà a ristabilire un quadro concorrenziale equo ed efficiente?
Mentre da un lato la scissione da Chrome potrebbe incentivare la concorrenza e migliorare i servizi per gli utenti, dall’altro potrebbero sorgere incertezze economiche e sfide per l’innovazione in un mercato già complesso.
I casi antitrust contro i giganti tecnologici tra cui oltre a Google, Amazon, Apple e Meta procedono con un ritmo intrinsecamente lento a causa della natura stessa di queste indagini. Le azioni legali portate avanti dal Dipartimento di Giustizia e dalla Federal Trade Commission sono basate su comportamenti passati e sono orientate a investigare pratiche già avvenute nei mercati consolidati, che possono essere documentate e analizzate in modo accurato. Dunque si concentrano sul ripristino della concorrenza a partire da comportamenti precedenti, cercando di correggere distorsioni che si sono già verificate nel mercato.
Tuttavia, la sfida da affrontare ha confini ben più estesi e coinvolge il progresso tecnologico nel suo imprevedibile divenire. La tecnologia, in particolare nel campo dell’intelligenza artificiale, della blockchain e di altre innovazioni emergenti, sta cambiando rapidamente il panorama dei mercati digitali. Queste tecnologie avanzano a una velocità impressionante, creando nuovi modelli di business, nuovi competitor e nuove dinamiche di mercato che non sono ancora completamente comprese o regolate. In questo contesto, la lentezza dei processi antitrust risulta perciò inadeguata a rispondere tempestivamente alle sfide future.
I cambiamenti tecnologici ben potrebbero sconvolgere un intero settore prima che le autorità competenti riescano a intervenire.
Non solo, poiché l’innovazione tecnologica sarebbe in grado di rendere obsolete le stesse dinamiche di mercato che oggi sono oggetto di contenzioso. I mercati digitali sono per loro natura fluidi e in continua trasformazione, con nuovi attori che emergono all’improvviso, pronti a sfidare i colossi del settore. Questo rende ulteriormente difficile per le autorità prevedere e regolare adeguatamente il futuro tecnologico, soprattutto quando il tempo necessario per risolvere le cause è più lungo rispetto al ciclo di vita di una nuova tecnologia o piattaforma.
La situazione in Europa
In Europa, la situazione relativa a Google e alle questioni di monopolio è altrettanto complessa e caratterizzata già da una forte regolamentazione.
Mentre il settore tech si prepara a ciò che potrebbe rivelarsi uno snodo cruciale, il comportamento futuro di Google e la risposta delle altre aziende del settore dovranno essere attentamente monitorati.
La questione del monopolio e della concorrenza è di fronte a una sfida non più procrastinabile, e quale che sia l’esito, è probabile che questo caso, nel bene o nel male, avrà comunque un certo impatto sulle dinamiche del mercato tech globale.
Sarà necessario un esame attento del modo in cui la progettazione delle tecnologie dell’informazione e della raccolta dei dati all’interno dei modelli di business dei giganti del web riflettono e riproducono la nuova dimensione del potere economico e politico. E come questi siano destinati ad incidere nella sostanza e nell’interpretazione delle garanzie legali fondamentali, intese come presidi giuridici all’interno dei quali vengono definiti i diritti, le libertà, gli obblighi e le modalità con cui vengono applicati.
Presidiare un tale “territorio” si sta rivelando alquanto difficile: alla crisi di fiducia verso le istituzioni, rivelatesi molto spesso interpreti in affanno e poco efficaci verso i continui cambiamenti prescritti dall’evoluzione digitale, fa eco il ritardo maturato nel percorso legislativo verso la definizione delle giuste cornici normative.
Nel frattempo, i nodi irrisolti vengono affrontati a livello giurisprudenziale e gli abusi di posizione dominante sanzionabili erosi in varie occasioni dalle Corti e dalle Autorità.
Tanto però non si dimostra però proficuo con le istanze promosse dall’economia dei dati e da una società digitale in costante evoluzione.
Note
[1]Nel 2020, il DOJ e diversi stati hanno citato in giudizio Google, accusandola di mantenere illegalmente il suo monopolio sulla ricerca su Internet e sulla pubblicità sui motori di ricerca. Per anni, Google ha pagato miliardi di dollari ad aziende come Apple, Samsung e Mozilla per essere il motore di ricerca predefinito su smartphone e browser web. Secondo il governo, questi contratti hanno consolidato il predominio di Google, rendendo difficile per i concorrenti guadagnare quota di mercato. Durante il processo, gli avvocati del DOJ hanno sostenuto che il controllo di Google sulla ricerca online le ha permesso di raccogliere più dati dagli utenti, migliorando così il suo prodotto e rendendolo più difficile da spodestare per i rivali. Google, d’altro canto, ha sostenuto di aver semplicemente creato il miglior prodotto di ricerca disponibile.Il DOJ ha proposto una serie di misure per ristabilire la concorrenza nel mercato. Oltre a richiedere la vendita di Chrome, il governo ha suggerito di impedire a Google di stipulare accordi esclusivi per i motori di ricerca. Un’altra proposta è quella di costringere Google a condividere i suoi risultati di ricerca e dati con i rivali per un decennio. Inoltre, il DOJ ha suggerito che Google deve scegliere tra vendere Android, il suo sistema operativo per smartphone, o smettere di costringere le aziende a raggruppare i suoi servizi con i telefoni Android. Infine, il governo ha chiesto a Google di liberarsi delle partecipazioni nelle società di intelligenza artificiale, poiché queste potrebbero rafforzare la sua posizione nel mercato della ricerca.
[2]Questa decisione rappresenta uno dei più significativi interventi antitrust dagli anni 2000, quando il caso Microsoft fece scalpore. Il caso contro Google è stato avviato nel 2020, con due cause legali principali. La prima, intentata dal DOJ e da 11 procuratori generali, accusa Google di tre capi di imputazione per monopolizzazione. La seconda causa, presentata da 38 procuratori generali, aggiungeva ulteriori accuse, compresa quella di auto-favoreggiamento delle proprie offerte pubblicitarie e servizi verticali a spese della concorrenza.
Google è stata accusata di utilizzare tattiche anti correnziali per mantenere il suo monopolio, come pagare aziende come Apple e Mozilla per impostare Google Search come motore di ricerca predefinito sui loro browser. Inoltre, Google ha richiesto ai produttori di telefoni Android di preinstallare i suoi prodotti, tra cui Chrome e Search, offrendo incentivi economici per garantire queste pr
Il giudice Amit Mehta ha ritenuto che tali pratiche violassero la Sezione 2 dello Sherman Act, configurandosi come condotte di esclusione volte a mantenere il potere di monopolio di Google. La sentenza, composta da 277 pagine, è il risultato di tre anni di indagini e testimonianze di alto livello.
[3]Per approfondimenti: https://www.thesling.org/condo-and-coop-two-solutions-to-monopoly-bottlenecks-and-self-preferencing-in-big-tech/
[4]Nel 2020, anche la Australian Competition and Consumer Commission (ACCC) ha avviato un’indagine sulla pubblicità digitale e il mercato dei servizi pubblicitari online, con un’attenzione particolare a Google e Facebook. Nel 2021, la Competition and Markets Authority (CMA) del Regno Unito ha aperto un’indagine sul mercato della pubblicità digitale, sempre concentrandosi su Google e Facebook.
Le cose non vanno diversamente in Cina dove la stretta contro i poteri privati del web è serrata e rappresenta un fattore strategico e geopolitico considerato prioritario e cruciale.
Dal canto suo Bruxelles ha già colpito Google con multe per oltre 8 miliardi di euro in tre diversi casi antitrust[1], riguardanti il suo sistema operativo mobile Android e i servizi di shopping e search advertising. La società, come noto, ha impugnato tutte e tre le sanzioni.
Risale a maggio 2021 il provvedimento dell’AGCM, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Italia, che ha sanzionato le società Alphabet Inc. (Holding di Google LLC), Google LLC e Google Italy S.r.l. per violazione dell’art. 102 del TFUE costringendole al pagamento di una multa di oltre 102 milioni di euro per abuso di posizione dominante relativamente all’accesso al mercato delle App.
A distanza di un solo mese, si pone sulla stessa scia l’Antitrust francese, che si è scagliato contro Google con una sanzione di 220 milioni di euro per abuso di posizione dominante nell’ambito però del digital advertisement.
Google non è solo; a fargli compagnia nella vasta prateria delle accuse c’è anche Amazon. E non poteva mancare neppure Meta. Le cose non vanno meglio per l’ecosistema Apple Inc., oggetto di numerosi reclami alcune dei quali sostenuti da sviluppatori software indipendenti – a partire dagli Stati Uniti con Epic Games(creatore del popolarissimo gioco battle royale “Fortnite” ), con il caso Apple v. Pepper e l’azione collettiva di Donald R. Cameron e Pure Sweat Basketball, Inc. contro Apple Inc. Oltre alle accuse dell’Unione europea principalmente legate alla sua App Store e alle politiche di distribuzione delle app. Per approfondimenti: https://agendadigitale.eu/mercati-digitali/spezzare-google-lultima-battaglia-dellantitrust/
[5]L’idea che separare o smembrare le attività delle grandi aziende tecnologiche potesse costituire una misura efficace per affrontare i potenziali problemi di dominanza di mercato nel settore tecnologico era già stata avanzata da Elizabeth Warren: durante la sua campagna presidenziale nel 2020, l’ex senatrice degli Stati Uniti ha proposto pubblicamente la separazione di alcune delle grandi aziende tecnologiche, come Amazon, Google e Facebook. Ha sostenuto che queste aziende hanno acquisito un potere eccessivo e dovrebbero essere smembrate per ripristinare la concorrenza nel settore.
È importante notare che, sebbene proposte e teorie come questa della senatrice Warren abbiano avuto il merito di suscitare un ampio dibattito sul potere delle grandi aziende tecnologiche e abbiano contribuito ad orientare la discussione sulla regolamentazione del settore, tuttavia non hanno ancora ottenuto un sostegno sufficiente per essere attuate a livello legislativo. Tanto in Europa quanto negli USA.
Nel frattempo, è difficile immaginare come un tale smembramento offrirebbe agli utenti una maggiore scelta di servizi o un maggiore controllo sui propri dati, o come aiuterebbe a coltivare le piccole imprese e a ridurre i costi per i consumatori e la società.
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