di Anna Gandolfi
Il campione di canoa ha 55 anni e vive a Lecco:«Ho avuto un infarto durante una gara in bici, mi scocciava dire che stavo male e non ho chiamato subito i soccorsi». La politica?«Ho avuto la tessera della Lega, però è scaduta». La foto nudo in copertina: «Mia moglie e la Finanza non l’hanno presa bene»
Ripubblichiamo l’intervista di Anna Gandolfi ad Antonio Rossi, pubblicata a maggio, una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024.
«Mi seccava dire che non stavo bene. Mollare una gara? Io? Chiamo: ho bucato, con calma venite a prendermi. È arrivato uno scooter ma non sono riuscito a salirci».
E quel giorno la sua vita è cambiata.
«Prima mi sentivo indistruttibile, non temevo allenamenti duri. Adesso mi scatta il panico se mi taglio e vedo il sangue che non si ferma per via degli anticoagulanti. Le medicine le prendo ancora, sono passati quasi tre anni, sto bene ma ho cambiato approccio: so che basta un attimo per cancellare tutto, perché il fisico ti molli».
Anche se ti chiami Antonio Rossi, sei un campione di canoa plurimedagliato – tre ori mondiali, uno europeo, cinque Olimpiadi con tre ori, un argento e un bronzo – e dello sport hai fatto il perno della tua esistenza.
Quel giorno – domenica 18 luglio 2021 – Rossi non stava pagaiando ma pedalando per la Granfondo Pinarello a Conegliano.
«Non volevo farmi superare, inoltre non mi sembrava giusto creare preoccupazioni a Fausto Pinarello, che per un malore aveva perso il fratello. Ripetevo: mi riprendo, sto qui sul muretto, non è niente. Invece non passava. Avevo fatto una salita e sentivo la nausea, ipotizzavo fosse una congestione, è arrivato il formicolio. Intanto mi sfrecciavano davanti gli altri: tutto bene? Sì, bene. Sarà stato il caso ma io che non salvo mai il numero del pronto intervento alle gare in quel caso l’avevo memorizzato sul cellulare. Dopo che è arrivato il cambio della gomma, con lo scooter su cui non sono riuscito a salire, è partita l’allerta. Test sul posto e verdetto: non ti muovi, stai avendo un infarto».
Ha pensato di morire?
«In quel momento no. In seguito un amico medico ha detto che mi era andata bene: il trombo – di quello si trattava – avrebbe potuto arrivare alla testa».
Rossi è nato il 19 dicembre1968, ha 56 anni. Lecchese, oggi la sua vita è nel management e collabora con il Comitato olimpico Milano-Cortina 2026. Dopo lo sport si è avvicinato alla politica «ma sempre da civico e da tecnico. Ho avuto la tessera della Lega, da sostenitore, però è scaduta».
In Regione è stato assessore e sottosegretario con Roberto Maroni e Attilio Fontana, dunque civico ma di centrodestra.
«Una parte dei miei fan, che prima erano trasversali, mi ha mollato. Scherzi a parte: oggi non sono più in Consiglio, neanche in Comune a Lecco, e amo tantissimo quello che faccio. Dell’esperienza precedente sono contento e non rimpiango nulla».
Il nome di un politico che stima, da una parte e dall’altra.
«Restiamo in Regione: Attilio Fontana, presidente che sa affrontare l’incarico con il pragmatismo di sindaco; Fabio Pizzul del Pd, ha fatto opposizione costruttiva».
Torniamo allo sport. Come ha cominciato con la canoa?
«Sono il più piccolo di cinque figli, le mie sorelle nuotavano con la Canottieri Lecco. Anche mio fratello aveva iniziato a uscire in canoa e si divertiva. Ho provato e non ho più smesso. Ecco: ero davvero una pippa».
Non vinceva?
«Sono nato a dicembre, trovavo in gara ragazzi più grandi. Infine sono partito anche io: sognavo la maglia azzurra, non mi sarei immaginato di arrivare dove sono arrivato».
Una volta ha detto: «So di aver rovinato tanti atleti, forse più di quanti ne sono riuscito a ispirare».
«L’ho scritto in un articolo e va contestualizzato. Raccontavo di essere sempre stato convinto di non avere un gran talento fisico e dunque che l’unico modo per emergere fosse lavorare più degli altri».
Almeno il 15% in più, quantifica anche questo.
«Non era un modo di dire, era un calcolo matematico legato ai risultati. Quando ho vinto il mio primo titolo italiano facevo ancora il liceo e avevo una vita non dedicata del tutto allo sport. Poi ho capito che dovevo andare oltre. Negli allenamenti inserivo 10 chilometri di nuoto: secchi, ogni mercoledì mattina alle 8. Ci mettevo una vita a farli e arrivavo alla fine che non sapevo nemmeno dov’ero. Dico che ho rovinato tanti atleti perché ho alzato l’asticella e quando, con i risultati, sono diventato un riferimento, all’improvviso gli allenatori volevano imporre ai propri ragazzi la stessa routine».
Visto oggi, è troppo?
«Sono tecniche, ognuno deve fare ciò che sente. Quei dieci chilometri forse non servivano a molto eppure di testa mi facevano stare bene. Per studiare il mio battito usavo la carta millimetrata: un puntino ogni 5 secondi per allenamenti di un’ora e mezza. Mandavo i grafici via fax al coach. Sembra incredibile adesso eppure sono cose che non ti pesano se hai grandi progetti».
Nel 2000, però, è sparito prima delle Olimpiadi. Cosa era successo?
«Il 24 dicembre 1999 è mancato mio padre Maurizio, a marzo era prevista la nascita di Angelica, la mia prima figlia. Io che avevo visto sempre lo sport come un divertimento e non come lavoro ho iniziato a pensare di fermarmi, a ripetermi di mettere la testa a posto».
Insomma a cercare il posto fisso.
«Più o meno. Ero nella Guardia di Finanza, avrei potuto tentare un concorso. Ho fatto il liceo scientifico e studi in economia e commercio. Volevo dare alla mia famiglia più certezze».
Come è andata?
«Ad aiutarmi sono stati la mia famiglia, la Finanza, il team. Mi hanno dato il tempo per pensare. Le Olimpiadi a Sydney erano a ottobre, ho ripreso a marzo. Perciò, purtroppo, non c’ero quando mia figlia Angelica è nata: ero a Siviglia ad allenarmi».
È vero che ha avuto un mental coach?
«Da quarantenne mi sono trovato a preparare il K4 di Pechino con atleti di generazioni diverse dalla mia: avevano 30 anni (Franco Benedini e Luca Piemonte), il più giovane 23 (Alberto Ricchetti). Bisognava amalgamare caratteri, ambizioni, problemi su una barca sola. Con la psicoterapia ci siamo riusciti. Chiaro: io ero il quarantenne con due bambini piccoli, loro dopo le gare volevano andare a ballare».
Rossi, non si sarà mica sentito vecchio?
«Io ero quello di esperienza».
Anche suo figlio Riccardo Jury ha fatto canoa.
«Dopo il quarto anno delle superiori all’estero ha preferito dedicarsi ad altro. Io non amavo che lo paragonassero di continuo a me: gli hanno tolto un po’ il divertimento».
Ha scelto Jury come secondo nome per suo figlio in onore di un amico, è vero?
«Jury Chechi. È un fratello. C’era alla gran fondo di Conegliano, tra i primi che ho cercato dopo aver capito che stavo male davvero. Ha chiamato lui mia moglie Lucia. Momenti brutti e momenti belli: ne abbiamo vissuti di ogni insieme».
Quando vi siete incrociati?
«Nel 1996. Non al Villaggio Olimpico, come si potrebbe pensare, bensì al concorso di Miss Italia: lui era il presidente della giuria e io un giurato».
Un aneddoto di Rossi e Chechi insieme.
«Ce ne sono tantissimi, mi faccia pensare…».
In sottofondo si sente la moglie di Rossi suggerire qualcosa.
«No, quella del carrello non la posso dire: sono una persona rispettabile».
Ridono entrambi. («Ah, quella del carrello non l’ha voluta raccontare? Allora ve la racconto io» – leggi l’intervista a Jury Chechi)
Quindi?
Nuovo consulto.
«Nel 2004, per Telethon, siamo stati alcuni giorni a New York e ci siamo divertiti parecchio, mentre a casa le rispettive compagne ci aspettavano. Il patto era ripartire per Corvara tutti insieme per le vacanze. Arrivati lì, Jury e io siamo di nuovo spariti: in giro fino alle quattro del mattino, non dormivamo niente. Quella penso sia stata una delle volte in cui sono andato più vicino al divorzio da mia moglie».
Lucia Micheli, canoista come lei. Vi siete conosciuti giovanissimi. Come avete gestito la sua fama di «Portabandiera più bello delle Olimpiadi»?
Ridono di nuovo.
«Non ero il più bello, era solo una bellezza che veniva dall’entusiasmo. Comunque nessun problema».
Lei ha fatto anche un po’ di televisione.
«Qualcosa. Ero lo sportivo, l’ospite. È andata bene perché nessuno si metteva in competizione».
Ma è vero che per la Lega italiana per la lotta ai tumori si è spogliato e si è cosparso di cioccolato?
«Era una vendita del cioccolato per beneficenza. Niente di scandaloso: foto solo di busto. Di scatto imbarazzante ne ho solo uno, quello della pagaia…».
Ci ricordi la faccenda della pagaia.
«Era un servizio per una rivista famosa, nel 2000. Entro in studio e vedo le foto di Massimiliano (Rosolino, ndr) solo con la cuffia. Esclamo: ma no! La “mia” Guardia di Finanza non approverebbe mai. Hanno mostrato altre immagini di sportivi: se lo fanno loro perché non tu? Ok. Poi però la foto vestito della sola pagaia è finita in copertina ed è successo un putiferio: la Gdf non era felice e nemmeno mia moglie. Diciamo che da allora sono molto, molto attento…».
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