QUESTIONI DI GIUSTIZIA DI SALVATORE VECA DOPO 33 ANNI

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SEBASTIANO MAFFETTONE

Quella che segue è la Prefazione a l’edizione rivista di Questioni di giustizia di Salvatore Veca, che sarà pubblicata nell’autunno del 2024 a trentatré dalla pubblicazione del libro. Mi è sembrato interessante presentarla ai lettori di questo giornale perché offre un punto di vista sulla filosofia politica italiana e internazionale di allora.

Questioni di giustizia, nella versione che qui potete leggere, fu pubblicato per la prima volta trentatré anni fa, nel 1991. E’ lo stesso anno in cui uscì il mio libro Valori comuni, anch’esso ripresentato come questo nella collana di Società libera. Erano anni in cui la teoria della giustizia di Rawls aveva avuto il suo pieno impatto, e si può dire che eravamo nel bel mezzo di quella che poi sarebbe stata chiamata “l’era di Rawls”. In questo ambito, il concetto centrale era proprio quello di giustizia, su cui entrambi i libri citati discettavano. Era nel complesso un periodo fortunato -perlomeno per noi che vivevamo in un angolo privilegiato di mondo-.

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Un angolo pacifico e ricco quanto basta, nel quale il problema di fondo era proprio quello della distribuzione, i cui criteri fondamentali erano disegnati dalle varie teorie della giustizia. I celebrati due principi di giustizia di Rawls ponevano due condizioni di natura morale a qualsiasi distribuzione volesse aspirare a sentirsi definire come giusta. Un primo criterio difendeva un principio di massima libertà per tutti nel rispetto dei diritti civili e politici fondamentali, mentre un secondo insisteva sulla tutela dei più svantaggiati dopo aver superato il filtro posto dall’equa eguaglianza di opportunità. In sostanza, questi principi cercavano un equilibrio originale tra le esigenze di libertà e quelle di eguaglianza, alla luce di una visione liberal, progressista, socialdemocratica. Visione questa che, con qualche eccezione come quella di Nozick, dominava culturalmente l’accademia americana che a sua volta fungeva da guida e ispirazione per molti di noi. Questa stessa visione era di certo meno popolare in Europa continentale e in Italia. Noi, e lo so perché in quegli anni vedevo e sentivo Salvatore molto spesso, credevamo che fosse qualcosa con cui necessariamente fare i conti. Dopotutto, e per la prima volta nella tormentata storia del nostro paese, vivevamo in condizioni di moderata agiatezza e di fortunata libertà. Come non condividere il desiderio di proteggere la libertà in questione e di fare godere tutti del benessere relativo che potevamo apprezzare? Il tutto in un mondo dove -in specie dopo il 1989- l’egemonia americana si faceva sentire, e -con tutti i difetti del caso- garantiva una pace sostanziale dalle nostre parti, interrotta da guerre periferiche che sì facevano morti e distruzione ma non intaccavano il modo di vita Occidentale.

Bene, la prima cosa da notare è che quel periodo è finito. L’età della giustizia, come la si potrebbe battezzare, non è più l’orizzonte entro cui collochiamo le nostre esistenze. L’egemonia americana è in declino, l’economia non tira più come una volta (specialmente in Italia), guerre limitrofe e a rischio di mondializzazione si combattono presso le frontiere dell’EU, il populismo svuota di significato la vita delle democrazie. Assistiamo così al tramonto del consenso socialdemocratico, liberal e progressista di cui parlavamo prima. Agli ideali morali di giustizia, si sostituiscono gradualmente crudo realismo, paura, sentimenti reazionari, ritorno del magico. Nell’età della giustizia prevaleva l’idea che la politica potesse essere normativamente orientata da grandi ideali di natura morale nell’ambito di una prospettiva cognitivista e razionalista.

Ora, invece, a molti sembra normale pensare che la ragione non conta in politica, dove le viscere giocano un ruolo assai importante dei cervelli. Emerge, in questa ottica, una visione scettica e sfiduciata della realtà, che trova in filosofia il suo parallelo nel tramonto della grandi narrazioni e nella morte del soggetto, che caratterizzano quello che si può chiamare clima postmoderno.

Tutto ciò potrebbe fare sembrare obsoleto, magari piacevolmente obsoleto, il messaggio che viene da un libro come Questioni di giustizia. Così non è però.

E non solo perché i grandi temi del dibattito sulla giustizia sono ancora la base teoretica dei migliori argomenti filosofico-politici, come si può constatare facilmente leggendo le pagine seguenti e apprezzando la maestria con cui Veca li tratta legandoli al meglio della tradizione occidentale, partendo da Platone e Aristotele, passando per Hobbes, Locke Rousseau, Hume per poi rivederli alla luce di un profondo expertise che riguarda Kant e Marx in particolare. Ma anche e soprattutto per un’altra vicenda che concerne questo libro, e della cui rilevanza non mi ero per la verità del tutto reso conto al momento della precedente lettura quando il libro era uscito per la prima volta.

E’ questa una vicenda, che c’entra con la genesi fattuale del libro, ma che al tempo stesso la trascende. In effetti, questa versione di Questioni di giustizia ne segue una precedente del 1985, pubblicata presso l’’editore Pratiche. Fondamentale, però, è la differenza tra le due edizioni, dato che questa aggiunge alla precedente una ricca e profonda Introduzione, degli Addenda che includono alcuni scritti già pubblicati nell’Enciclopedia Einaudi e una sorta di lista dei problemi di filosofia politica. Il tutto giustifica ampiamente il sottotitolo (poco notato) del libro, che recita “Corso di Filosofia politica”. Ed è proprio questa parte nuova rispetto alla prima edizione che non si limita a catturare, sia pure nella misura virtuosa che sottolineavo, lo spirito nel tempo e le questioni di giustizia di cui nel titolo, ma presenta un pregevolissimo affresco che presenta un quadro affascinante e convincente della filosofia politica vista da un autore che ne è stato protagonista.

L’interesse speciale, che riveste, questa parte dipende (perlomeno) da due ragioni. Una di metodo legata alla personalità scientifica dell’autore e una di sostanza connessa alle tematiche trattate, e naturalmente dal rapporto che viene a crearsi tra metodo e sostanza. Dal primo punto di vista, Veca è stato un filosofo con una straordinaria competenza mista tra filosofia analitica e filosofia continentale, sarebbe a dire che dominava -come pochi, personalmente non ho mai conosciuto nessuno migliore di lui in materia- entrambe le versioni principali del pensiero del ventesimo secolo, sia il pensiero tedesco e francese sia quello in lingua inglese se vogliamo dirlo in altro modo. Era a casa se si parlava di Quine e Rawls, e pure se si discuteva Husserl e Derrida. A questa competenza incrociata, a mio avviso rara e preziosa, accoppiava – e per ragioni non del tutto differenti – quella tra filosofia classica e contemporanea. Come non lo mettevano in difficoltà gli autori più difficili del contemporaneo, così Aristotele e Kant (per citarne solo due) erano autori suoi. Questa cosa avveniva di certo per merito di una formazione accademica rigorosa e una curiosità culturale innata. Ma, credo, anche per un’altra ragione. Salvatore aveva una filosofia sua e un pensiero critico che gli apparteneva, così che tutti i filosofi erano presenti nella sua visione come personaggi all’interno di una trama più vasta. Questa considerazione di carattere affatto generale – e qui entro nel secondo punto, passando dal metodo e dalla personalità alla sostanza – si applica alla perfezione al testo di Questioni di giustizia, e in particolare proprio a quelle parti aggiunte nella seconda edizione qui riprodotta. Sarebbe a dire nella Introduzione e negli Addenda al testo originario del 1985, e cioè agli aspetti più strettamente inerenti a quel “corso di filosofia politica” evocato nel sottotitolo.

Prendiamo alcune parti dell’Introduzione a Questioni di giustizia, per meglio comprendere il senso di quel compendio di filosofia politica che ci viene offerto. L’Introduzione principia con la distinzione tra versioni del mondo basate su fatti e valori, per poi passare a discutere di descrizioni e di vocabolari con cui affrontiamo la complessità del reale. Siamo oramai adusi a pensare che ci siano modi alternativi di costruire la realtà e che le descrizioni non sono mai puramente tali, nel senso che è impossibile separare del tutto le due prospettive. Hilary Putnam e Amartya Sen sono tornati spesso su questo aspetto, e nessuno di noi pensa che si possa accostare la realtà in maniera puramente innocente. Ma Veca aggiunge a questo tipo di considerazione, oramai abbastanza condiviso, la distinzione tra il punto di vista dell’agente e quello dello spettatore, cosa che gli permette di distinguere in maniera originale filosofie politiche come l’utilitarismo che privilegiano il punto di vista dello spettatore da altre, come quella di Rawls, che tengono maggiormente conto del punto di vista dell’agente. Il tutto poi è complicato dall’ulteriore distinzione tra punto di vista soggettivo e oggettivo. Ne segue che il pluralismo non è una conseguenza imprevista e imprevedibile, ma discende dagli oneri del giudizio che questo tipo di complessità fondante impone. Purtuttavia, a sua volta, il pluralismo non è soltanto un fatto del tutto comprensibile alla luce delle premesse epistemiche e morali, ma anche un valore essenziale di una società aperta. Cosa che, a sua volta, non può non rimbalzare sul significato metaetico della giustificazione. Per una filosofia politica razionalista – come lo è quella di Veca – il concetto di giustificazione non può non risultare centrale. Con un problema evidente, tuttavia. Per giustificazione, intendiamo un argomento che da alcune premesse ci conduce ad alcune conclusioni, su cui potenzialmente dovrebbe esserci accordo universale. Ma la complessità delle prospettive indagate e il liberale elogio del pluralismo (Da John Stuart Mill e Isaiah Berlin) implica che in politica possono coesistere diversi argomenti di giustificazione, magari tra loro incompatibili ma non privi di senso al cospetto della complessità del reale. Un bel puzzle questo, non c’è dubbio. Ma hic Rhodus hic salta!, e una filosofia politica che si ponga come utopia realistica non può fare a meno di affrontare dilemmi siffatti. Se ne deduce che gli ordinamenti valoriali in etica e in politica non possono che essere incompleti, e per conseguenza che non ci sono argomenti da ko capaci di ridurre al silenzio chi la pensa in maniera diversa in filosofia politica. Una conclusione del genere permette poi di ricostruire in maniera creativa la grande divisione tra teorie della giustizia. Ci sono quelle basate sulla convergenza, come l’utilitarismo di Bentham, dove tutti i soggetti dovrebbero accettare la stessa metrica del valore e quindi fare propria la stessa scelta etico-politica e quelle basate sull’insorgenza, in cui -come voleva Hume- le norme nascono dal formarsi progressivo dovuto al consenso su strategie di interesse comune. Nell’ambito di questa ultima distinzione, le teoria della giustizia alla Rawls occupano un posto intermedio. Sui diritti fondamentali vale la convergenza, mentre sulla distribuzione vige un regime di varietà.

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Ma questi sono solo spunti di riflessione, maniere diverse per rendersi conto della complessità argomentativa e dell’interesse attuale di questo libro.

Per apprezzarli fino in fondo, però, non posso fare altro che suggerire di leggerlo con l’attenzione che merita. In tempi di crisi e cambiamento come quello che viviamo, la filosofia politica e i modelli che ci presenta non sono un lusso intellettuale. Costituiscono piuttosto una necessità culturale per chiunque voglia dare senso al suo essere nel mondo sociale in maniera pregnante. E, in questa prospettiva, davvero non saprei indicare migliore compagno di viaggio della prosa, assieme sofisticata e semplice, di Salvatore Veca.

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