Quando il minore è vittima di tortura. Brevi note a Cass n. 37171/2024 e n. 39722/2024
di Claudia Terracina
Sommario: 1. Premessa -2. Due bruttissime storie – 3. La tortura privata – 4. Una norma di difficile applicazione? – 5. Non solo bullismo.
1. Premessa
Cinque anni dopo la pubblicazione, su Giustizia Insieme, della nota di Calogero Ferrara alla sentenza Sez. 5, n. 47079 8 luglio 2019, che contiene elementi fondamentali per la ricostruzione ermeneutica del reato di tortura commessa da privati, può avere un senso interessarsi nuovamente di questo delitto, contemplato dall’art. 613-bis cod. pen. e introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. L’occasione è fornita dalla pubblicazione di due sentenze della Corte di Cassazione, la n. 37171/2024 della prima Sezione e la n. 39722/2024 della quinta Sezione, in cui la Corte, partendo da vicende coinvolgenti minori che – come nella totalità dei casi – non è esagerato definire agghiaccianti, coglie l’occasione per soffermarsi sulla struttura e gli elementi essenziali del delitto e, in particolare, sull’oggetto giuridico tutelato.
In questi anni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha provato a delineare maggiormente i confini della fattispecie, la cui maggiore criticità è rappresentata dalla mancanza di una sua specifica connotazione, rendendo problematica la distinzione rispetto ad altre fattispecie limitrofe, in particolare il maltrattamento, con cui condivide – malgrado la diversa collocazione nel codice – una serie di elementi, potenziale fonte di incertezze interpretative. Queste due sentenze, proseguendo un cammino già percorso in sede di legittimità, contribuiscono a delineare lo scopo della norma, indicandone espressamente la funzione di tutela della dignità umana nel suo complesso, a fronte di una condotta specifica di reificazione della persona, crudelmente deprivata dagli affetti e bisogni essenziali e ridotta a strumento di crudeltà e vendetta.
2. Due bruttissime storie
Il dramma sotteso alla pronuncia della prima Sezione, che contiene anche osservazioni sul tema della premeditazione c.d. “condizionata”, nasce da un femminicidio: un uomo, sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento nei confronti della ex compagna che lo aveva denunciato per maltrattamenti, dopo che la donna si era rivolta alle forze dell’ordine per denunciare la violazione della misura e una aggressione ai suoi danni, la seguiva mentre si era rifugiata in un bar e, in presenza delle figlie minori della donna, la colpiva con un coltello riducendola in fin di vita. La portava via in macchina, agonizzante, insieme alle sue due bambine (l’età non è nota, ma si tratta di minori infraquattordicenni, di cui una affetta da grave disabilità) che erano costrette, dopo aver assistito all’aggressione, anche ad assistere alla agonia della madre. Caricava poi la donna sanguinante in auto con le due bambine, e, dopo essersi recato da un amico dove lasciava la donna morire, profittando dell’intervento di un medico, fuggiva con le due bambine (di cui una in preda a crisi convulsive) che restavano in auto con lui. L’uomo teneva le bambine “impietrite dalla paura” nella sua auto tutta la notte e, una volta rintracciato dalle Forze dell’ordine, trascinava le minori in una fuga pericolosa, fino alla cattura. Le bambine, di cui una veniva ridotta in fin di vita per le crisi distoniche e la desaturazione di ossigeno, riportavano lesioni e gravissimi traumi psichici.
Nei due giudizi di merito, l’uomo veniva condannato per i reati di omicidio aggravato, sequestro di persona ai danni della donna e delle minori, resistenza aggravata, porto di arma e per il reato di tortura di cui all’art. 613-bis, commi primo e quarto, cod. pen.
Sollecitata dal ricorso dell’imputato, che lamentava, sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 613-bis cod. pen., l’insussistenza dei presupposti del delitto di tortura in danno delle minori, in quanto “in alcun modo le stesse sono state oggetto della condotta” dell’imputato, “eventualmente rivolta nei soli confronti della donna”, La Corte rigettava il ricorso ricostruendo la fattispecie e i suoi elementi e confrontandola con le condotte accertate nel merito. La ricostruzione è dogmatica e – per quanto si possa dire di una fattispecie così recente – classica, proprio in quanto richiama nozioni giuridiche consolidate in anni di giurisprudenza sui reati contro la persona.
“Quanto alla struttura dell’incriminazione, il delitto di cui all’art. 613-bis, comma primo, cod. pen. è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta -ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’articolo l della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della
libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale, ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l’integrazione della fattispecie la commissione di un’unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all’evento”.
La sentenza della quinta Sezione ha per oggetto il maltrattamento, travalicato nella tortura, del figlio di due anni ad opera di un uomo. Il bambino, da sempre tenuto in condizioni di degrado e sottoposto con la madre ad atti di maltrattamento, nei suoi ultimi due giorni di vita era stato oggetto di una escalation di violenza gratuita che lo aveva condotto alla morte dopo acute sofferenze. Il bambino era stato sottoposto a bruciature, morsicature, con lacerazioni corporee, colpi al capo e al torace che lo avevano condotto alla morte. La sentenza della Corte di appello era stata annullata dalla Corte (Sez.1, n. 27321 del 13/01/2023) che aveva rilevato come alla condotta maltrattante ai danni del bambino fosse seguita una “escalation” che aveva condotto ad una fase caratterizzata da lesività estrema. La sentenza del giudice del rinvio, confermata dalla Corte, aveva invece valorizzato il passaggio ad un grado estremo di brutale violenza con trasformazione del piccolo in oggetto di sfogo di istinti bestiali.
3. La tortura privata
Il delitto contestato nei due casi è la tortura “tra privati” o “orizzontale”, in cui non viene in considerazione il rapporto con l’autorità pubblica. In entrambi, tuttavia, vi è il riferimento al rapporto di affidamento che il minore ha con l’adulto che lo prende in carico, nel caso del piccolo ucciso, il padre.
La sentenza della prima Sezione descrive espressamente il reato come “comune”. La norma prevede d’altra parte al primo comma dell’art. 613-bis cod. pen. la condotta di “chiunque” tenga la condotta descritta, mentre al secondo comma è comminata una pena più grave quando il reato sia commesso da una pubblica autorità “con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
Il secondo comma contempla invece certamente un reato proprio, sia nel soggetto sia nelle modalità dell’azione.
Dai lavori preparatori della legge 110/2017 si evince la costruzione della tortura “pubblica” come fattispecie circostanziale. Si legge infatti che nella norma “la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio costituisce, anziché un elemento costitutivo, una fattispecie aggravata del delitto di tortura”. Già dai primi commenti al testo, anche nel corso dell’iter parlamentare di approvazione, emerge sul punto un certo dissenso.
Anche le prime pronunce di legittimità adottano questa linea interpretativa, talune in obiter dicta, come ad esempio Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, altre investite della correttezza dell’operazione di bilanciamento operata dal giudice di merito, come Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023.
Si discosta da questa soluzione ermeneutica invece la sentenza in commento che, sulla scorta di un precedente della terza Sezione, si pronuncia espressamente a favore della autonomia delle due fattispecie contenute nella norma, ritenendo la tortura ad opera della pubblica autorità un reato autonomo e non una forma circostanziata di quella “comune”. Afferma infatti che l’obbligo di incriminazione specifico che discende dalle fonti convenzionali “sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”.
D’altra parte, a favore della natura autonoma del delitto di tortura “pubblica” si è espressa autorevolmente anche la Corte costituzionale – sulla scorta della sentenza della terza Sezione n. 32380/21 nella sentenza n. 192 del 2023 sul “caso Regeni”, forse ponendo un punto fermo alla questione.
La previsione di un caso di tortura “comune” oltre a quella “pubblica” di cui al secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. ha sin da subito dato adito a contrasti.
Com’è noto, infatti, il delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. è stato introdotto per ottemperare ad obblighi internazionali, primo tra tutti quello derivante dalla Convenzione ONU contro la tortura, approvata nel 1984 e ratificata dall’Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 489 (UNCAT). Dall’art. 4 della Convenzione discende l’obbligo di specifica criminalizzazione della tortura, almeno nella sua “soglia minima”, costituita da condotte caratterizzate dalla specifica finalità alternativa di: 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici.
La nozione di tortura contenuta nella Convenzione, al primo comma dell’art.1, è focalizzata sul rapporto di autorità e sugli abusi da parte dei pubblici poteri, ma non esclude (art. 1, comma 2) l’estensione del divieto in forma più ampia.
Il legislatore, anche se con un certo ritardo, stigmatizzato in più occasioni, esercitando una facoltà, ma anche rispondendo agli obblighi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU e da obblighi derivanti da altre convenzioni internazionali ha costruito una norma con due fattispecie, la tortura “tra privati o “orizzontale”, reato sostanzialmente comune (anche se contempla il caso in cui la vittima sia legata al reo da un rapporto giuridico di affidamento qualificato), contemplato al primo comma, e quella “pubblica”, reato proprio del pubblico ufficiale.
Il legislatore ha quindi scelto di estendere la nozione anche a condotte commesse da privati, particolarmente odiose in quanto attuative di una sorta di
“signoria” sulla persona dell’altro, costruendo una fattispecie di reato comune e collocandolo tra i delitti contro la libertà. Certamente questa soluzione ha dei vantaggi, tra cui quello di ricomprendere le condotte di soggetti la cui qualifica pubblicistica è dubbia – come ad esempio, nel caso citato dalla dottrina, di una persona sequestrata e torturata da agenti degli apparati di sicurezza di Stati stranieri, ovvero “organizzati” in modo da costituire una informale struttura detentiva. È il caso contemplato dalla sentenza della prima Sezione n.26999/22 relativa alla organizzazione e gestione di un centro illegale di prigionia ubicato in una ex base militare della città libica di Zawya, ove centinaia di migranti, che tentavano di raggiungere le coste italiane, erano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche torture, per ottenere il pagamento dai loro familiari di somme di denaro quale prezzo per la liberazione e/o la loro partenza per l’Italia e il parallelo caso della base di prigionia libica di Zuhaira in cui operava una associazione delinquere diretta da tal “Muhammad il libico”, oggetto della sentenza della Sezione quinta n. 20726/22.
La scelta legislativa ha destato qualche perplessità. Anche parte della dottrina ha rilevato come la mancata focalizzazione sull’azione del potere pubblico rischiasse di “annacquare” la portata garantista della norma e la finalità di controllo contro gli abusi dell’autorità. Altri – guardando soprattutto alla nozione di tortura contenuta nell’art. 3 della CEDU e alla copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha stigmatizzato nei diversi casi la mancanza di adeguati strumenti normativi ovvero di protezione nei confronti di vittime oggetto di tortura commessa in ambito familiare o comunque al di fuori del rapporto con l’autorità – hanno invece guardato con favore alla scelta del legislatore di ampliare l’ambito della punibilità.
A distanza di oltre sette anni dalla entrata in vigore della norma può osservarsi che, da un lato, gli arresti giurisprudenziali su casi di tortura commessi da autorità pubbliche (nella quasi totalità in ambito penitenziario) e, dall’altro i recenti tentativi di abrogazione, mostrano la vitalità della fattispecie della tortura “pubblica” nel nostro ordinamento.
4. Una norma di difficile applicazione?
Le maggiori criticità rilevate dalla dottrina, al momento dell’introduzione della fattispecie, si incentrano piuttosto nella strutturazione della norma, definita “farraginosa” e di difficile interpretazione in quanto, da un lato, contempla condotte diverse e connotate da diversa gravità, dall’altro – soprattutto nella descrizione dell’evento tipico – contiene indicazioni confuse sul piano della tassatività.
È il caso, sul piano della condotta, del “trattamento inumano e degradante” e, su quello dell’evento, del “verificabile” trauma psichico ed ancora, sul piano dei presupposti, della “minorata difesa” (usata altrove solo come aggravante).
Sotto il primo profilo, al di là della scelta del legislatore di richiedere, cumulativamente e non alternativamente che il trattamento sia tanto inumano quanto degradante, qualche indicazione può desumersi dalla giurisprudenza su reati “limitrofi” a quello in esame. Troviamo una utile descrizione in una recentissima sentenza della Sez. 1 in tema di immigrazione clandestina, definendo «inumano il trattamento che abbia inflitto alla persona trasportata una sofferenza fisica o psicologica, prolungata e di particolare intensità, capace di provocare nella vittima sentimenti di paura e angoscia», e «degradante il trattamento tale da cagionare una lesione particolarmente grave della dignità umana, umiliando o svilendo l’individuo e suscitando sentimenti di inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica».
Il profilo della “verificabilità” del trauma psichico è affrontato dalla sentenza Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, che, nel fare riferimento alla “oggettiva verificabilità” del trauma, lo riporta al tema del libero accertamento giudiziale, forse richiedendo sul punto una attenzione motivazionale. Precisa che il trauma non deve necessariamente «tradursi in una sindrome duratura da “trauma psichico strutturato” (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l’oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l’accertamento peritale, né l’inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente e dalle concrete modalità di quest’ultima».
La sentenza della quinta Sezione n. 47079/19 si è occupata anche della “minorata difesa”, ritenendola sussistente «ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell’agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali».
Le ancora poche, interessanti, sentenze di legittimità, tra cui quella in commento, sono tutte tese nello sforzo di dare indicazioni pratiche all’interprete, soprattutto nei rapporti con fattispecie limitrofe violative della integrità personale e della libertà morale e sessuale, cercando di ovviare ai deficit di precisione. D’altra parte, come è accaduto anni fa dopo l’introduzione della fattispecie di “atti persecutori” la struttura composita della norma, anche se in quel caso descritti in modo molto specifico, si è rivelata in concreto in realtà un vantaggio, consentendo di configurare la fattispecie in ipotesi di diversa gravità e connotazione. Nel tempo questo potrebbe accadere anche per questa norma, grazie al ricorso a concetti giuridici già consolidati, frutto di elaborazione in relazione ad altre figure delittuose, concentrando lo sforzo interpretativo sull’evento tipico la cui descrizione, come accennato, resta ancora non del tutto delineato.
Secondo la giurisprudenza della Sezione quinta, che si occupa dei reati limitativi della libertà, il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019).
Per l’integrazione del reato nella sua forma abituale si ritiene, sulla scorta della giurisprudenza formatasi sulla nozione di “condotte reiterate” nel reato di atti persecutori, che, perché si abbiano “più condotte”, ne siano sufficienti due.
La sentenza Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019 ha peraltro precisato che «ai fini dell’integrazione del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico». In motivazione la Corte ha condiviso il ragionamento del giudice di merito che, confrontando la locuzione usata nel reato di atti persecutori “condotte reiterate” con quella di “più condotte” usata nella norma, conclude che le stesse possano essere tenute nel medesimo contesto. D’altra parte, “la lettura della disposizione che ne fa la parte impugnante determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte; ciò implicherebbe -aggiunge il Collegio- l’adozione di una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU laddove ha ricondotto quei fatti alla nozione di tortura di cui all’art. 3 della CEDU, dando così luogo ad una lettura non convenzionalmente orientata della disposizione di nuovo conio”.
La medesima sentenza, sollecitata sul punto dal ricorso, si sofferma sulla nozione di “crudeltà” traendola dagli insegnamenti di Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio. Crudele è la condotta che “eccede rispetto alla normalità causale”, cioè che costituisce un quid pluris rispetto all’attività necessaria ai fini della consumazione del reato, rendendo la condotta stessa particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un’azione efferata. Gratuità e superfluità che nasce dalla particolare “forma di soddisfazione” dell’agente legata alla capacità di generare le sofferenze altrui.
Le “acute sofferenze fisiche” provocate alla vittima non coincidono con la nozione di lesioni, come emerge dal dato testuale, che colloca la causazione di lesioni come circostanza aggravante (o come reato aggravato dall’evento, secondo quanto affermato dalla Sez. 5 nella sentenza 1243/2024) e dunque contemplano patimenti, come la fame, la sete, la sofferenza fisica derivante da deprivazione del sonno, la sottoposizione a fatiche, che non realizzano malattia ma, appunto, sofferenza.
Quanto ai rapporti con altri reati, il problema che ha maggiormente impegnato la Corte di cassazione (e che tuttora non pare risolto) riguarda il rapporto con il sequestro di persona. La seconda Sezione, nella sentenza 1729/2021 (dep. 2022) ha ritenuto il delitto di sequestro di persona assorbito in quello di tortura, “nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall’agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura”. Fondandosi sulla medesima nozione di specialità, quella tra fattispecie astratte indicata dalla sentenza a Sezioni Unite La Marca n. 41588/2017, la quinta Sezione ha affermato che le due fattispecie sono sempre in concorso materiale tra loro in quanto “La comparazione degli elementi costitutivi dei due reati dimostra l’assenza di un rapporto di continenza posto che il sequestro a scopo di estorsione non contiene
tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, né rispetto a quest’ultimo uno o più requisiti caratteristici in funzione specializzante. Affinché si consumi il sequestro a scopo di estorsione non è necessario che si consumi anche il delitto di tortura”.
È stato escluso il rapporto di continenza con la violenza sessuale di gruppo da Sez. 3, Sentenza n. 25617 del 16/03/2022: “Il delitto di tortura non è assorbito in quello, più grave, di violenza sessuale di gruppo, ostandovi sia la diversità del bene giuridico tutelato (la libertà fisica e psichica nell’uno e la libertà sessuale nell’altro), sia la non sovrapponibilità strutturale delle condotte incriminate, posto che la violenza perpetrata nei confronti di persona costretta a subire o a compiere atti sessuali acquista autonoma rilevanza nel caso in cui, oltre ad essere funzionale a tale coartazione, si estrinsechi, prima, durante o dopo il compimento dell’atto sessuale, in un’ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.” Nel caso di specie la ragazza era stata degradata e fatta oggetto di sevizie da una coppia “diabolica”. La sentenza, peraltro, in motivazione, si sofferma anche sull’assorbimento del reato di sequestro di persona, escludendolo in quanto l’attività di limitazione della libertà personale si sarebbe protratta per un tempo ulteriore ed antecedente rispetto a quello in cui l’attività vessatoria ha avuto corso.
Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Il primo, tuttavia, non assorbe il secondo, oltre che per la diversità di oggetto giuridico, anche per la mancanza di un rapporto di continenza tra le due fattispecie astratte: per l’integrazione dell’articolo 572 cod. pen. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell’articolo 613-bis cod. pen. dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. In questo senso, si è espressa Sez. 3, n. 32380 del 25/5/2021, in una sentenza che ha ad oggetto la condotta di un uomo violento e gravemente maltrattante che, per un periodo, ha tenuto chiusa la moglie nella loro villetta togliendole le chiavi del cancello ed impedendole di uscire. Più di recente, Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024, in un caso di maltrattamento, con morte, di un minore ha precisato che i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un familiare possono acquistare autonoma rilevanza come atti di tortura nel caso in cui la condotta si estrinsechi in un’ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, trasformandola in una res alla mercé dell’agente, su cui accanirsi a piacimento, spersonalizzandola e disumanizzandola.
Più sentenze si confrontano con l’assorbimento del reato di lesioni nell’ipotesi “aggravata” del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Sez. 5, n. 50208 dell’11/10/2019 e Sez. 6, n. 47672 del 04/10/2023 che, affrontando la nozione di “acute sofferenze fisiche”, ritengono che non richieda la produzione di lesioni, in quanto in tal caso soccorre l’aggravante del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Colloca espressamente l’ipotesi del quarto comma tra i “delitti aggravati dall’evento” Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023. All’esito di un complesso ragionamento sulla fattispecie, conclude che «In tema di reati contro la persona, è configurabile il delitto di tortura, aggravato ai sensi dell’art. 613-bis, comma quarto, cod. pen. nel solo caso in cui le lesioni personali conseguite alla condotta incriminata non siano state volute dall’agente, realizzandosi, in caso contrario, un concorso di reati.»
5. Non solo bullismo
Le due sentenze in commento, come altre in precedenza che si erano occupate di un caso di bullismo nei confronti di una persona il cui disagio psichico ed esistenziale lo aveva condotto ad auto- emarginazione, compiono un ulteriore sforzo ermeneutico, concentrandosi sulla individuazione del “nucleo” di offesa della fattispecie. Entrambe la collocano nella reificazione della vittima e dunque nella negazione profonda della dignità umana dell’individuo, costretto o limitato dalla sua posizione di debolezza e trasformato dall’agente in un “mezzo” per soddisfare i propri scopi di crudeltà o sopraffazione.
D’altra parte, anche la Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 192 del 2023 sul ”caso Regeni” ha ritenuto che lo “status” peculiare del reato universale di tortura è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana.
Così la pronuncia della prima Sezione sul punto: «Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.»
D’altra parte, anche nella condotta di tortura privata, è la signoria dell’agente sulla vittima che ne è in balia a caratterizzare in modo drammatico la condotta, oltre che l’intensità della violenza agita, signoria che disumanizza la vittima rendendola mero strumento per lo sfogo di istinti malvagi. Il caso oggetto della sentenza che rende particolarmente importante l’espressione del punto, è nel fatto – che costituisce occasione e fulcro del ricorso – che oggetto principale dell’accanimento dell’imputato non erano le bambine, ma la madre. Ciò nonostante – se si guarda ai motivi per i quali la condotta torturante è stata ritenuta dalla Suprema Corte effettivamente realizzata – nel caso in esame è valorizzata anche una sorta di spietata indifferenza nel far assistere le bambine alla agonia della madre nei confronti dei bisogni di cura e delle condizioni psichiche di esseri di per sé fragili e resi disperati dalla situazione, aprendo uno spiraglio sugli aspetti drammatici che la tortura può assumere quando ha per oggetto un bambino.
Parimenti, nella sentenza 39722/24 il passaggio da un “ordinario” maltrattamento fatto di violenza ed incuria ad un livello elevato di sevizie inferte al piccolo fino a condurlo alla morte segna la brutale disumanizzazione di cui è stato oggetto e dunque l’annientamento della sua essenza umana, oltre che della sua integrità fisica.
C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, in Giustizia insieme 14 febbraio 2020. Sul delitto di tortura si è scritto moltissimo. Tra i primi interventi: F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la camera dei deputati. Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la commissione giustizia della camera dei deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it; A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Dir. pen. cont., 22 luglio 2014; P. Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont. n. 10/2017. I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. Pen. Cont. n. 7-8/2017; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura (art. 613 bis c.p.), in Studium iuris, 2018. Vedi anche A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1° giugno 2019, pag. 811, A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1957-1960 e S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza penale web, 2017, 11.
[2] Sez. 1, n. 37171 del 29/04/2024 (dep. 09/10/2024). Presidente: V. Di Nicola, Estensore: F. Casa; Sez. 5, n. 39722 del 09/07/2024 (dep. 29/10/2024). Presidente, A. Guagliano, est. M.T. Belmonte.
[3] Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Sul punto si sofferma proprio la sentenza Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024 in commento. Vedi anche cfr. Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021, pubblicata in Cass. pen., 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. It., 2022, 194 con nota di Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata. Sulla sentenza 39722/24, vedi la nota di E. Consolo, Caso Hrustic: quando i maltrattamenti in famiglia divengono tortura, in Diritto & Giustizia, fasc.203, 2024, pag. 3 e di G. Faillaci La struttura e i presupposti del delitto di tortura (Nota a Corte di cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 2024, ud. 9 luglio 2024, n. 39722), Njus, 29 ottobre 2024.
Benché indichi il reato come “comune” dalla sentenza pare evincersi che non lo sia nel caso in cui l’agente profitti o agisca in costanza di una posizione giuridica di “affidamento”: “l’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento”
Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l’esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2.
Uno dei primi a segnalare il tema, F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., 12; A. Provera, Art. 613-bis, in Seminara, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario Breve al codice penale, Padova, 2017, 2115; Ritiene invece sia fattispecie circostanziale, E. Scaroina, Il delitto di tortura, cit., 266, criticando però la scelta del legislatore. Osservano molti autori (P. Lobba, in Punire la tortura in Italia, cit., p. 23, I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 160; F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5). che il comma quarto, che prevede aggravi di trattamento sanzionatorio qualora dai fatti di tortura scaturiscano delle lesioni personali di differente gravità, aumenti di pena calcolati prendendo come riferimento «le pene di cui ai commi precedenti» e pertanto, così facendo, considerando il secondo comma quale circostanza aggravante, si ricadrebbe nel paradosso di un aggravante operante, in maniera anomala, su di un’altra circostanza aggravante. Vedi anche S. Larizza La problematica configurazione del delitto di tortura: da delitto a circostanza aggravante? In Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dic. 2023, pag. 1377.
D’altra parte, la tecnica normativa che richiama per relationem la struttura di un reato aggravando la pena per uno specifico soggetto è quella cui ha fatto riferimento la Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n.4694 del 27/10/2011, Casani, per ritenere che «la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall’art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un’ipotesi autonoma di reato».
Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021.
L’Italia è stata condannata dalla Corte EDU per la mancanza di strumenti normativi nella causa Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, concernente i fatti verificatisi durante il G8 di Genova del
2001 nella scuola Diaz. In seguito, la sentenza – sui medesimi fatti – Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte EDU il 22 giugno 2017 nel vagliare il grado di tutela assicurato dal nostro ordinamento ai diritti delle vittime delle violenze e riconducendole alla nozione di tortura, ha stigmatizzato la mancanza, nel sistema penale italiano, di una fattispecie penale specifica.
Ritengono che la previsione di un reato di tortura “privata” sia in linea con gli obblighi internazionali derivanti da altre convenzioni, come quella F. Lattanzi La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Riv. dir. int., fasc. 1, 2018, P. Lobba, punire la tortura, cit. p. 25; A. Colella, La repressione, cit., p. 32.
Osserva la dottrina (cfr. A. Cisterna, Colmata una lacuna, ma molte nozioni restano poco precise, in Guida dir., 2017, n. 39, 18 ss.) come, nella parte in cui la persona offesa viene descritta come «persona affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» del reo, effettuando un ragionamento analogo rispetto alle omologhe fattispecie di cui all’art. 570 e 591 c.p., si ritiene configurabile un reato proprio, dal momento che l’impiego del termine «affidamento» comporta la protezione dell’incolumità fisio-psichica di colui che è sottoposto ad una qualunque forma di auctoritas o potestas altrui, determinando un status giuridicamente formalizzato.
P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27 cita il caso del sequestro di Abu Omar compiuto da agenti USA. Altre ipotesi citate dall’A. sono gruppi neofascisti, “ronde” organizzate da privati cittadini, associazioni criminali, gruppi terroristici, o organizzazioni private che pongono in essere violenze contro soggetti vulnerabili quali migranti o anziani loro affidati.
Sez. 1, Sentenza n. 26999 del 02/02/2022 Sez. 5, Sentenza n. 20726 del 28/03/2024.
In data 16 giugno 2017, alla vigilia dell’approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, indirizzava una nota con cui rappresentava talune preoccupazioni su alcuni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, in contrasto, a suo avviso, con la giurisprudenza della CEDU, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, introdotto dall’art. 1 della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, e con la Convenzione CAT. Tra le varie preoccupazioni manifestate, quella che il testo approvato dal Senato, in parte divergente dalla definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all’art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura con il rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, adotta una definizione ampia di tortura, che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, con possibile indebolimento della tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali. In particolare, le preoccupazioni manifestate dal Commissario si riferiscono al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie “più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà”; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l’articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva “trattamenti inumani o degradanti”); inoltre, quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. La nota del Commissario europeo sottolinea ancora che vi sono altri aspetti di. Inoltre, la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adotta una definizione ampia di tortura che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, sottolinea l’importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.
In conclusione, il Commissario rileva che le nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.
Vedi sul punto E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, p. 263- 266
V. dottrina citata a nota 10 e da P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27, in nota.
Molte pronunce, rese in sede di impugnazione cautelare, riguardano le condotte di funzionari e agenti della Polizia Penitenziaria in occasione delle agitazioni dei detenuti verificatesi nei penitenziari italiani nella primavera del 2020, definita ‘perquisizione straordinaria’, posta in essere dal personale di Polizia Penitenziaria per soffocare, tramite ‘violenti pestaggi’ la protesta inscenata dai detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta delle sentenze di legittimità nn. 4929, 4931, 8971, 8973 del 2021 (dep. 2022) e 17111 del 2021 (dep. 2022). La sentenza Sez. 5, n. 1243 del 2022 riguarda condotte di tortura di appartenenti alla Polizia penitenziaria all’interno della Casa circondariale di Ferrara è stata commentata in Cassazione Penale, fasc.6, 2024, da C. Rossi.
La sentenza Sez. 6, n. 47672 del 2023 riguarda il pestaggio brutale di detenuti nella caserma Levante di Piacenza. Di recente il reato di tortura è contestato nelle misure cautelari emesse dal GIP di Trapani per episodi di violenza organizzata ai danni dei detenuti.
Sono stati infatti presentati, e assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, due disegni di legge finalizzati a introdurre modifiche alla disciplina penalistica della tortura: il ddl n. 341 («Modifiche al codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura») e il ddl n. 661 («Modifiche agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura»).
Estremamente critico sulla struttura della norma è T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, inadempimento effettivamente persistente, in <discrimen.it>, 4 settembre 2018, 27-32. Vedi anche S. Amato e M. Passione, Il reato di tortura. Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto, in Diritto penale contemporaneo web. 15 gennaio 2019.
Si tratta di Sez.1, n. 30380 del 12/07/2024, che, in relazione alla aggravante del terzo comma dell’art. 12 Dlg. 286/98, trae la definizione dalla giurisprudenza della Corte EDU: « non è infrequente che la Corte – che in più occasioni ha definito il divieto (di trattamenti inumani o degradanti) in questione «un principio fondamentale delle società democratiche» (Corte Edu, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito) – utilizzi l’espressione «trattamento inumano e degradante» quasi si trattasse di un’endiadi, così facendo residuare zone d’ombra sulla linea di confine fra i trattamenti inumani e quelli degradanti; in altre occasioni, tuttavia, i giudici di 7 Strasburgo, chiamati a riempire di contenuti un precetto solennemente declamato ma non accuratamente definito, hanno chiarito che il trattamento inumano è quello che infligge una sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, di particolare intensità, capace di suscitare nella vittima sentimenti di paura e angoscia (Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito)Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito), premeditato e prolungato nel tempo (Corte Edu, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia), e che, invece, il trattamento degradante è quello che cagiona una lesione particolarmente grave della dignità umana (Corte Edu, 16 marzo 2010, Orsus c. Croazia), che umilia o svilisce l’individuo suscitando sentimenti di paura, angoscia o inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica (cfr. Corte Edu, 15 giugno 2010, Harutyunyan c. Armenia).»
[21] Si tratta della prima sentenza ad affrontare un caso di tortura attuata mediante atti di bullismo. Sulla pronuncia, v. la nota di C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, su questa Rivista e A. Merlo Primo intervento della Cassazione sul reato di tortura in un caso di bullismo, in Il Foro Italiano, 2020, fasc. 3, p.2. Per un altro caso di tortura di persona in condizioni di minorata difesa perché affetta di patologie psichiche, cfr. Sez. 5, n. 18075 del 23/03/2023, con nota di S. Rizzuto, V. Tigano, Tortura su una vittima in condizioni di minorata difesa e diniego delle circostanze attenuanti generiche, in Foro It. 12/23. Su questa ed altre sentenze, cfr. A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di tortura (art. 613-bis c.p.) in Sist. Pen. 16 gennaio 2020.
E. Scaroina, op. cit., 272 individua un’ulteriore fondamento dell’utilizzo del termine verificabile, ossia per rafforzare «l’esigenza che in sede di applicazione concreta siano valutati con estrema cautela gli effetti di natura psicologica prodotti dalla condotta: nella consapevolezza della difficoltà di prova dell’evento del reato e del rischio che l’onere del suo accertamento possa essere ritenuto assolto in virtù della mera verifica della sussistenza della condotta, si è voluto cioè richiamare l’interprete a un riscontro puntuale ed effettivo, al di là cioè di semplificazioni e presunzioni, anche di effetti sfuggenti quali le sofferenze da un lato e il trauma psichico dall’altro».
In sede di discussione parlamentare (cfr. Dossier servizio studi, Dipartimento giustizia della Camera, seduta del 23 giugno 2017) Già dal dibattito in prima lettura al Senato (Assemblea, 5 marzo 2014) emerge dalle parole del relatore (sen. D’Ascola) come si sia ritenuto di qualificare le sofferenze cagionate dalla tortura “come acute, traendo questo termine dalla medicina, da quella generale ma anche dalla medicina legale, che ha elaborato il concetto di un’acuta sofferenza come un concetto ristretto e determinabile. Quindi, il legislatore penale ha guardato anche ad altri rami del nostro sistema e, in particolare, alla scienza medica e ai contenuti e ai significati elaborati dalla scienza medica, come si conviene fare allorquando il legislatore apre una finestra su settori diversi dall’ordinamento giuridico in generale e dall’ordinamento giuridico in particolare e sostanzialmente richiama, nel contesto di quella scienza, le elaborazioni che sono proprie di quel determinato settore scientifico”. Tra le osservazioni presentate nel giugno 2017 dalla Commissione affari costituzionali vi era quella sulla opportunità di eliminare l’aggettivo “verificabile” in relazione al trauma psichico.
Sotto quest’ultimo profilo, sin dal 2016, Tullio Padovani criticava in modo sferzante l’inserimento dell’aggettivo ‘‘verificabile’’, ritenendolo “assurdo”, giacché ‘‘ogni requisito della fattispecie tipica deve essere, oltre che ‘‘verificabile’’, soprattutto ‘‘verificato’’: altrimenti, su quali basi si pronuncerebbe una sentenza di condanna?’’. T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, cit. pp. 31-32
La sentenza è pubblicata in Foronews 27 settembre 2021. Con nota di V. Romano Gravi episodi di violenza domestica: secondo la Cassazione è configurabile il reato di tortura in concorso con quello di violenza sessuale e maltrattamenti. (Nota a Corte di cassazione penale, sez. III, 31/09/2021, n. 32380)
Il tema è affrontato in una nota a sentenza di A. Merlo, Il reato di tortura in Italia: un personaggio in cerca di un autore (migliore). (Tortura – Lesioni personali), in Giur. It., 2024, fasc. 6, P. 1423 ss. Sulla natura di delitto aggravato dall’evento della fattispecie del quarto comma, cfr. A. Colella, op. cit., p. 9.
Oltre che la sentenza n. 47079/19, che ha affrontato un caso di bullismo in sede di ricorso cautelare, la quinta Sezione si è occupata del medesimo caso di bullismo in altre sentenze, afferenti diverse posizioni cautelari nel medesimo procedimento: la n. 4755 del 15/10/2019 e la 50208 dell’11/12/2019.
Immagine: David Wilkie, Guess my name, 1921, Chicago Art Institute.
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