Baby gang, Gianfranco Bettin: «Scuola e famiglia responsabili»

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Minacce, botte e violenza, furti e atti vandalici. Gli autori sono giovani, agiscono spesso in gruppo, quasi sempre sono maschi, ma non mancano gli episodi al femminile, come quello accaduto il 12 dicembre in pieno centro a Treviso, dove un ventenne è stato malmenato dal branco, ferito con un vetro di bottiglia e lasciato a terra in una pozza di sangue. Per poi morire in ospedale il 23 dicembre.

L’ennesimo fatto che ha scosso la tranquilla quotidianità di Treviso porta a chiedersi che cosa stia provocando la violenza giovanile nelle nostre città. Treviso, ma anche Padova e Mestre, e la provincia, vedi Conegliano.

Tutte stanno seguendo le orme delle grandi metropoli dove nelle piazze si mescolano i ragazzi invisibili delle periferie e i coetanei dei quartieri bene del centro.

All’interno del gruppo i singoli hanno nazionalità diverse ma parlano uno stesso linguaggio, quello della violenza. E basta uno sguardo sbagliato a provocare la scintilla e ad accendere la rabbia, mentre lo smartphone fa da spettatore.

Le chiamano baby gang anche se di bambino non hanno nulla. Il sociologo Gianfranco Bettin prova a dare lettura del presente: «Scuola e famiglia sono le prime responsabili».

Quali sono le radici della violenza giovanile?

«Siamo di fronte a una vera emergenza educativa che interseca la dimensione sociale e sta investendo ben due generazioni: una parte degli adolescenti trai i dodici e i diciassette anni e una parte dei giovani adulti poco più che ventenni. Ragazzi ma anche ragazze di provenienze differenti che sono cresciuti senza regole, completamente disancorati dal senso di responsabilità delle loro azioni, totalmente disabituati a rispettare gli altri, la cosa d’altri e la cosa di tutti, cioè gli spazi pubblici. Sono così perché nessuno gli ha mai spiegato che certe cose non si fanno e che, se si fanno, si pagano care».

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Cosa ha determinato una tale deriva?

«I fortissimi disinvestimenti alle principali agenzie educative che sono la scuola e la famiglia, in primis. Sono dieci anni che noi sociologi denunciamo questa regressione culturale e politica nella gestione delle strutture di recupero, sia quelle di reclusione come i riformatori e le carceri minorili, ma anche le strutture di accompagnamento, come le case-famiglia e le comunità. Nonostante gli allarmi, il disincentivo è stato globale e ora ne paghiamo gli effetti».

Cosa si è perso, in particolare?

«Oggi ci ritroviamo con ampie componenti delle nuove generazioni che non hanno mai avuto un rapporto con le agenzie educative e quindi i messaggi del rispetto e della responsabilità non sono stati trasmessi oppure lo si è fatto in maniera troppo debole».

Cosa contribuisce ad amplificare gli atteggiamenti aggressivi?

«Fungono da amplificatore i social, ma anche i mass media, e il passaparola che incoraggia atteggiamenti violenti secondo le regole stabilite dal clan. Il problema ormai riguarda molta parte d’Italia. Ciò avviene mentre si mescolano le diverse provenienze dei giovani. Questo vale in positivo ma anche in negativo, penso ad esempio alla gang che picchiava le persone omossessuali tra Padova e Venezia, composta da italiani, europei e nordafricani. C’entra anche il poli-sballo, ampiamente sottovalutato, dato dal consumo di alcolici e di droghe».

I giovani autori di questi reati potranno mai diventare “grandi” non in senso anagrafico bensì di maturazione personale?

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«Molti ce la fanno lo stesso, magari dopo aver combinato un mare di guai. Certo porteranno con loro i segni di un passato di delinquenza, una fedina penale non proprio linda».

Ha sentito quanto è stato detto dal presidente Zaia dopo gli ultimi episodi in Veneto?

«Ben venga quello che il presidente Zaia ha detto di recente, auspicando il pugno duro e la costruzione di nuove carceri, perché la severità è una componente fondamentale del processo educativo, ma non dobbiamo illuderci che sia la sola. Se non si fa tutto il resto, se non si risponde subito alle prime cavolate dei ragazzi, se si ignorano i segnali di allarme iniziali e non si interviene prima che si ripetano e si aggravino, ci troveremo come oggi a commentare i fatti del giorno prima».



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