Lunedì il Sudan ha ritirato la propria partecipazione al programma di classificazione dell’insicurezza alimentare (IPC), utilizzato a livello internazionale per valutare il grado di accesso di una popolazione a un’alimentazione adeguata. L’agenzia di stampa Reuters ha scritto che la decisione anticipa la pubblicazione di un nuovo documento con cui l’organizzazione documenta la diffusa carestia nel paese, dove da più di un anno e mezzo è in corso una guerra che ha causato, secondo le stime più recenti, più di 60mila morti e oltre 11 milioni di sfollati.
Il rapporto, che dovrebbe uscire martedì e che Reuters ha visto in anteprima, allarga le aree del paese in cui la popolazione ha ormai raggiunto il livello massimo di insicurezza alimentare previsto dalla scala dell’IPC (Integrated Food Security Phase Classification). La scala va da 1 (insicurezza alimentare minima o assente) a 5 (catastrofe/carestia). Il livello 5 si raggiunge quando almeno il 20 per cento della popolazione di un’area non ha accesso al cibo necessario alla sopravvivenza, è gravemente malnutrita e rischia la morte per fame. Anche una volta raggiunto il livello massimo di allerta, quindi, la situazione può ulteriormente peggiorare man mano che aumentano le persone in queste condizioni. La classifica dell’IPC è realizzata grazie alla raccolta sul campo di una serie di dati che vanno dalla disponibilità di cibo al suo costo, dall’impatto di eventi climatici o conflitti al livello di malnutrizione tra la popolazione e alla mortalità.
Secondo il ministro dell’agricoltura sudanese Abubakr al Bushra, che ha firmato la lettera con cui il paese sospende la sua partecipazione al programma di monitoraggio, il documento non è «affidabile» e «viola la sovranità e la dignità del Sudan». Nella lettera al Bushra ha scritto che l’IPC ha sottovalutato i risultati del settore agricolo dei mesi estivi; inoltre ha contestato l’attendibilità dei dati raccolti sull’area controllata dalle milizie che stanno combattendo contro l’esercito regolare, e che quindi sono nemiche del governo di cui al Bushra fa parte.
Non è la prima volta che il governo sudanese mette in dubbio i risultati delle analisi delle organizzazioni umanitarie, negando la gravità della situazione nel paese.
L’IPC è un un’iniziativa indipendente, supervisionata da 19 organizzazioni internazionali, tra cui anche l’Unione Europea e l’Usaid, l’agenzia governativa umanitaria statunitense. Per funzionare collabora con le ong locali, le agenzie delle Nazioni Unite ma anche con i governi, il cui contributo è fondamentale per la distribuzione degli aiuti e per migliorare le condizioni della popolazione nel lungo termine. Per questo la decisione del Sudan potrebbe privare la rete di uno strumento importante per stimare le condizioni della popolazione e pensare a risposte adeguate.
Da diverso tempo in Sudan la situazione è molto complicata.
Dopo il colpo di stato del 2021, in Sudan fu instaurata una dittatura militare basata su una debole alleanza tra due generali, responsabili della fine del breve periodo democratico del paese. Uno è Abdel Fattah al Burhan, a capo dell’esercito regolare del Sudan (SAF), l’altro è Hamdan Dagalo, il leader delle RSF (Rapid Support Forces), gruppo paramilitare che per le sue dimensioni è paragonabile a un esercito. In seguito al colpo di stato, Burham divenne capo del Consiglio Supremo, l’organo governativo della giunta militare, e quindi presidente del paese; Dagalo il vicepresidente.
A dicembre del 2022 i due generali cedettero temporaneamente alle pressioni internazionali e accettarono di riavviare un processo di transizione democratica. Nacquero però profonde divisioni su come far avvenire questa transizione e su come spartirsi il potere. La questione che creò maggiore attrito fu la decisione di Burhan di integrare i circa 100mila uomini delle RAF nell’esercito regolare sudanese (che conta circa 300mila soldati). Nell’aprile del 2023 Dagalo avviò la prima offensiva contro l’esercito regolare, anche con l’appoggio di altri paesi, dando inizio a una sanguinosa guerra civile in corso ancora oggi.
Nell’ultimo anno e mezzo la guerra in Sudan non ha attirato particolare attenzione mediatica, nonostante la gravissima crisi umanitaria in corso. Secondo le Nazioni Unite, si tratta di uno dei «peggiori disastri umanitari della storia recente». È una guerra molto fluida, in cui non esiste una vera e propria linea del fronte, per cui è difficile capire con precisione l’andamento del conflitto. Buona parte degli scontri si è concentrato nelle aree attorno alla capitale Khartum e nella zona del Darfur, cioè nelle aree controllate dalle RSF. Recentemente l’esercito regolare ha lanciato una grossa controffensiva proprio nell’area attorno alla capitale e ha ripreso il controllo di alcune postazioni ritenute importanti.
In questi mesi entrambi gli eserciti hanno bombardato i civili, depredato le loro case, incendiato decine di città, commesso omicidi su base etnica, stupri e vari crimini sessuali nei confronti di donne e ragazze. La guerra ha interrotto il funzionamento della rete elettrica e di internet, rendendo le comunicazioni difficili. Gli scontri e i checkpoint militari continuano a limitare gli spostamenti, sia della popolazione che delle persone che lavorano per le organizzazioni umanitarie, impendendo o rallentando la consegna degli aiuti.
Sta avendo anche grosse conseguenze sull’insicurezza alimentare, perché sta impedendo la distribuzione del cibo, riducendo la capacità produttiva e causando un aumento generale dei prezzi. Secondo l’ultimo rapporto dell’IPC, a giungo di quest’anno in tutto il Sudan 755mila persone erano entrate nel livello 5 della classificazione dell’IPC, su una popolazione di circa 48 milioni di persone. In totale nel mondo 1,9 milioni di persone si trova in questa condizione.
Una situazione particolarmente grave è stata documentata nel campo per sfollati di Zamzam, vicino alla città di al Fashir, la capitale del Darfur del nord, l’unica grande città della regione che non è sotto il controllo dell’RSF e che da maggio è sotto assedio del gruppo paramilitare. Qui hanno trovato rifugio almeno 500mila persone dall’inizio della guerra, ma secondo alcune stime potrebbero essere anche il doppio. Nel campo tendato si è passati a strutture permanenti, ci sono scuole, ospedali e abitazioni, ma le condizioni umanitarie continuano a essere molto gravi.
A febbraio di quest’anno l’organizzazione Medici Senza Frontiere aveva rilevato che nel campo di Zamzam il 25 per cento dei bambini era gravemente malnutrito (ben oltre la soglia che l’IPC usa per dichiarare l’ingresso nella fase 5, che è del 15 per cento). La cosa era già preoccupante, ma si prevedeva che si sarebbe aggravata perché a breve sarebbe iniziata la stagione secca, in cui la produzione di cibo si riduce ulteriormente. Tra marzo e aprile MSF ha rilevato che dei 47mila bambini visitati sui 66mila presenti nel campo, uno su tre era era malnutrito. Un’analisi delle immagini satellitari condotta da Reuters sul periodo giugno-novembre 2024 aveva rilevato un preoccupante ingrandimento delle aree adibite a cimitero attorno al campo, con almeno 1200 nuove sepolture.
Per la prima volta all’inizio di dicembre il campo è stato anche obiettivo di attacchi militari di cui sarebbero responsabili, secondo i dottori di Medici Senza Frontiere che operano sul posto, le milizie delle RSF. Le RSF hanno accusato l’esercito regolare di nascondere nel campo i combattenti di milizie alleate, e di usare i civili sfollati come scudi umani. Entrambe le fazioni sono accusate dalle organizzazioni umanitarie, e dai governi di alcuni paesi occidentali (Francia, Regno Unito e Stati Uniti, tra gli altri) di impedire sistematicamente la consegna degli aiuti umanitari e il contrasto alla carestia.
– Leggi anche: Capirci qualcosa degli scontri in Sudan, con Sara De Simone
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