Con la modifica, il legislatore supera quella che si potrebbe definire come la nozione comune, “climatica”, di stagionalità, associata, cioè, a un determinato periodo dell’anno, giungendo a introdurre un concetto di stagionalità definibile come “economica”, diretta a includere nel concetto di attività stagionale tutte quelle attività organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività in determinati periodi dell’anno nonché a esigenze tecnico-produttive o connesse a cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro.
A fronte di tale novità, preme evidenziare la peculiarità della fattispecie del lavoro stagionale, con specifico riferimento alle numerose facilitazioni previste rispetto alla disciplina dettata dal DLgs. 81/2015 per il lavoro a termine. In primo luogo, per gli impieghi stagionali non trova applicazione la durata massima complessiva del contratto a termine, pari a 24 mesi. Come specificato dal Ministero del Lavoro con l’interpello n. 15/2016, eventuali periodi di lavoro a carattere stagionale non concorrono, infatti, alla determinazione del limite massimo di durata.
Non si applica poi il limite numerico di contratti a termine stipulabili dai datori di lavoro, pari al 20% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’azienda al 1° gennaio dell’anno di assunzione o al momento dell’assunzione, in caso di attività iniziata nel corso dell’anno.
Inoltre, i contratti stagionali non devono neanche rispettare il c.d. stop and go, in forza del quale è necessario un intervallo di tempo – di 10 o 20 giorni a seconda che il contratto a termine appena cessato abbia avuto una durata superiore o inferiore a 6 mesi – tra un’assunzione con contratto di lavoro a termine e la riassunzione a tempo determinato del medesimo lavoratore.
In caso di assunzione di un lavoratore stagionale viene altresì meno l’obbligo di apporre le causali di cui all’art. 19 comma 1 lett. a) e b) del DLgs. 81/2015, in caso di proroghe o rinnovi. Ancora, il datore di lavoro che assume su base stagionale non è tenuto a versare il contributo addizionale pari all’1,40% della retribuzione imponibile.
A fronte di tali rilevanti deroghe rispetto alla disciplina del rapporto a termine, la giurisprudenza si è sempre mostrata restia nell’ampliare il concetto di stagionalità, propendendo tuttalpiù verso una definizione restrittiva della stessa. Infatti, la Suprema Corte, con la recente sentenza n. 16313 del 12 giugno scorso, ha affermato che, dall’esame della disciplina dettata in tema di contratti a termine, emerge che, nonostante le modifiche apportate nel corso degli anni alla disciplina del contratto a tempo determinato, il concetto di attività stagionale debba essere intesa in senso rigoroso, e quindi comprensivo delle sole situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate e organizzate per un espletamento temporaneo, limitato a una stagione appunto.
Ne deriva che, in forza di tale giurisprudenza, l’elenco delle attività stagionali di cui al DPR 1525/63 debba considerarsi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica, vincolo che si riflette anche sulla contrattazione collettiva di cui all’art. 5 comma 4-ter del DLgs. 368/2001, la quale deve, a sua volta, elencare in modo specifico le attività caratterizzate da stagionalità.
In tale contesto interviene il legislatore e lo fa in senso diametralmente opposto rispetto al percorso intrapreso dalla giurisprudenza, allargando cioè le maglie della nozione di stagionalità, svincolandola, in altri termini, dalla concezione “climatica” anzidetta, associandola invece ai picchi della produzione. Stante il notevole rilievo attribuito al ruolo della contrattazione collettiva, non resta che auspicarsi che le parti sociali siano poi capaci di individuare con puntualità le attività stagionali, cogliendo dunque l’opportunità loro affidata dal nuovo Ddl. Lavoro.
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