Progressista, ma non di sinistra

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Il Movimento 5 stelle, in corso d’opera di rifondazione con il volto unico garantito di Giuseppe Conte, da settimane muove ogni suo pronunciamento, appunto neo-identitario, da un’affermazione segnata, sicuramente agli occhi di alcuni, da un dato di perseverata ambiguità. “Siamo progressisti”, così implicitamente a ribadire un adagio onnicomprensivo. Ovvero che la contrapposizione destra-sinistra è da ritenere ormai desueta, incapace di restituire – il Novecento, “secolo breve”, da intuire dunque alle spalle, dissolto – l’evidente complessità delle cose politiche, forse perfino umane, condominiali. Alla cronista un po’ piccata che gli fa notare che potrebbe trattarsi di un espediente per “tenersi le mani libere”, Conte, il “presidente”, obietta, meglio, suggerisce, sia pure in filigrana, in dissolvenza incrociata, le parole prosaiche di Giorgio Gaber.

Segno che la matassa identitaria dovranno sbrogliarla altri, probabilmente in sede politologica. Si tratterà forse di aspettare i prossimi passi di un Movimento ormai emendato, epurato, se non addirittura decapitato, dalla trascorsa pervasività populista di Baal Grillo per intuire la reale sostanza politica e perfino culturale della formazione? Tutte domande “in surplace”. O forse l’intento appare chiaro fin da adesso.

Anche Roberto Fico, di fronte alla medesima domanda sostanziale, nicchia, si concede una pausa, sospende ogni possibile concessione al nodo tematico, donando semmai, così come il suo “principale” Conte, una testimonianza riferita al portato personale, non meno sospeso, trascorso, privato, esplicitamente già “di sinistra”. Quasi si stia riferendo a un’opzione adolescenziale, acqua passata. Il presente, la sua costruzione, e forse anche il domani, sono però ben altra cosa, assai più problematica, cui lavorare con ponderata lentezza, anche per lui: “sì, siamo progressisti”.

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Al momento, non resta che interrogarsi, carotandola, sulla sostanza di una simile dicitura in bocca agli ex grillini, un pronunciamento che tuttavia non sembra contenere nulla di ostativo rispetto all’esistente.

Per chi abbia ancora memoria microstorica dei contrassegni elettorali degli ultimi decenni, un tale nome – progressisti – escludendo la sua semantica originaria post-risorgimentale, va riferito alla coalizione, infine vittoriosa su Silvio Berlusconi, che aveva in Romano Prodi il proprio “frontman”, assimilabile alla cifra del cattolicesimo “dal volto umano”. Un cartello di alleanze accompagnato nelle piazze da un simbolo anodino su sfondo bianco, se non acromo, dove il concetto politico era accompagnato da due minimali tratti di “crayon” così da restituire il tricolore, segni sgranati, graficamente non meno anodini…

D’altronde, si sa, perché mai il Movimento 5 stelle dovrebbe adesso fare eccezione in sede di proposta ad ampio spettro? I margini di conquista del consenso, non dico ideologici, assai meno programmatici, appaiono sempre più sfilacciati, fantasmatici per chiunque: se non siamo in presenza dei leggendari “due forni” si tratterà per Conte e il suo soggetto di risultare convincente presso un elettorato sempre più fluido, ondivago, disallineato, e chissà che l’uomo, che nelle ultime settimane ha fatto ricorso a una cifra espressiva da aspirante piccolo tribuno tutt’altro che notarile, così come lo rammentiamo nel Lato A della sua evidenza pubblica e istituzionale, non immagini che i consensi destinati in prospettiva al proprio “partito” in via di costituzione possa risucchiarli, come fosse un’idrovora improvvisa, sia dai delusi di Giorgia Meloni, dunque da una identificazione solo occasionale con la destra post-fascista, sia dall’ area di parcheggio dell’astensione, la medesima che inizialmente potrebbe avere intravisto nel Lato A dei pentastellati una possibile soluzione, se non proprio apotropaica et palingenetica, comunque risolutiva rispetto all’insoddisfazione circa la cosa pubblica.

Di certo l’ambiguità non gli farà dono dei voti finora accasati nel Pd di Elly Schlein. Qui però si apre il discorso delle alleanze e, pensando ancora a Conte, delle ambizioni personali: c’è forse da immaginare che l’uomo, l’avvocato non meno in aspettativa, giù dominante nel Palazzo, voglia reificare sé stesso come possibile succedaneo di Romano Prodi? Immaginandosi nuovamente insediato dove al momento, a dispetto della conflittualità nel centrodestra e nella stessa destra-destra, non sembra affatto che Giorgia Meloni possa cedere ad altri il passo.

Non ricordo con esattezza, nella girandola dei telegiornali più recenti, chi sia esattamente il politico in piena attività (no, nessuno pensi a Walter Veltroni, che su quell’icona Usa ha costruito la propria attendibile, rassicurante verginità post comunista) alle cui spalle della scrivania mostra il ritratto di Bob Kennedy, fratello del presidente della “nuova frontiera”, nel caso però si sia trattato proprio di Giuseppe Conte avremmo la certezza che la storia si ripete, sia pure sotto altro nome e sigla.

Il dubbio che quest’ultimo stia modellando per sé la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, ignorando tuttavia di pagare il telepass al titolare originario, aldilà delle beghe legali in atto dentro il condominio pentastellato, se da una parte dà misura che la conflittualità con Grillo è ormai un caso chiuso, dall’altra dimostra che l’ambizione necessita né della destra né della sinistra, cercando semmai di far progredire unicamente sé stessa.



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