Il primo crack finanziario della storia moderna, vero e proprio antenato delle crisi americane del 1929 e del 2008, risale al XV secolo e vide coinvolta la Banca dei Medici di Firenze – che fallì nel 1494 – a causa di perdite finanziarie seguite ad investimenti sbagliati in affari rischiosi e di cattiva gestione. Da quel momento, iniziò un processo di rifacimento dell’architrave dei principi di un nuovo ordine finanziario nazionale.
Tra il 1892 e il 1893 il Regno d’Italia fu segnato dalla prima crisi bancaria nazionale, innescata dal fallimento della Banca Romana. La deflagrazione dello scandalo portò all’approvazione della Legge bancaria 10 agosto 1893 n. 449, attraverso la quale venne autorizzata la fusione di tre banche di emissione (Banca nazionale del regno, Banca toscana di credito e Banca nazionale toscana) in un unico istituto denominato Banca d’Italia, cui venne affidata la liquidazione della Banca Romana. Il lento processo di amalgama dei molteplici sistemi bancari preesistenti proseguì per tutta la belle époque e nel 1913, alla vigilia della Grande Guerra, in Italia si contavano 3.400 banche con 4.200 sportelli (con la media di uno sportello per ogni banca), circa sette volte quelle presenti oggi. Molti di questi istituti erano per lo più familiari e rivolti alle piccole–medie imprese, per la maggior parte di struttura cooperativa su iniziativa di benefattori. Poche erano quelle veramente di stampo capitalistico e frequenti erano i casi di soggetti che possedessero una banca e un’industria.
Tale sistema presentava già allora un grande limite: se l’industria entrava in crisi chiedeva un prestito alla banca dello stesso gruppo, così in caso di insolvenza della prima si rendeva alto il rischio di fallimento della seconda. La svolta si ebbe nel 1926 quando per la prima volta lo Stato regolamentò incisivamente l’attività bancaria. La Banca d’Italia, che fino a quella data non aveva riserva per stampare moneta, divenne l’unico istituto con diritto di conio e responsabile per il rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività bancaria. Inoltre, venne previsto l’obbligo, imposto alle banche, di porre a riserva i depositi risultanti superiori a venti volte il capitale sociale, così da costituire adeguati patrimoni di garanzia. Dopo la grande depressione (1929) nel 1936 con l’emanazione della legge bancaria su iniziativa degli economisti Alberto Beneduce e Donato Menichella, si impresse al sistema una svolta epocale. La riforma si fondò su tre punti cardine: 1. principio di separatezza tra banca e industria (vietando così le partecipazioni tra i due settori e scindendo l’esercizio del credito ordinario da quello industriale); 2. apertura alla nazionalizzazione degli Istituti in difficoltà; 3. creazione della vigilanza sull’operato delle banche. Il raccoglitore degli Istituti Pubblici fu l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, nato nel 1933 e attivo fino al 2002), e le banche nazionalizzate furono quelle che dopo il 1929 rischiarono il fallimento, in quanto legate a doppio filo con le grandi imprese in crisi. Nel 1980 venne concessa alle banche estere la possibilità di aprire filiali in Italia anche senza autorizzazione preventiva della Banca d’Italia. Dal 1990 con la legge Amato-Carli (legge 30 luglio 1990 n. 218) molte banche pubbliche vennero privatizzate e la trasformazione si completò con la nuova legge bancaria, decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385, con la quale si concepì l’attività creditizia come raccolta di risparmi ed erogazione di finanziamenti anche se non in via esclusiva. Per tale ragione venne affidata a ciascun istituto la scelta della forma organizzativa tra banca universale, gruppo bancario o attività specialistica.
Nel 1994 iniziarono i primi accorpamenti, le fusioni e le concentrazioni tra istituti di piccole entità che miravano a diventare player nazionali. Nel 1999, con l’avvio della Terza fase dell’Unione economica e monetaria nell’Unione Europea, la gestione della politica monetaria (facoltà di emissione di moneta e controllo dei tassi di interesse) venne attribuita in via esclusiva alla Banca Centrale Europea. A partire dal 2006, in risposta ai crescenti processi di fusione e acquisizione che vedevano protagoniste le principali istituzioni finanziarie Europee, anche le banche italiane avviarono il processo di concentrazione. L’attuale contesto (risiko bancario) vede competere due poli: i grandi complessi creditizi (Unicredit – Intesa Sanpaolo) e banche di medie dimensioni a vocazione nazionale o interregionale. A questi, si affianca un sistema di banche territoriali, di credito cooperativo a conduzione familiare e ad orizzonte locale (retaggio del passato preunitario e comunale medievale).
Proprio sul tema interesse nazionale, proprietà straniera, ruolo dello Stato è intervenuto sul FT l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina: «Sono gli azionisti, coloro che investono nelle aziende, a determinare il loro futuro», ha dichiarato Messina in un’intervista al Financial Times. «I governi non possono scegliere in base alle proprie preferenze, ma dovrebbero intervenire solo nei casi in cui è in gioco la stabilità finanziaria». Di tenore opposto le linee guida dei governi nazionali. Il governo tedesco non ha gradito fin dall’inizio che Unicredit acquisisse una partecipazione in Commerzbank, poiché non vede di buon occhio la possibilità che una delle più importanti banche tedesche venga comprata da una italiana. È una posizione del tutto politica, e peraltro in contrasto con l’obiettivo europeo di creare un vero mercato bancario comune.
Un caso politico simile, che si basa cioè su una certa componente di sovranismo, si è creato anche in Italia. A novembre Unicredit, nel bel mezzo dell’operazione Commerzbank, ha avviato le pratiche per un’Offerta Pubblica di Scambio su Banco BPM, con l’obiettivo di acquisirla del tutto. In seguito alla ventata di nuove concentrazioni a livello europeo, e soprattutto alle mosse di fondi di investimento stranieri e dei colossi francesi operanti in Italia (BNP Paribas e Credit Agricole), si è impressa una svolta ad operazioni pianificate ma non ancora eseguite. La risposta del Credit Agricole, diventato il primo azionista della popolare milanese, ha riaperto non tanto il risiko bancario, quanto il confronto sui termini del sistema, in quanto i francesi vogliono aumentare la loro presenza in Italia. L’operazione è stata criticata dal governo italiano tanto che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti disse che avrebbe valutato di bloccarla col golden power e il ministro Matteo Salvini la definì una mossa predatoria verso il sistema bancario italiano: «Unicredit ormai di italiano ha poco e niente, è una banca straniera». «Bpm è una grande banca. Io penso che, unendosi a Mps, possano dar vita al famoso terzo polo bancario riservato alle piccole e medie imprese», ha affermato il ministro delle Infrastrutture a un evento della Lega a un gazebo nel centro di Milano. «Ci sono i colossi, Intesa e Unicredit, che hanno altri obiettivi e altri clienti. Avere una banca che si dedica agli artigiani, agli imprenditori, ai commercianti, che abbia sportelli, che abbia a cuore non solo algoritmi; secondo me Bpm e Mps possono essere protagonisti di questo», ha aggiunto il leader leghista.
Gli Stati stanno avviando contro le banche politiche di mitigazione e contrasto a tutela dell’interesse nazionale, tanto che altri paesi europei, la cui legislazione è meno avanguardista di quella italiana, hanno deciso di adottare strumenti di golden power. Sullo sfondo di un mercato che non si autogoverna ma che necessita di eterodirezione pubblica, ove possibile, i confini geografici e la nazionalità degli investimenti in settori strategici tornano ad essere i pilastri di una politica economica ed industriale dalla vocazione universalizzante e moderna. L’interesse nazionale, in particolare quando occorrono enormi capitali per poterlo promuovere, passa attraverso la ristrutturazione e modernizzazione del sistema bancario-finanziario. Nell’epoca della conversazione come esercizio necessario sembrano mancare visione e silenzio.
Unicredit che prova a prendersi Banco BPM, Banco BPM in corsa per accaparrarsi Anima, Banca MPS in attesa di convolare a nozze con qualcuno per creare il terzo polo bancario. Eppure, è l’ex Salotto buono della finanza italiana (Mediobanca) il tassello davvero importante nei nuovi equilibri che si stanno formando nel settore bancario italiano. Da Piazzetta Cuccia silenzio tombale, nello stile della tradizione. Non è casuale che i maggiori azionisti di Mediobanca, gli imprenditori Caltagirone e la famiglia Delvecchio, stiano partecipando al gioco Unicredit-BPM. Tutte queste mosse, però, sembrano essere solo preparativi intermedi al vero gioco sponsorizzato dai poteri forti nazionali: la fusione Unicredit – Mediobanca. Sarebbe in corso la preparazione di un’operazione, già ipotizzata nel 2021, che prevede l’acquisizione di Mediobanca da parte di UniCredit tramite un’offerta pubblica di scambio con un premio ipotizzato del 20%, ovvero a circa 12 miliardi di euro ai prezzi attuali; ciò coinvolgerebbe anche Generali di cui Mediobanca è primo azionista. L’operazione potrebbe dare vita ad uno dei colossi bancario-assicurativi più grandi d’Europa, creando un fenomeno senz’altro ben visto dal Governo, il cui obiettivo è rafforzare la sovranità economico-finanziaria dell’Italia. Ciò porterebbe altri protagonisti finanziari in Italia a riflettere sulla sorte del proprio futuro e a progettare i nuovi passi da compiere sulla strada del consolidamento del sistema bancario-assicurativo-risparmio gestito costruendo un habitat positivo per l’industria e le famiglie.
Dall’altro lato, però, se dal capitalismo si fanno passi avanti nel costruire alleanze multidisciplinari e settoriali per rispondere alle sfide dell’economia moderna, manca, a livello di decisore politico, una regia (da scuola Mediobanca) capace di superare le insidie regolatorie e gli scogli legali per azzardare la genesi di un grande polo unico Unicredit-Mediobanca-Generali dalle prospettive europee (una sorta di GRANDE CENTRO DOROTEO), oppure suggerire la creazione di un asse multidimensionale Mediobanca-Generali-Mediolanum (bancario-assicurativo-gestione patrimoni) non ancora sperimentato in altri contesti europei, frutto dell’ingegnosa e creativa scuola di pensiero italica.
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