Dalla Bolognina alla Jihad, nell’ordinanza l’identikit della 22enne: “Tik Tok per fare proseliti”

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Bologna, 24 dicembre 2024 – Sono giovanissimi, i cinque indagati di Dda e Ros dei carabinieri per associazione con finalità di terrorismo, istigazione a delinquere e, in un caso, arruolamento con finalità di terrorismo internazionale. Quattro di loro sono stati arrestati stamattina, su disposizione del gip Andrea Salvatore Romito.

A capo del gruppo accusato di inneggiare al martirio e alla jihad sui social e di cercare proseliti da inviare su luoghi di battaglia e addestramento delle milizie jihadiste, per l’accusa guidata dai pm Morena Plazzi e Stefano Dambruoso c’era una ragazza.

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L’operazione antiterrorismo del Ros dei carabinieri e un frame del video

Una 22enne pakistana, ma cresciuta in città, in Bolognina.  Con lei è indagato anche il fratello minore, neppure ventenne, nato a Bologna. E’ lui l’accusato di arruolamento. Secondo quanto scrive il gip Romito, il 19enne “a seguito dell’indottrinamento da parte della sorella, veniva arruolato per compiere atti di violenza”. Difatti, nel giro di pochi mesi (circa sei) è passato “dall’aperto disinteresse verso le tematiche” jihadiste “esposte dalla sorella” a uno stretto “percorso di radicalizzazione, mutando completamente il proprio aspetto esteriore secondo le prescrizioni dell’islam radicale, indossando abiti tradizionali e facendosi crescere la barba”.

A riprova della “efficacia della operazione d’indottrinamento” della sua parente. Non solo: oltre all’attività di propaganda sui social e in particolare su Tik Tok, ‘core business’ di tutto il gruppo secondo gli inquirenti, il ragazzo leggeva pure il Corano per strada e in vie o piazze particolarmente frequentate di Bologna, per “raggiungere il maggior numero di persone incitandole verso l’islam radicale”. 

Oltre ai due bolognesi, ora difesi dagli avvocati Simone Romano e Christian Zanasi, sono finiti in carcere anche l’altra “leader” del gruppo, una 18enne di origini algerine, ma nata in Italia e residente in provincia di Perugia. Sarebbe stata lei, con la 22enne, a tenere inizialmente le redini dei profili Instagram, Twitter e Tik Tok mirati al proselitismo per la causa jihadista e a innescare sentimenti di odio nei confronti degli “infedeli”, che bisognava  “annientare” oppure “rovinare la loro vita”. La 18enne si preoccupava poi per il fratellino, bambino, che temeva sarebbe stato “rovinato” dalle scuole occidentali e che dunque lei doveva condurre lungo la strada della cultura islamica più integralista. 

Una “missione”, quella della propaganda, che stando agli account analizzati dagli inquirenti impegnava molto soprattutto le due ragazze indagate, che gestivano numerosi profili social su diverse piattaforme pubblicando quotidianamente video, foto e contenuti in diverse lingue (italiano, arabo e inglese), così da poter raggiungere il maggior numero di persone possibili, sia perché impegnate a trovare nuovi aderenti alla loro causa senza farsi scoprire dalle forze dell’ordine. Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, le giovani inviavano consigli su come “proteggersi” da eventuali indagini, per esempio cancellando i video o i files più compromettenti dai propri account, alterando le immagini religiose per renderle irriconoscibili agli algoritmi informatici o navigando in incognito. 

Gli altri indagati sono poi il più “anziano”, un ristoratore 27enne turco residente in provincia di Udine già monitorato dalle forze dell’ordine, e il 20enne marocchino residente a Milano e attualmente all’estero, secondo gli inquirenti proprio perché arruolato nelle milizie jihadiste nel Corno d’Africa.

Per tutti e cinque è stato disposto il carcere: gli interrogatori di garanzia dei due bolognesi saranno venerdì. Per il gip esiste il rischio “ineludibile” di allontanamento dal territorio nazionale del gruppo, dato che quasi tutti i componenti avrebbero fatto visite all’estero anche di lungo periodo o preso contatti per raggiungere territori in cui avviene l’addestramento delle milizie armate del terrorismo islamico; nonché quello di reiterazione del reato, essendo la loro adesione al credo jihadista “frutto di un attento e meditato percorso, una scelta totalizzante da perseguire anche a costo di alterare in modo incisivo la propria vita”. Scelta di cui il martirio era un “logico punto d’approdo, strumento di riparazione dei torti e gloria per il proprio popolo”.  

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