La retorica terzomondista sui curdi ignora i terroristi narcotrafficanti del Pkk

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Il terzomondismo, l’attesa messianica di una punizione dei troppi mali dell’Occidente innescata da popoli periferici immuni dal peccato, è una sindrome dura a morire. Dopo tante cocenti disillusioni, questa sindrome si incarna in una simpatia generale nei confronti del popolo curdo. Kobane e Rojava evocano così simpatia, recriminazioni, entusiasmi. Nulla di male. Nel frattempo, è bene però fare chiarezza sul tema. Quantomeno per far sì che l’ennesima disillusione non sia cocente. E per fare chiarezza è bene basarsi sui fatti, il che obbliga a una conclusione: la questione curda è piena di chiaroscuri e di zone d’ombra.

Il primo dato oscuro che balza agli occhi, ipocritamente oscurato dai tanti media simpatizzanti per Kobane e il Rojava, è che questi costituiscono il santuario in cui trova riparo, protezione e complicità, una forza terrorista che conduce una dissennata guerriglia del terrore, e che per di più è narcotrafficante: il Pkk, il partito curdo della Turchia, responsabile di una dissennata attività terroristica dal 1984 a oggi, che ha fatto non meno di quarantamila vittime, turche e curde. Di queste, qualche centinaio di vittime sono cadute dopo la tregua d’armi con la Turchia, fatta fallire unilateralmente dal Pkk-Pyd nel 2015.

Il punto su cui si gioca l’equivoco è che questo Pkk, definito organizzazione terroristica dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, è tutt’uno con il Pyd, il partito curdo siriano egemone a Kobane e nel Rojava, tanto amato e osannato dai terzomondisti occidentali. Per un trentennio, infatti, i curdi siriani sono stati affiliati al Pkk, dal quale si sono resi autonomi per ragioni di opportunità politica soltanto nel 2011. Il Pkk fino al 1999 peraltro non era solo ospitato in Siria, ma era anche aiutato sotto tutti i profili dal sanguinario dittatore Hafez al Assad, in dichiarata funzione di disturbo della Turchia, tanto che a Damasco ne ospitava formalmente la dirigenza.

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Tra le innumerevoli prove di questa piena commistione tra il Pkk turco e il Pyd siriano e la loro leadership che di fatto (ma non nominalmente) è una sola, c’è la biografia personale del massimo dirigente militare curdo siriano, oggi del Pyd e capo indiscusso delle Sdf, le Forze Democratiche Siriane: Mazloum Abdi Sahin. Conosciuto come Mazloum Kobane, città dove è nato nel 1967, è stato per anni affiliato al Pkk, poi è stato uno dei bracci destri di Abdullah Öcalan, leader terrorista del Pkk, ha compiuto e organizzato attentati in Turchia per assumere infine il comando delle Ypg, le milizie armate dei curdi di Siria.

Ma a carico del Pkk-Pyd, a smentita delle immotivate simpatie che riscuote, non vi è solo l’attività terroristica. La direzione centrale dei servizi antidroga di Europol, istituzione dell’Unione europea, in un report del 2022 ha attestato che l’organizzazione curda è anche responsabile di narcotraffico per un ammontare di due miliardi di dollari l’anno, col quale finanzia la sua organizzazione e ovviamente gli attentati.

Non nutriamo alcuna simpatia nei confronti di Tayyp Erdogan, che consideriamo una iattura per la Turchia e il Medio Oriente. Men che meno intendiamo sottacere gli eccessi e la violazione dei diritti umani compiuti più volte dalla Turchia nelle operazioni di contrasto al terrorismo curdo, ma, ribadito questo, non possiamo non ammettere che il leader turco ha ragione nel condurre una guerra contro il Pkk-Pyd, anche sul territorio siriano. Guerra di fatto difensiva contro un’offensiva terroristica curda. Esistevano infatti ed esistono gli spazi per una trattativa che garantisca autonomia alla minoranza curda. Ma in realtà il Pkk-Pyd rifiuta un dialogo democratico e pratica invece una strategia vagamente maoista e rivoluzionaria che non di rado sconfina in eccessi cambogiani.

Il 21 marzo 2013, dopo una lunga serie di contatti e trattative in carcere con Hakan Fidan, allora capo dei Servizi turchi, Abdullah Öcalan leader del Pkk, aveva proclamato la fine della lotta armata e l’inizio di una serrata trattativa col governo turco per garantire l’autonomia delle regioni curde. Era questo l’unico sbocco possibile e praticabile per il movimento curdo: inserirsi con le proprie legittime richieste di autonomia in una dinamica democratica; percorso accettato anche da Tayyp Erdogan. 

Ma in realtà questa coraggiosa svolta strategica di Öcalan, prigioniero nel carcere dell’isola di Imrali dal 1999, non era affatto condivisa dalla dirigenza effettiva del Pkk. Questa leadership curdo-turca, impregnata di una ideologia simile a quella del cambogiano Pol Pot, prese così a pretesto un attentato a Suruç, in cui erano stati uccisi trentaquattro manifestanti curdi il 20 luglio 2015, per dichiarare unilateralmente la fine della tregua e la ripresa della lotta armata.

Una scelta pretestuosa, perché con tutta evidenza l’attentato era stato organizzato dall’Isis e addossarne la responsabilità politica al governo turco era arbitrario. Da allora, l’attività terroristica del Pkk-Pyd ha prodotto centinaia di nuove vittime, in attacchi a caserme delle forze armate o di sicurezza turche, in ritorsioni e in veri e propri attentati come quello del 24 ottobre 2024 contro un istituto aerospaziale di Ankara che ha fatto cinque morti.

Infine, ma non per ultimo, i curdi iracheni del Pdk, il cui leader è Masud Barzani, sono frontalmente nemici del Pkk-Pyd, al punto che in più incontri personali diretti e indiretti con Tayyp Erdogan, l’ultimo nell’aprile del 2024, questo leader curdo, ex presidente del Kurdistan iracheno, si è coordinato con l’esercito turco per operazioni miliari contro insediamenti-santuari dei curdi turco-siriani nei monti Qandil, in territorio iracheno. 

Questa posizione di Masud Barzani di alleanza con la Turchia di Tayyp Erdogan, e di contrasto frontale col Pkk-Pyd, va considerata risolutiva e definitiva. Barzani, che ha guidato vittoriosamente per anni i curdi iracheni contro la dittatura di Saddam Hussein, conquistando con le armi l’autonomia del Kurdistan, da decenni è alleato di Israele ed è uno dei leader democratici più saggi e affidabili del Medio Oriente.

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Un quadro complesso, intricato, al quale va aggiunta una notazione per quanto riguarda la democrazia interna su base consiliare del Rojava, elemento che suscita tanta ammirazione in Occidente. L’appunto è semplice ma definitivo: nel Rojava vige il più rigido monopartitismo, tutte le cariche elettive sono esclusivo appannaggio di esponenti del Pyd, non di un altro partito o organizzazione. Una caratteristica dittatoriale che è stata autorevolmente certificata nel 2016 dal centro studi Chatam House, il più che attendibile Royal Institute of International Affairs. Tanto basta per liquidare nel dimenticatoio questo tanto celebrato esperimento di democrazia diretta.

Dopo avere elencato i fatti che depongono per il lato più che oscuro dell’esperienza dei curdi del Pyd-Pkk, esaminiamo il lato chiaro, positivo, di questa esperienza, che non intendiamo negare, innanzitutto per quanto concerne il rispetto della posizione della donna. La tradizione curda plurisecolare di larga autonomia delle donne in ambito familiare, pur in un contesto che continua a essere sostanzialmente patriarcale, è infatti rispettata dai curdi siriani.

Fa molta impressione in Occidente, ma è sicuramente un forte elemento di emancipazione, l’esperienza della Unità di Protezione delle Donne, Ypj, forte a seconda dei momenti di sette-diecimila soldatesse che hanno direttamente partecipato e con grande valore sia alla difesa di Kobane sia alle battaglie contro l’Isis e in difesa degli Yazidi, anche in Iraq. Ma a favore del Pyd gioca soprattutto il forte impegno militare che ha dispiegato con successo dopo il 2015 contro le milizie del Califfato islamico, ben di più e oltre la difesa eroica di Kobane assediata dalle milizie jihadiste.

Alla nascita sanguinosa del Califfato Islamico in Siria e in Iraq, la determinazione di Barack Obama di non impegnare militari americani nella guerra per contrastarlo è cozzata con una ovvia necessità bellica: i massicci bombardamenti aerei della coalizione militare messa in piedi dagli Stati Uniti non erano sufficienti, era indispensabile una pesante azione con le truppe di terra. 

Ecco allora che gli Stati Uniti si sono appoggiati, con cinismo e mancanza di scrupoli, proprio alle milizie del Pyd-Pkk, come perno e baricentro di un’alleanza militare con milizie arabe e turcomanne per costituire le Syrian Defence Forces che hanno combattuto sul terreno con efficacia contro le milizie dell’Isis nell’est siriano, supportate da un contingente di novecento-duemila militari americani in funzione di addestratori e consiglieri.

Questo, naturalmente, in piena, spregiudicata e totale conflittualità americana nei confronti degli interessi vitali dell’alleata Turchia, membro della Nato. Le successive amministrazioni Trump e Biden hanno mantenuto questa ambigua strategia di alleanza con i curdi siriani, contro i pur legittimi interessi della Turchia.

I curdi siriani, così come le Syrian Defense Forces, si sono ben guardati negli anni dal contrastare la feroce dittatura di Bashar al Assad, che non hanno mai sparato un colpo contro il suo esercito e hanno sin dal 2011, all’inizio della guerra civile siriana, strutturato una coesistenza pacifica col regime che di fatto ha riconosciuto, per opportunismo, la autonomia politica del Rojava.

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In questo quadro complesso precipita la caduta improvvisa del regime dittatoriale di Bashar al Assad e la conquista del governo centrale siriano da parte dell’alleanza tra le milizie islamiste di Tharir al Sham e quelle laiche della Free Syrian Army, le prime influenzate da Ankara, le seconde direttamente comandate da Ankara. Ambedue organizzazioni intenzionate a ripristinare un’unica autorità politica e militare su tutta la Siria, e quindi contrarie alla persistenza di milizie armate curde nel Rogiava e nel nord est del paese. Husayn al Sharaa, già noto come al Jolani, il leader vittorioso ha già annunciato che tutte le milizie si devono sciogliere e che i miliziani devono essere assorbiti da un unico esercito nazionale. 

Da parte sua Hakan Fidan, l’ex capo dei Servizi segreti turchi che nel 2013 aveva concordato la sospensione della lotta armata con Abdullah Öcalan, oggi ministro degli Esteri, ha lanciato un ultimatum al Pyd-Pkk e alla Syrian Defense Army: «O le forze curde si dissolveranno da sole o saranno eliminate». Queste le condizioni necessarie e sufficienti per impedire l’attacco dell’esercito turco poste dalla Turchia: l’intera catena di comando delle Unità di protezione del popolo, Ypg, l’organizzazione militare del Pyd-Pkk, anche se di cittadinanza siriana, deve lasciare immediatamente il Paese; i quadri intermedi se deporranno le armi potranno continuare la loro vita in Siria.

Il Pyd-Pkk e le Forze Democratiche Siriane non hanno nessuna intenzione di cedere le armi e di disarmare le proprie milizie e già vi sono stati scontri armati con la Free Syrian Army, peraltro sostenuta dai militari statunitensi di stanza in Siria. Si vedrà se vi sarà spazio per una soluzione concordata tra il Rojava curdo e il nuovo governo di Damasco o se si riaccenderà un conflitto armato dentro la Siria.

La Turchia di Tayyp Erdogan, il trionfante vincitore effettivo della partita siriana e il padrino esplicito del governo post Assad, ha tutte le più bellicose intenzioni di dare un colpo definitivo al santuario dei terroristi del Pkk costituito dal Rojava.

A meno di una nuova, ma poco probabile, mediazione americana, si preannuncia una fase di enormi tensioni tra il governo di Damasco e i curdi siriani che dovranno contemporaneamente fare fronte a certe e massicce pressioni militari turche dalla frontiera. A meno che, scenario possibile, ma con poche probabilità di concretizzazione, non si replichi un tentativo da parte del governo di Ankara e di Tayyp Erdogan, di concordare con Abdullah Öcalan una nuova tregua delle iniziative militari. Tregua accettata, questo è ancora più difficile e improbabile dalla leadership effettiva del Pkk-Pyd.

Timidi segnali di una disponibilità del governo turco in questa direzione sono venuti negli ultimi tempi, soprattutto dopo che Devlet Bahçeli, segretario del partito ultranazionalista Mhp, noto per la sua intransigenza nei confronti dei curdi, ha voluto stringere platealmente la mano in parlamento agli esponenti curdi del partito Dem, successore del disciolto partito curdo Hdp di Selhattin Demirtas, ingiustamente incarcerato da anni per indimostrate e inesistenti complicità col Pkk. Successivamente, lo stesso ultranazionalista Devlet Bahçeli ha pubblicamente invitato sempre in parlamento Abdullah Öcalan a dichiarare la fine della lotta armata. Sono segnali di una rinata disponibilità, tutta da verificare, di parte turca a riaprire una trattativa politica e non militare con un movimento armato curdo-turco che però, a eccezione del leader prigioniero Abdullah Öcalan, si è sempre dimostrato settario, ciecamente terrorista e avventurista.

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