Dalla Silicon Valley alla Valtellina, il giving back per le startup italiane di Fabrizio Capobianco 

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Figura di spicco della comunità italiana a San Francisco, Fabrizio Capobianco torna nella sua valle per aiutare le startup a fare il grande salto. «Ora in qualunque posto tu sia, possibilmente bello come qui sul lago di Como, puoi fare aziende di respiro mondiale. Ma per farlo qualcuno deve comunque credere in te e sostenerti». La nuova storia per la rubrica “Italiani di Frontiera”

«Il futuro è su Internet!», si sentivano ripetere all’inizio degli anni Novanta manager di grandi aziende da quell’ingegnere poco più che ventenne che guardavano con sospetto, diffidando del suo entusiasmo. «Può essere che lei abbia ragione ma io non posso mettermi in società con uno che ha vent’anni», gli disse a brutto muso il grande capo di una organizzazione del turismo.

Trent’anni dopo, alle spalle un’ammirevole avventura imprenditoriale che l’ha visto per due decenni figura di spicco della comunità italiana di Silicon Valley, curando nella Bay Area finanza e marketing alla guida di aziende che hanno continuato a mantenere gli sviluppatori in Italia (Funambol, software open source per telefonini, TOK.tv piattaforma di condivisione contenuti in tempo reale di eventi sportivi), Fabrizio Capobianco da mentore e investitore (è stato fra i primi a scommettere su Mashape diventata poi Kong, uno dei pochissimi unicorni di matrice italiana a Silicon Valley) è tornato nella sua Valtellina.

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Fabrizio Capobianco alla presentazione a Milano di Liquid Factory

Perché? Per dare consistenza a quello che è sempre stato il suo sogno: mettere la sua esperienza unica al servizio del talento imprenditoriale italiano. Con un progetto lanciato in settembre, Liquid Factory, di cui è partner assieme ad altri esperti professionisti di Banca Popolare di Sondrio (StartupItalia ne ha parlato in questo articolo), ha selezionato e sta finanziando startup in grado di fare il grande salto, preparandole a presentarsi con un’idea potenzialmente vincente sullo scenario globale proprio nella Silicon Valley.

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Fabrizio Capobianco con alcuni dei partner di Liquid Factory

Intervista a Fabrizio Capobianco

Com’era Silicon Valley trent’anni fa quando è iniziata la tua avventura?  
Era il 1995. Immagina un ragazzo di 24 anni, ingegnere, che facendo il PhD, per la prima volta in Silicon Valley ha l’occasione di fare il suo ingresso nella Mecca: lavorare alla HP. Entro nel building 4 e i primi due uffici a destra erano quelli di Bill Hewlett e di David Packard.

Ma è vero che la sorpresa è stata scoprire che gli italiani non fossero così indietro, rispetto a quella “Mecca hi tech”?
Io vengo da un profilo di umiltà vera, sono arrivato per imparare e infatti poi lì ho imparato tantissimo. Però dal punto di vista tecnico, quando sono arrivato, io avevo lavorato su Java, allora un linguaggio di programmazione che poi è diventato molto comune, nato nel laboratorio della Sun a Menlo Park, dove oggi c’è Meta. Avevo lavorato tanto sull’open source, con un vicino di banco autore di un libro su Linux e device drivers, Alessandro Rubini, una leggenda dell’open source mondiale. Insomma io a Pavia usavo la versione alfa di Java, mentre in HP non lo conoscevano. E usavano strumenti che a me sembravano un po’ antichi. Quindi sono stato io a spiegargli quello che secondo me era il futuro dell’informatica e della programmazione a oggetti. Internet aveva dunque aperto a un ragazzo valtellinese, che aveva studiato e lavorato in un laboratorio a Pavia, la conoscenza mondiale. È così che ho capito che partivamo uguali. La prima sensazione insomma è stata: ok, ci siamo, posso competere, a livello tecnico, non è che loro abbiano delle conoscenze in più, perché ormai le conoscenze che hanno loro ce le posso avere anche io.

Passo indietro: avevi cominciato che eri ancora un ragazzino.
Sì, quando in Valtellina ho iniziato a usare lo ZX Spectrum, una leggenda di computer da casa. Volevo fare un programma per la Serie A, avevo bisogno di prendere la graduatoria e fare l’ordine della classifica. Ma come prendere una roba e ordinarla, è la prima cosa che ti insegna l’ingegneria, io invece negli anni Ottanta ero ancora al liceo classico. Quindi ho scritto una lettera a una rivista di informatica italiana, che poi mi ha risposto spiegandomi l’algoritmo del ‘quicksort’ (algoritmo di ordinamento ricorso, ndr), che poi quando sono arrivato all’università ho capito come si faceva. Prima non potevo avere accesso a quella conoscenza, diventata disponibile  pochi anni dopo con Internet. Oggi, la nuova versione di OpenAI un minuto dopo ce l’hai in Italia.

L’Università a Pavia è stata per te una straordinaria scuola di innovazione. Ma non solo, pure fucina e incrocio di talenti diversi
Sì, io ero al Collegio Borromeo, secondo me uno dei posti migliori d’Italia, perché mi sono trovato a fianco gente con competenze diverse, chi studiava filosofia, sociologia, economia. Una settantina di persone selezionate verso l’alto, perché è difficile entrare. È lì che ho conosciuto Alberto Onetti che studiando economia integrava quel che a me mancava ed è stato poi partner in tanti progetti comuni, compreso ora in Liquid Factory.

Poi però oltreoceano hai anche capito quante cose non sapevi
Ci sono due parti: tecnologia e business. Dal punto di vista tecnico, ho capito che la nostra ingegneria era forte. Nel laboratorio del professor Virginio Cantoni di Pavia, che faceva visione artificiale e usabilità, eravamo avanti, ma avanti a livello mondiale, non solo a livello italiano ed europeo. Invece a livello di business, io ne sapevo poco. Avevo fatto partire ‘Internet Graffiti’ da qualche mese, lavorando da remoto sul computer di HP e lì ho capito di non sapere. Qualcosa che mi sono portato dietro, sapere di non sapere è una delle prime cose importanti per migliorare.

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Roberto Bonzio, sulla destra, con Fabrizio Capobianco a Menlo Park, durante uno degli Italiani di Frontiera Silicon Valley Tour

E lì hai scoperto il mondo delle startup…
Mi sono reso conto che non avevo la minima idea di cosa fossero un venture capital, una startup, di come fosse nata l’HP, anche se era il ’95. Tutti quelli che avevo intorno, in quel laboratorio, avevano in mente di fare una startup, e molti avevano anche qualche idea forte, chiara di cosa volevano fare, erano lì perché stavano preparandosi a fare la prossima startup. Ho realizzato che  venendo dall’ingegneria, non sapevo nulla di nulla di economia, di come si legge un bilancio, cosa fossero fundraising, marketing, sales. La prima volta che mi han chiesto di presentare un piano del nostro “go to market”, 10 giorni dopo che avevo raccolto cinque milioni, sono andato a ‘googlare’ cosa fosse questo ‘go-to-market’, perché non sapevo proprio di cosa parlare. “Ci stiamo lavorando”, avevo risposto. Poi camminando si impara tutto, di strategia aziendale, gestione personale, tutte le cose che ho cercato d’imparare dopo, il più possibile, di nuovo grazie a internet. In Italia non c’erano i video YouTube, compravo tutto quello che riuscivo a comprare, leggevo tutto quello che potevo leggere, su come funzionano i meccanismi di dilution, di un round, di venture capital, tutte cose che poi mi sono servite.

Pian piano sei arrivato a pensare che a Silicon Valley da italiani si poteva essere protagonisti
Nel business, secondo me, come italiani abbiamo un fardello dietro pesante di cultura negativa, che tu conosci bene. Ma a livello d’ingegneria invece prima ancora di Funambol, nei tre anni che aveva fatto a Tibco società Reuters a Palo Alto, lavorando con dei team che venivano da tutto il mondo, avevo capito che la nostra capacità di risolvere i problemi, le qualità dei team che avevo a Pavia, dove avevo fatto due aziende, era superiore a quella che avevo trovato in Silicon Valley. Per me è stato scioccante. Se il primo passaggio nel ’95 era stato: “possiamo competere”, nel 2001-2002 la conclusione invece era: “No, siamo migliori”. Perché se a un americano davo da risolvere un problema che non aveva mai visto, andava nel panico. Un italiano invece l’algoritmo per trovare una soluzione a un problema sconosciuto lo scrive, perché probabilmente fin da bambini abbiamo avuto questa fortuna di essere in un Paese in cui bisogna trovare delle soluzioni ai problemi, devi ragionare, perché le cose non funzionano. Se in auto trovi il limite 20-30 km/h e sei in autostrada ti costringe a pensare le conseguenze se inchiodi. E allora pensi che il cartello forse  l’abbiano dimenticato, quindi siamo costretti non solo a valutare la soluzione ai problemi ma anche a considerare che, tutto sommato, alcune regole non sono necessariamente scolpite nella pietra ma sono interpretabili. 

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E questo uscire dalle regole rientra nella cultura della Silicon Valley?
Sì, perché a differenza di altri settori, questo modo di procedere si adatta benissimo al software e  quindi alla cultura della Silicon Valley, che è quella di ‘spacca tutto e poi chiedi scusa’, prima fai le cose e poi chiedi scusa, perché è più facile chiedere scusa che chiedere permesso. E questo è abbastanza naturale, nel modo di fare di noi italiani, abituati ad affrontare talmente tanti blocchi che alla fine si fa una cosa, perché sì tutto sommato si potrebbe fare, ha senso. È con questa filosofia del tentare qualcosa che può ribaltare tutto che sono nate tante startup grosse che hanno poi sovvertito l’ordine di grandi aziende e interi settori. Pensiamo agli autoservizi: alla fine viene fuori un Uber che dà un servizio che è migliore del taxi, costa meno e ti cambia completamente il mercato.

Pensare fuori dagli schemi, credere nelle idee folli: direi che il tuo esempio ha ispirato le parole chiave che uso con Italiani di Frontiera
Io ero già fuori degli schemi quando sono nato, nel posto probabilmente sbagliato perché volevo fare delle aziende che cambiavano il mondo nella tecnologia. Ho lanciato Internet Graffiti che avevo 23 anni, per fare la prima azienda di web in Italia andavo in giro a raccontare perché bisognava avere un sito web a persone che non sapevano cosa fosse, questo web, e non avevano posta elettronica. E io avevo un’età in cui in Italia non si faceva impresa, mentre adesso è un po’ più normale. Idee folli? Puntare sugli apparecchi mobili con Funambol, quando in cima a Sand Hill  (la strada dove hanno sede molti dei venture capital a Silicon Valley, ndr) non c’era il segnale che mia nonna aveva allora col Nokia in Valtellina. Poi lanciare TOK.tv nel 2012 pensando che dialogare con gli amici da remoto durante un evento sportivo sarebbe diventato di moda. I televisori con microfono e telecamera invece stanno uscendo adesso e andranno a regime nel 2030.

Silicon Valley: quando sei arrivato e quella di oggi. Cos’è rimasto e cosa è cambiato drasticamente?
L’entusiasmo, la voglia di cambiare il mondo, la sensazione di essere in un posto speciale, magari oggi riguarda la Generative AI ma la sensazione è la stessa: è un nuovo paradigma, è un nuovo cambiamento mondiale. Non è cambiata la consapevolezza che si possa fare più o meno tutto. È cambiata invece la sensazione di ‘pushback’, un’ostilità da parte del resto del mondo. Nei 23 anni in cui sono stato lì eravamo il meglio del meglio ma a un certo punto è cambiato, si è ‘scavallato’ andando fuori controllo e si è iniziato ad attaccare Facebook, Google che hanno troppo potere e Apple. La Silicon Valley non è più vista come il posto di gente che cambia il mondo in positivo, ma un pericolo, che cambia il mondo anche in negativo, il che è vero. C’è gente che non si ferma davanti a niente perché ha fatto talmente tanti soldi per cui va per la propria strada. E questo vale anche per la Generative AI. È cambiata la percezione dal mondo esterno, non all’interno. 

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Sempre Roberto Bonzio con Fabrizio Capobianco e Michele Zonca, già cofondatore di Mashape e oggi partner di Liquid Factory

Una situazione degenerata? 
La grande differenza è che dal 1999 la forchetta tra quelli che hanno e quelli che non hanno in Silicon Valley si è allargata arrivando a dei livelli intollerabili. Perché se lavori nel tech guadagni tantissimo e fai la vita bella della Silicon Valley. Se invece sei un pelo fuori, ma non tanto, finisci potenzialmente per strada. Ti sembra veramente di vivere in un paese distopico, i ricchi da una parte che pensano alle AI e poveri dall’altra che comprano il fentanyl e muoiono per strada. Un divario che c’è sempre stato ma dopo il Covid è esploso. A San Francisco, c’è chi non esce con la macchina per andare al ristorante perché sennò gli rompono il vetro. Quindi esce con Uber e vive in questi palazzi isolati, va al ristorante bello e poi torna al palazzo isolato. Non è un modello di società che ha senso. 

Dunque condividi le critiche a questo modello?
Gli attacchi alla Silicon Valley che vengono dall’Europa li capisco bene, perché ovviamente la potenza di queste grandi tech company è tale che a questo punto è eccessiva, devono essere tenute a bada e tutti i vari garanti cominciano a essere d’accordo. Perché un po’ limitano anche la crescita delle startup: tu fai una roba che è bella ma poi ti bastonano perché sono troppo grandi, hanno posizioni un po’ troppo dominanti, quindi limitano anche l’innovazione. Tanti attacchi che vengono dall’America invece li capisco meno, visto che Silicon Valley resta il motore degli Stati Uniti, quindi secondo me dovrebbero tenerla in considerazione.

E quella vena di follia e trasgressione che era nel DNA di Silicon Valley? 
Con la Gentrification causata dai costi insostenibili, quelli in gamba, creativi ma non ricchissimi si sono spostati, Oakland o più in là. Ma se vai al Burning Man (festival eccentrico e di creatività folle che si svolge ogni anno nel deserto del Nevada, ndr), alla fine è tutta gente che viene da San Francisco,  sono comunque un po’ pazzi, con la cultura della follia, quella convinzione di poter cambiare il mondo, non solo facendo soldi, cambiare il mondo in generale. Questo non è cambiato per noi…  

Un po’ ti ci riconosci…
Secondo me è abbastanza folle anche girare per la Valtellina e parlare con una banca locale, raccontando di far venire i ragazzi in Valtellina per spararli in Silicon Valley. La prima domanda è:  facciamo venire la gente qua per mandarla via, ma siamo scemi? Quindi in realtà ho cercato di spiegare che no, facciamo aziende liquide, in cui viene una persona e poi costruisci un team, poi se ne va e comunque porta in questi mesi che rimane un sacco di idee e modi di pensare diversi di cui abbiamo bisogno, poi costruiscono delle aziende che attirano altre persone e poi alla fine questa cosa secondo me cresce e scala, però rimane un po’ folle. E un amico ha osservato che la cosa più folle è stata riuscire a convincere una banca territoriale, locale, a investire in stile venture capital con un modello simile a quello in cui si investe in aziende americane con una propensione al rischio molto alta.

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Fabrizio Capobianco con la squadra di Sondrio Domani

Questa “follia” di importare un pezzetto di cultura Silicon Valley in Valtellina è replicabile?
In realtà, questo modello che sto portando io è anche quello che dice che un qualunque borgo italiano, oppure un imprenditore che torna dall’estero, può andare dalla banca locale, farsi dare dei soldi per rifar partire il volano e costruire startup. Perché adesso in qualunque posto tu sia, possibilmente bello come la Valtellina, puoi fare aziende di respiro mondiale. Ma qualcuno ti deve dare i suoi soldi per farlo e forse questo qui è il primo passo. Dopo la presentazione del progetto, ho avuto un sacco di richieste e magari un giorno avremo una Liquid Factory in Sardegna, in Abruzzo, fuori dagli schemi ma facilmente replicabili. Anche perché oggi i capitali per cominciare ci sono anche in Italia ma dobbiamo importare un certo modo di pensare, il modello del venture capital. Mentre quelli che investono non sono persone che hanno fatto startup e aziende ma vengono dalla finanza e quindi gli manca la conoscenza di come bisogna gestire le basi iniziali, di quanto siano importanti il rapporto umano con l’imprenditore e la fatica che fa l’imprenditore.

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Roberto Bonzio con Alberto Onetti, Fabrizio Capobianco e la moglie Angela, già ricercatrice a Stanford.

Sei sempre stato imprenditore su nuove frontiere… succederà anche in Valtellina?
Sono sempre stato un po’ troppo in anticipo, è sempre stata la mia condanna. Nel senso che l’importante è il timing, arrivare nel momento giusto col prodotto giusto, mentre io tendo ad arrivare sempre un po’ troppo presto. L’ho fatto con Funambol, quando i telefonini non erano lontanamente quel che sono diventati, l’ho ripetuto una dozzina di anni fa con TOK.tv, mentre le tv interattive si stanno diffondendo solo ora. Spero non succeda pure con Liquid Factory. Perché almeno lì ci arriva qualcun altro, poi tocca alle singole startup. Verranno degli imprenditori, spero che siano un po’ più furbi di me. 

Una volta ti hanno chiesto se dovremo mandare per sempre la gente a Silicon Valley.
Già, e la risposta è: forse no. A un certo punto magari non sarà più necessario perché si potranno fare le exit, che sono la parte fondamentale, anche restando in Europa. Per arrivarci, i pezzettini ci sono tutti, bisogna vedere se riusciamo a metterli insieme. Allora non ci sarà più bisogno di andare alla Mecca, che oggi resta ancora il posto migliore del mondo e ha ancora senso mandarne uno o due perché da lì dobbiamo importare un modo di pensare. Quel che ci serve è un cambio culturale e tentare di spiegarlo in un’isola felice come la Valtellina, dove funziona tutto benissimo, la qualità della vita è eccezionale ma la gente è convinta di vivere in un postaccio. Ecco non è facile. Serve un cambio culturale.





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