La Basilicata, terra di briganti non di reazione

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Conto e carta

difficile da pignorare

 


Questo articolo era la parte introduttiva al saggio «Il lato oscuro del brigantaggio, stupri e violenze sulle donne» pubblicato sul numero in edicola della rivista Mathera che per motivi di spazio è stato stralciato.  

                                                          La banda del brigante Di Gianni, detto Totaro       

La preziosa «Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato» riporta le collocazioni di 1535 fascicoli relativi a grassazioni, 1290 a sequestri di persone, 640 a omicidi, 165 ad atti di cospirazione, 83 a stupri o ratti e via decrescendo per altri titoli di reato (AA.VV, Ministero per i beni e le attività culturali. Ufficio centrale per i beni archivistici. Il vol. I è del 1999, il II del 2000 e il III del 2001).                                                                                                            Se si usa il criterio di giudicare gli eventi da ciò che hanno prodotto, dal raffronto fra gli atti cospirativi -generalmente considerati reati politici- e tutti gli altri, non si potrà negare il carattere criminoso del fenomeno che fra il 1860 e il 1870 dilagò soprattutto nel Mezzogiorno continentale. Tanto più considerando il rilievo che vi ebbero le violenze carnali, un crimine che ancora oggi si tende a occultare. Vale a dire quei reati da eserciti occupanti più che da combattenti di una guerra di liberazione dal momento che le vittime si ebbero fra le popolazioni a favore delle quali i sedicenti resistenti agli  occupanti piemontesi dicevano di agire.                                                                    E questo a prescindere dalle molteplici e complesse cause che generarono il fenomeno.                                                                                                                             In Basilicata le insorgenze a favore del ritorno dei Borboni, furono principalmente causate dalla mancata concessione delle terre promesse ai contadini. Questo dichiarerà il prefetto quando si cominciò a riflettere sulle loro cause: i ceti rurali non solo non avevano partecipato ai moti di Potenza del 18 agosto 1860 ma si era dovuto loro promettere «ogni specie di bene [..] senza alcuna sorta di mali» perché non si opponessero. Compreso quello che da secoli consideravano il bene massimo: la terra (La relazione è dell’ottobre 1862 ed è citata da T. Pedio in Brigantaggio meridionale (1806-1863), ora su http://www.parcostorico.it).                                                  Promesse da marinaio quelle fatte dai fautori dello stato unitario poiché, a una decina di giorni dall’insurrezione, il governo regionale emanò un decreto che minacciava il carcere a chi si fosse dato – tanto più se in forma associativa- a dissodare o disboscare proprietà pubbliche o private («Il Corriere Lucano. Giornale Ufiziale della Insurrezione» del 1° settembre 1860).

Microcredito

per le aziende

 

                         Maria Sofia di Baviera, l’ultima regina delle Due Sicilie e Giuseppe Garibaldi             Non fu un buon inizio e il tradimento fu sentito in modo ancora pi acuto a causa dall’accresciuta miseria prodotta dai cattivi raccolti degli ultimi tre anni (F. Marolda Petilli, Del lavoro e dell’annona. Diagnosi e cura. «Il Corriere Lucano. Giornale per tutti», Anno 1, n. 1, 9 aprile 1861). In presenza di un tale stato d’animo, i circoli borbonici formati da una parte notevole dei galantuomini e del clero ebbero gioco facile nell’alimentare proteste e violenze e nel conferire al movimento che ne nacque motivazioni ideologiche e religiose che indubbiamente furono accolte con favore da chi vi prendeva parte. Tutto questo era già ben presente a un osservatore come Enrico Pani Rossi -sottoprefetto di Melfi dal 1864 al 1866- che nel suo studio sulla regione dedicava una decina di pagine alle cause generatrici del brigantaggio. In cima al suo elenco, i mali della plebe, «così antichi da disperare quasi d’ogni farmaco o d’ogni men strazievole avvenire». In fondo, lo spopolamento che rendeva la regione «ampio teatro a sue scorrerie» e generava leggende che trasfiguravano i briganti in «re della campagna».                                                                                               Tracciando un profilo del brigante-tipo lo dice: nato «in grossi borghi […] quasi città», spesso illegittimo, per lo più celibe e analfabeta, nullatenente, uomo di campagna, incensurato prima di darsi alla campagna. Riferendo di questo aspetto fondamentale del suo ritratto Pani Rossi aggiunge:Diciamolo con un senso di profonda commozione e di ribrezzo; per centinaia d’essi incolpabile il costume, specchiata la onestà; niuna macchia, niuna colpa; la moralità della vittima innanzi anteponga alla sua volta di mutarsi in carnefice (Enrico Pani Rossi, La Basilicata. Libri tre, Verona, 1868, pp. 451-454).                                                                                                                  Chi si occuperà del tema una cinquantina di anni dopo confermerà a pieno queste caratteristiche, compresa quella relativa alla moralità della maggior parte dei briganti:  «Circostanza meravigliosa», erano in quei tempi tristissimi incensurati, anzi «di specchiata onestà» (Sergio De Pilato, Il brigantaggio in Basilicata, estratto dalla Rivista d’Italia 1912, p. 19). Queste affermazioni fatte da due autori che per ragioni d’ufficio avevano accesso anche a documenti oggi andati perduti, rendono inevitabile chiedersi cosa trasformò tanti buoni selvaggi, in mostri di crudeltà (Daniele Palazzo, Il brigantaggio nel Mezzogiorno dell’osso: l’area del Pollino, tesi di laurea discussa all’ Università degli studi di Napoli Federico II, 2010, p. 309). Secondo lo stesso Pani Rossi, fu «la giustizia della vittima che s’avventa sul carnefice». Fu la rivolta, si badi bene, non contro lo stato ma contro i galantuomini «del natio municipio». E fu anche la via di fuga per sottrarsi agli «accalappiatoi di pezzenti che erano gli uffici di leva», uno degli strumenti più micidiali in mano ai galantuomini improvvisatisi liberali (E. Pani Rossi, cit. p. 442).                                                                                                           Questi passaggi, specialmente quello relativo all’originaria “specchiata onestà” della maggior parte di loro, dovrebbero essere sempre ricordati. Specialmente da chi ha attinto generosamente alle pagine da Pani Rossi dedicate alle efferatezze di alcuni briganti. Soggetti che l’ex viceprefetto indica con nome e cognome, ma senza mai generalizzare e men che mai teorizzare l’esistenza di una sottocultura brigantesca di antropofagia e stupri come fa Marco Veglia che a questi aspetti dedica un intero capitolo del suo «Brigantaggio Italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita» (Interlinea, 2020, pp.149-178). Una sottocultura la cui esistenza sarebbe stata peraltro ignorata sia dai contemporanei che da studiosi che riprenderanno la questione un secolo dopo. Studiosi come, per citarne qualcuno, Franco Molfese (Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964), Alfonso Scirocco, Il brigantaggio meridionale post-unitario nella storiografia dell’ultimo ventennio, «Archivio Storico per le Province Napoletane», XXII, 1983), Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale, Bari, 1979). Né vi ha fatto cenno recentemente Carmine Pinto con «La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870» (Laterza 2019), un contributo fondamentale alla questione.                                                                    A riprova delle originarie motivazioni sociali del fenomeno vale forse la pena di considerare la questione del nome chi vi partecipava volle darsi per un certo tempo. In varie località l’appellativo di brigante era infatti rifiutato da molti che preferivano piuttosto farsi chiamare uaglioni, ragazzi proprio per ciò che di negativo quel termine evocava (Michele Nobile, «Avendo essi a dispregio e a disonore essere nominati briganti si facevano chiamare uagliuni (in Spicilegio storico critico della città Severiana o Montescaglioso, Giannattelli 2020, p.180).Terminologia a parte, originariamente non si sapeva se considerare ciò che avveniva un fatto politico o criminale. Ne erano ben consapevoli i circoli unitari che, sia pure con qualche imbarazzo, scrivevano: «Alcuni ci dicono: non è un brigantaggio politico; è forse per questo meno pericoloso? Politico o impolitico che voglia essere, certo che i briganti non sono galantuomini». La questione fu per qualche tempo oggetto di dibattito fra i redattori de «Il Corriere Lucano. Giornale Ufiziale della Insurrezione», comparso come trisettimanale il 22 agosto 1860 a cura di Giovanni Giura, Giorgio Saverio Favata e Luigi Nasci e chiuso il 18 settembre dell’anno dopo. Fu poi rilevato da Favata che riprese a pubblicarlo settimanalmente il 2 aprile 1861, e fino al 1863, come «Il Corriere Lucano. Giornale per tutti». Il foglio, oltre che a puntuali cronache del brigantaggio, diede voce alle delusioni dei sinceri democratici unitari considerati “mazziniani” dal governo e perciò emarginati. La stessa cessazione per motivi economici del giornale, malgrado il valore dei collaboratori -Rocco Brienza, Pasquale Lloy, Pietro Rosano, il futuro deputato Francesco Marolda Petilli e il grande cacciatore di briganti Davide Mennuni- esemplifica lo spegnersi delle speranze di chi avrebbe voluto che l’Unificazione si accompagnasse al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini.                                                                                          Secondo loro «La reazione in Basilicata aveva a fautori i grandi proprietari de’ paeselli, gli impuri aristocratici de’ nostri tempi, venuti su dagli ultimi scanni sociali a forza di rapine e usure di una o due generazioni» (Le reazioni, «Il Corriere Lucano. Giornale per tutti» del 23 aprile 1861).  E movimento spontaneo di indole primitiva manovrato da ambienti reazionari, sarà il brigantaggio anche per Giustino Fortunato, profondo conoscitore sia delle plebi rurali che degli umori dei casati filoborbonici a uno dei quali lui stesso apparteneva e che era stato seriamente coinvolto in quelle vicende (A. Cartney, La legione ungherese contro il brigantaggio, vol. I, Nuova Cultura, 2012, pag. 49). Erano stati loro insieme ai preti a scatenare i peggiori istinti delle masse rurali, promettendo terre, distribuendo un po’ di grano e corrompendole con l’idea del saccheggio.                                                                                                          Lo stesso foglio riferiva che qualche religioso era giunto a far credere che morendo per ridare il trono a Francesco II e assicurare il potere temporale al Papa, «valesse a mandar la gente direttamente in paradiso». A Pietrafesa, inoltre, l’attuale Satriano di Lucania, in una calda notte di luglio l’arciprete aveva constatato che sulla testa della sua serva diciottenne era comparsa la corona di Santa Filomena. Dato l’allarme, la giovane era stata portata in chiesa in processione e collocata su un piedistallo. Nello stesso tempo, «mentre la plebe strepitava attorno alla novella Santa», una statua di gesso aveva cominciato a stillare una specie di rugiada che il prete s’era dato a raccogliere con un fiocco di bambagia per segnare la fronte dei fedeli. La ragazza si era messa allora a profetizzare il ritorno di re Borbone suscitando l’entusiasmo di «quei poveri cretini della plebe» mentre la parte evoluta della popolazione fremeva di sdegno (La santa di Pietrafesa, «Il Corriere Lucano», 14 agosto 1861). Circa un anno dopo, passando dalla farsa al macabro, ma assicurando di poter provare ogni affermazione, sullo stesso giornale si affermava che dai confessionali si spargeva apertamente il veleno della propaganda clerico-borbonica senza che le autorità facessero nulla per impedirlo. Eppure, ve ne sarebbero di motivi: «Vorremmo dire di certi Reverendi Monaci…cose da far inorridire; come di sepolture violate; di ossa di defunti tratte dagli avelli tacenti e date a donzelle perché sfogassero il sentimento di vendetta contro gli amanti che le hanno abbandonate». Particolarmente insidiosi erano i cappuccini che avevano ferventi seguaci fra le donne che agivano sui mariti con «l’eloquenza del cuscino» (Le reazioni, «Il Corriere Lucano» del 30 aprile 1861). E questo malgrado facessero capo a una provincia monastica, quella salernitana, i cui componenti in vari paesi si erano invece segnalata per la fede unitaria (Alfonso Conte, Il Drappo Tricolore Cinto Intorno al Saio: I Francescani Salernitani nel processo di Unificazione, Meridiana, no. 78, 2013, pp. 119–33).                                                                                     È difficile dire se le cose su riferite fossero a loro volta invenzioni propagandistiche o fasci di luce su ambienti ancora immersi in climi e sortilegi d’altri tempi. Sarebbe interessante cercare, e documentare meglio di quanto faccia una cronaca giornalistica, altri riferimenti a fatti dello stesso tenore.   Ad ogni modo, vere o false che fossero queste accuse, a Potenza avevano voluto mettersi al sicuro arruolando San Gerardo a difensore della causa unitaria («La Lucania», 21 maggio 1862).



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