ll Tribunale di Udine e successivamente la Corte di Appello della città giuliana respingevano la domanda risarcitoria avanzata dall’attrice per la produzione e messa in circolazione di una pasta dentaria, responsabile di averle provocato una mieloneuropatia ipocupremica, da carenza di rame, escludendo la sussistenza della responsabilità per danni da prodotto difettoso. La Corte di Cassazione, emettendo la sentenza del 23 dicembre 2024 n.33984, accoglie i motivi del ricorso proposti dalla danneggiata, svolgendo un’accurata ricostruzione in ordine alla responsabilità derivante da un prodotto farmaceutico.
La tesi della ricorrente era che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto non difettosa la pasta dentaria e altrettanto erroneamente individuato la causa del danno occorsole esclusivamente nella sua condotta imprudente consistita nell’aver fatto un uso abnorne del prodotto adesivo, accettando il rischio delle conseguenze neurologiche cui era andata incontro, anziché rivolgersi al dentista. Richiamato l’art. 117 del D.Lgs. n. 206/2005, la ricorrente sosteneva che in ordine alla responsabilità del produttore di un farmaco non sia “sufficiente la prova di aver fornito al consumatore le istruzioni di corretto uso né di aver formulato una generica avvertenza circa non precisati effetti collaterali. Per escludere la propria responsabilità il produttore deve provare di avere fornito un’avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell’indicato pericolo, in conseguenza dell’utilizzazione del prodotti, così da effettuare una corretta valutazione… dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno e, pertanto, di esporsi volontariamente e consapevolmente al rischio paventato“. Tantomeno avrebbe valenza esonerativa l’autorizzazione al commercio, atteso che i requisiti pubblicistici realizzano solo un minimum di garanzia e considerato che la valutazione di pericolosità non attiene ai meri dati scientifici, ma coinvolge anche la percezione e le aspettative dei consumatori.
Tenuto conto di ciò, il fatto che la pasta contenesse una percentuale di zinco pari al 3,8%, idonea come tale a determinare conseguenze neurologiche, unito alla presenza di un’informazione inidonea a neutralizzare i rischi per la salute, essendo priva di riferimenti alle possibili conseguenze neurologiche connesse ad un uso eccessivo e al pericolo generico per la salute (l’uso smodato della pasta era posto, infatti, in relazione esclusivamente con la possibilità di un difetto della protesi, cioè il consumatore era informato solo del fatto che la necessità di una quantità eccessiva di pasta era indice di una dentiera scarsamente aderente) non bastava per rimproverarle, avendo preferito eccedere nell’uso della pasta piuttosto che rivolgersi al dentista per rifare o riparare la protesi, di avere accettato il rischio di dover subire danni neurologici alla persona. Né la scarsa letteratura scientifica in merito ai rischi causati dall’intossicazione da zinco integrava l’esimente di cui all’art. 118 cod. cons., dato che lo stato delle conoscenze scientifiche e teoriche non va identificato con l’opinione espressa dalla maggioranza degli studiosi, ma con il livello più avanzato delle ricerche effettuate in un determinato momento, indipendentemente dalla scarsa fruibilità della conoscenza, in considerazione del fatto che l’interazione tra rame e zinco e la riduzione del rame provocata dal primo causasse patologie neurologiche era noto dagli anni settanta del secolo scorso. Se la produttrice – aggiungeva la ricorrente – anziché ritirare dal commercio la pasta dentaria nel 2010, quando già si erano verificati 416 casi avversi, l’avesse ritirata prima – nel 2006 o nel 2007, all’epoca in cui era stato pubblicato su una rivista specialistica, il Journal of Neurology, l’esito di uno studio sul tema che avvertiva del rischio neurologico provocato da un uso eccessivo di zinco, che aveva indotto la produttrice a diramare un comunicato diretto ai neurologi, allertandoli sui rischi derivanti dall’intossicazione di zinco – la sua condizione sarebbe stata diversa.
La Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo, escludendo in primo luogo che l’attività di produzione di farmaci possa essere ricondotta alla disciplina della responsabilità per danni da prodotto difettoso.
Ed invero: “le perplessità traggono origine dal fatto che, definito dall’art. 1, D.Lgs. 24/04/ 2006, n. 219 (di recepimento della Direttiva 2001/83/CE), come “ogni sostanza (o associazione di sostanze) che presenta proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o che viene utilizzata con mera finalità di diagnosi”, esso non è un bene voluttuario, venendo di norma utilizzato a seguito di indicazioni promananti da figure professionali terze rispetto al produttore e al distributore, e, soprattutto, è ad esso connaturale un potenziale effetto “collaterale” pregiudizievole per la salute degli utenti, il quale, una volta materializzatosi, diviene causa del danno. A tale stregua la relativa commercializzazione è oggetto di copiosa e analitica regolamentazione relativa alle procedure di controllo, alle obbligazioni di contenuto informativo, alla certificazione da parte di organismi specifici in ordine al rispetto di precisi standard tecnici; regolamentazione in chiave prudenziale e precauzionale finalizzata a contenere e governare i rischi di danno connessi alla immissione in commercio ed all’utilizzo del farmaco. L’impiego del parametro del rispetto delle regole di certificazione è tuttavia elastico, perché non è affatto esclusa la responsabilità del produttore di farmaci non solo secondo la giurisprudenza nazionale (v. Cass. 28/07/2015, n. 15851), ma anche secondo quella comunitaria (cfr. Corte giust. Ue, 5 marzo 2015, cause riunite C-503 e C-504/13, Boston Scientific Medizintechnik Gmbh), sebbene la loro produzione risulti conforme alle prescrizioni di carattere tecnico. Le evocate perplessità sono alla base dell’orientamento giurisprudenziale in base al quale la relativa produzione va qualificata come attività pericolosa, in tal modo innalzandosi la protezione del consumatore-utilizzatore del prodotto medicale in forza del principio di precauzione, l’impresa farmaceutica essendo ritenuta responsabile anche qualora la causa della pericolosità del farmaco sia ignota ovvero quando la scienza, pur provando la correlazione tra l’assunzione del farmaco e il danno potenziale, non sia in grado di affermare con certezza se e in che misura l’organismo del paziente abbia inciso sulla manifestazione dell’effetto collaterale. Si sono al riguardo prese le mosse dalla distinzione tra prodotto pericoloso e prodotto difettoso onde rimarcare che, per escludere la responsabilità del produttore del farmaco, essendo il farmaco un prodotto pericoloso e non già (almeno di norma) un prodotto difettoso, non basta che l’attività di produzione soddisfi i requisiti pubblicistici che precedono la sua immissione in commercio, i quali realizzano “solo un minimum di garanzia per il consumatore (v. Corte Giust., 29/5/1997, C-300/95)”, ma occorre anche considerare “la percezione e le aspettative dei consumatori (v. Corte Giust., 11/4/2001, C477/00; Corte Giust., 28/10/1992, C-219/91)” (v. Cass. 10/05/2021, n. 12225)“.
La Corte precisa comunque che:
“i) il prodotto non è difettoso solo perché pericoloso; nel senso che il verificarsi del danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una sua più indefinita pericolosità di per sé insufficiente per evocare la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia (Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116; Cass. 23/10/2023, n. 29837);
ii) non esiste un prodotto del tutto innocuo (Cass. 10/05/2021, n. 12225, cit., osserva che “anche assumendo come parametro integrativo di riferimento la nozione di prodotto “sicuro” contenuta nella disciplina sulla sicurezza generale dei prodotti di cui all’art. 103 Codice del consumo (e già al D.Lgs. n. 172 del 2004)(…) di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del consumo (e già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5), o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia (v. Cass. 20/11/2018, n. 29828; Cass. 29/5/2013, n. 13458)”) e che una certa dose di rischio può accettarsi purché sia ragionevole in relazione ad alcuni indici di valutazione proposti dal legislatore, i quali mediano tra i comportamenti esigibili dal produttore e le realistiche attese di sicurezza dell’utilizzatore, anche allo scopo di non imporre al produttore un costo elevato e inefficiente“.
Dunque la Corte rileva, come osservato dalla ricorrente, che: “la pasta adesiva solo perché conforme agli standard tecnici non è per ciò solo inidonea a provocare danni. Nonostante il rilievo crescente attribuito alle norme tecniche emanate da organismi di normalizzazione (norme UNI e CEI in Italia), recepite o richiamate da provvedimenti legislativi, che il prodotto sia pienamente conforme agli standard tecnici – che siano espressamente prescritti dalle cosiddette normative verticali o che siano altrimenti desumibili dallo stato dell’arte – non implica che esso non sia potenzialmente dannoso (Cass. n. 12225/2021, cit.), quand’anche se ne possa presumere la sicurezza e, per converso, un prodotto difforme può risultare solo occasionalmente (ma non necessariamente) dannoso. Il prodotto conforme agli standard tecnici può risultare difettoso, perché dannoso, in considerazione del fatto che gli standard tecnici individuano una soglia minima di sicurezza il cui rispetto è indispensabile per ottenere la certificazione senza la quale non è possibile immettere in circolazione il prodotto, ma non esonera da responsabilità il produttore che non abbia fatto ricorso a misure precauzionali additive, purché fossero nella sua disponibilità (Corte di Giustizia CE, 29/05/1997, C-26/96, secondo cui le conoscenze scientifiche e tecniche di cui all’art. 7 lett. e) della Direttiva n. 85/374 non riguardano soltanto la prassi e gli standard di sicurezza in uso nel settore industriale nel quale opera il produttore, ma comprendono, senza alcuna restrizione, lo stato dell’arte inteso nel suo livello più avanzato, purché concretamente accessibile al momento della messa in circolazione del prodotto considerato)”.
La Corte rileva che il ragionamento non è dissimile da quello che si segue quando si deve accertare la sussistenza di un comportamento colposo: “il fatto che l’agente abbia osservato una norma cautelare esclude, di norma, la sua colpa specifica, ma tanto non esime dal verificare la sussistenza di una sua colpa generica. Erra dunque il giudice a quo quando conferma la pronuncia del Tribunale che aveva “precisato come, in dipendenza della qualifica di presidio marcato CE, la parte adesiva era stata sottoposta ai controlli previsti dalla disciplina in materia” (p. 6 della sentenza), dopo avere osservato, atteggiandosi a giudice di legittimità, che l’appellante aveva riproposto la propria tesi difensiva, già disattesa dal giudice di primo grado, senza un effettivo confronto con la più ampia argomentazione presente nella sentenza impugnata (p. 6). Ora, nel caso di specie la ricorrente per invocare la responsabilità del produttore ha fatto leva su uno dei tre difetti su cui è incentrata la definizione normativa di prodotto difettoso, vale a dire il difetto di informazione (gli altri sono i difetti di fabbricazione – uno o pochi esemplari della serie sono difettosi, per cattivo funzionamento dell’impianto di produzione o per una svista di qualche operatore i difetti di costruzione – l’intera serie è difettosa a causa di inadeguata progettazione, mancanza di congegni di sicurezza, uso di componenti o materie prime inadatte, insufficiente sperimentazione ecc.) cioè la mancanza o l’insufficienza di informazioni date dal produttore per un uso corretto del prodotto e per evitare i rischi connessi al suo uso“.
Precisa poi che: “detta informazione, sia quella tratta dalla presentazione del prodotto e dalle sue caratteristiche palesi, sia quella fornita dal produttore con istruzioni e avvertenze aggiuntive, ha un contenuto inversamente proporzionale alle ragionevoli attese di sicurezza del bene e deve essere contemperata con l’uso ragionevole del prodotto (secondo Cass. 15/03/2007, n. 6007, il riferimento normativo all’uso ragionevole del prodotto “delimita l’ambito del dovere di cautela del produttore, escludendo la garanzia di sicurezza in presenza di anormali condizioni di impiego le quali possono logicamente dipendere non solo dall’abuso e dall’uso non consentito, come potrebbe ritenersi ad una più sommaria lettura, ma anche da circostanze anomale che, ancorché non imputabili al consumatore, rendano il prodotto, altrimenti innocuo, veicolo di danno (alla salute)”), nel senso che l’uso del bene per una finalità irragionevole esclude la difettosità del prodotto, mentre un uso non accorto potrà essere causa di riduzione del risarcimento dei danni (Cass. 14/06/2005, n. 12750), oltre che con il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione. Il principio è chiaramente desumibile dall’art. 104,2 comma, cod. cons., ai sensi del quale il produttore deve fornire al consumatore tutte le informazioni utili alla valutazione dei rischi derivanti dall’uso normale o ragionevolmente prevedibile del prodotto e alla prevenzione contro detti rischi, ma “la presenza di tali avvertenze non esenta, comunque, dal rispetto degli altri obblighi previsti nel presente titolo”, cioè in sostanza non esenta dall’obbligo di “immettere sul mercato solo prodotti sicuri“(art. 104,1 comma, cod. cons.). Nell’applicazione di detti principi, il giudice è tenuto a mettere a confronto le condotte delle parti in causa per valutare se il danno poteva essere più facilmente (cioè con minor sacrificio) evitato dalla vittima o dal produttore, alla luce delle informazioni di cui ciascuno dei due poteva disporre nel momento in cui ha agito, in uno con il rilievo attribuito ad una distinzione inespressa tra: i) danni prevedibili ed evitabili; ii) danni astrattamente prevedibili, ma inevitabili; iii) danni imprevedibili ed inevitabili. Il tutto sotto l’egida del parametro della ragionevolezza, quale strumento di concretizzazione e di bilanciamento di una pluralità di valori.“
Esaminando specificamente il profilo del difetto di informazione, la Corte ritiene che la ricorrente abbia ragione: “quando osserva che l’informazione che si traduca in una mera avvertenza circa il fatto che un determinato evento possa verificarsi non vale ad esonerare il produttore da responsabilità; conducente è solo la veicolazione di informazioni che, come osservato da attenta dottrina, contribuisca “a prevenire un rischio evitabile o a soppesare adeguatamente quello che… non lascia altra scelta che accettarlo o rinunziare alle utilità del prodotto pericoloso. Un’avvertenza che non operi in un senso o nell’altro, ma si limiti a ricordare che le cose possono andare male e, su questa base, intenda isolare il produttore da responsabilità, val quanto una clausola di esclusione da responsabilità; e ne condivide le sorti”. Non bisogna, nondimeno, trascurare il fatto che la responsabilità del produttore non è regolata alla stregua di una responsabilità oggettiva pura (o assoluta) e che perciò il comportamento dell’utente non è affatto irrilevante: esso deve essere improntato al principio di autoresponsabilità (codificato dall’art. 122 cod. cons., ai sensi del quale “Il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente esposto”) e deve essere valutato dal giudice, il quale dovrà accertare se vi sono i presupposti per ritenere che proprio l’utilizzatore si sia trovato nella condizione migliore per evitare o contenere il danno“.
La Corte poi rintraccia due precedenti, ritenuti dal Collegio dirimenti. Si tratta di:
“Cass. 18/11/2022, n. 34027 che, in tema di danni alla salute conseguenti alla vaccinazione contro la poliomielite, ha ritenuto che l’accertamento del nesso causale – da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” ovvero della “evidenza del probabile”, come pure delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale – implica la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) pericolosità del vaccino alla stregua delle leggi di copertura scientifica, e dall’altro, della sua effettiva sicurezza in relazione alla singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, apprezzata sulla scorta delle circostanze del caso concreto per come emerse dall’istruzione probatoria condotta nel processo, secondo un modulo di accertamento costituente una costante degli indirizzi giurisprudenziali causalistici più recenti (Cass. 27/07/2021, n. 21530; Cass. 08/01/2020, n. 122 “l’analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità. L’ineludibile esigenza di ancorare l’accertamento del nesso causale alla concretezza della vicenda storica comporta una traslazione della regola sostanziale in quella processuale, tale che la valorizzazione del caso concreto non risulti svalutazione della legge scientifica, soprattutto nella sua declinazione di legge statistica, per dar corpo ad “ideali aneliti riparatori tout court”… ma impone di calare il giudizio sull’accertamento del nesso causale all’interno del processo, così da verificare, secondo il prudente apprezzamento rimesso al giudice del merito… la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili”). Il punto di partenza del ragionamento svolto da questa Corte è costituito dalla distinzione tra vaccino (potenzialmente) pericoloso e vaccino difettoso. Secondo i giudici di legittimità negare “la potenzialità dannosa del vaccino, sulla base delle leggi di copertura scientifica” non ne esclude la difettosità. Che le conoscenze scientifiche dell’epoca qualificassero il vaccino come sicuro non poteva essere considerato indicativo dell’assenza di un difetto nello stesso, essendo quest’ultima qualità “determinata dallo scostamento tra sicurezza attesa – secondo i parametri previsti dalla legge – ed esiti concreti dell’utilizzo del prodotto”: potrebbe essere che un vaccino abbia provocato danni perché ad esempio “non correttamente confezionato o prodotto o perché non avrebbe dovuto essere somministrato in quella particolare circostanza”. È indubbio che sussiste una distinzione di piani tra accertamento del carattere pericoloso di un vaccino (così come di un medicinale) e accertamento di un difetto dello stesso: il giudizio sulla potenzialità dannosa in astratto non coincide con la valutazione in termini di sicurezza in concreto, ma pur dovendo muovere dalla necessità che il danneggiato dimostri il difetto prima ancora che il nesso eziologico tra tale difetto e il danno, considerando la responsabilità del produttore non si basa sulla colpa, non si può rendere difficile al danneggiato provare il difetto, neutralizzando la portata innovativa del passaggio dalla responsabilità di diritto comune alla responsabilità del produttore. Ecco perché questa Corte impone al giudice di valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso concreto, l’eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l’evento lesivo: l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio della responsabilità del produttore “chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato” della norma che impone al danneggiato di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno è nel senso che “detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla commissione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare… che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “…difettoso…” non offrendo “…la sicurezza che ci si…” poteva “…legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze” (Cass. 8/10/2007, n. 20985).
L’altro precedente è costituito da Cass. 10/05/2021, n.12225, già evocato – che ha chiarito il rapporto tra le diverse norme di responsabilità applicabili al caso di danno da farmaci, la nozione di prodotto difettoso, il ruolo dell’informazione del consumatore ai fini di tale responsabilità e la distribuzione dell’onere della prova -relativo ai danni cagionati dall’assunzione del Lipobay, contenente il principio attivo della cerivastatina, determinante l’accentuato rischio di malattie del muscolo rispetto a dosi equipollenti di altre statine, e, pertanto, una minore sicurezza del Lipobay (poi ritirato da commercio, data l’accertata frequenza causale nella determinazione della malattia dei cingoli) rispetto ad altri farmaci ipocolesterolemizzanti, la quale “ha nello specifico caso concreto in esame assunto carattere anche dannoso”, non bastando ad escluderlo le generiche avvertenze contenute nel bugiardino. Considerato, sotto altro profilo, che ad escludere la responsabilità del produttore di farmaci non è invero sufficiente nemmeno la mera prova di aver fornito – tramite il foglietto illustrativo (c.d. “bugiardino”) – un’informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto, essendo necessaria un’avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell’indicato pericolo in conseguenza dell’utilizzazione del prodotto bensì di effettuare una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della particolarità e gravità della patologia nonché del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e dei benefici al riguardo, nonché di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l’insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco)“.
Orbene, applicando i principi evocati al caso di specie, il Collegio rileva che: “non può non rilevarsi che le informazioni contenute nel bugiardino non erano affatto tali da rendere edotta la ricorrente del rischio cui sarebbe andata incontro ove avesse ecceduto nell’uso del prodotto: è vero che il bugiardino – il cui contenuto è riprodotto a p. 20, nt. 13 del ricorso – avvertiva di non applicare l’adesivo più di una volta al giorno e che il tubetto sarebbe dovuto durare almeno tre settimane, ma non metteva in relazione l’eventuale uso smodato con un rischio per la salute né specifico – neuropatia da riduzione del rame – né generico – danni alla salute – limitandosi a raccomandare all’utilizzatore di rivolgersi al proprio odontoiatra al fine di verificare la protesi dentaria, la quale per avere bisogno di una quantità elevata di prodotto adesivo evidentemente presentava problemi di aderenza alle gengive (si leggeva, infatti: ” L’utilizzo di troppo adesivo può essere segno di scarsa aderenza della protesi, in tal caso sospendi l’uso del prodotto e consulta i dentista per controllare l’adeguatezza della protesi”). In altri termini, l’utilizzatore era messo sull’avviso circa il fatto che la protesi potesse essere difettosa, perché per farla aderire alle gengive era sufficiente l’impiego di una quantità minore di prodotto, ma non già del rischio che, continuando ad usare l’adesivo in maniera abnorme rispetto a quella consigliata, avrebbe corso il rischio di subire danni così gravi alla propria salute. In altri termini, ammesso che la ricorrente avesse accettato un rischio derivante dal proprio comportamento incauto questo consisteva solo in quello implicato dall’uso prolungato di una protesi non ben realizzata o bisognosa di riparazione. Anche sotto tale profilo quello dell’informazione generica e inadeguata le osservazioni critiche della ricorrente colgono, dunque, nel segno. La corte territoriale, affermando che “la necessità di utilizzare più volte al giorno la pasta adesiva era evenienza specificamente posta dal produttore quale ragione per il consulto del dentista in quanto la protesi non più adeguata alla condizione dell’arcata dentale e non emendabile con l’utilizzo eccessivo del prodotto” (p. 7), e atteggiandosi a giudice di legittimità là dove ha osservato che l’appellante aveva riproposto la propria tesi difensiva, già disattesa dal Tribunale, senza un effettivo confronto con la più ampia argomentazione presente nella sentenza impugnata (p. 6), non si è uniformata alla giurisprudenza di questa Corte che, anche prima che venisse specificamente disciplinata la responsabilità del produttore, riteneva che il danno subito da colui che si serve di una cosa può essere addebitato al produttore solo se questa è stata usata secondo la destinazione che il produttore poteva ragionevolmente prevedere e se il comportamento tenuto dall’utente (e dal quale il danno è dipeso) era ragionevolmente prevedibile, a meno che l’utente non fosse stato posto in grado di rappresentarsi che taluni di quei modi di uso andavano in concreto evitati perché si sarebbe potuta determinare una situazione foriera di danno (Cass. 29/09/1995, n. 10274/95; Cass. 03/03/2005, n.4662). Ora, nella specie, della pasta adesiva non solo la ricorrente non aveva fatto un uso atipico, ma neppure era stata avvertita del tipo di conseguenze cui sarebbe andata incontro se avesse usato in maniera eccessiva il prodotto, pur essendo detto comportamento ragionevolmente prevedibile (che fosse ragionevolmente prevedibile emerge de plano dal fatto che lo stesso foglietto illustrativo suggeriva di verificare l’adeguatezza della protesi). Il che esclude che il danno non fosse prevedibile, ai sensi dell’art. 117, lett. b), cod. cons., da parte del produttore“.
Resta da considerare l’ulteriore parametro, quello del tempo in cui il prodotto era stato messo in commercio: “allo scopo di accertare se, pur essendo ragionevolmente prevedibile che l’utilizzatore usasse in misura eccessiva la pasta adesiva, il danno derivatone fosse inevitabile; la prevedibilità imponeva, infatti, alla produttrice di trovare un modo per eliminare gli effetti collaterali dell’uso del suo prodotto. È vero che la possibilità di produrre un bene più sicuro, la neutralizzabilità delle sue potenzialità dannose non sono elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, ma sono comunque elementi estrinseci di cui va tenuto conto alla stregua di canoni individualizzanti la ratio legis, cioè come strumenti di spiegazione di un effetto giuridico che sta a prescindere da essi; l’intento di responsabilizzare il produttore o di controbilanciare la libertà di impresa concessagli dall’ordinamento possono essere criteri di spiegazione del criterio scelto per allocare il danno, ma non sono elementi costitutivi della regola di fattispecie. In altri termini, come evidenziato dalla dottrina, il responsabile deve essere individuato in colui che ha creato il rischio o il pericolo o che non ha impedito il verificarsi del danno o situazioni assimilabili, ma muovendo dall’assunto che il soggetto non viene condannato al risarcimento del danno perché il fatto che gli viene imputato significhi inottemperanza a un dovere di prevenzione bensì perché il danno si è verificato nei termini in cui la norma esige che si verifichi per il sorgere dell’obbligazione. Il rischio, la creazione di pericolo, in capo a colui che la norma eventualmente trasceglie tra coloro ai quali il costo del danno può essere riferito possono spiegare all’interprete la ragione (ratio) della norma, ma non gli chiedono di scegliere, all’interno del ventaglio di teoria generale della responsabilità civile, tra prevenzione, riparazione, distribuzione del costo del danno, punizione: perché tale scelta è stata fatta dal legislatore. Quest’ultimo profilo è stato affrontato in maniera assolutamente lapidaria e insufficiente dal giudice a quo, ribadendo che “il produttore non poteva ritenere prevedibile che il portatore di protesi inadeguata invece di consultare il dentista in caso di mal funzionamento… procedesse per anni all’abnorme – contro le sue indicazioni – utilizzo alla pasta adesiva invece che consultare -come ordinaria diligenza consiglia – il dentista e far adattare la protesi” (p. 7)- ma non escludendo che l’intossicazione da zinco derivante da un uso eccessivo della pasta adesiva fosse nota alla comunità scientifica. Sul punto la Corte d’Appello, con una motivazione per relationem, ha affermato che l’appellante aveva riproposto le osservazioni alle conclusioni assunte dal C.T.U. assunte dal suo consulente, alle quali il primo aveva risposto ricordando che vi era poca letteratura in merito “e, non già, che tale carenza di ricerche ed articoli di dottrina medica fosse riferita alla malattia palesata dalla Ga.An. e dipendente da intossicazione di zinco” e che il Tribunale aveva evidenziato le ragioni per le quali aveva aderito “all’opinione scientifica del perito in quanto considerazioni fatte in specifica relazione a casi -descritti in letteratura medica – relativi all’intossicazione di zinco per uso di paste adesive dentarie – situazione di specie- ed alla quantità di prodotto di cui era probabile l’ingestione nell’ambito dell’utilizzo“.
Sotto diverso profilo la Corte censura anche l’affermazione contenuta nella sentenza di merito in ordine al profilo del nesso di causa. Secondo la Corte d’Appello il nesso di causa tra l’idoneità lesiva della pasta dentifricia e la mieloneuropatia sarebbe stato interrotto dal comportamento della danneggiata che aveva utilizzato la pasta adesiva in maniera abnorme e imprevedibile, ma tale conclusione ad avviso della ricorrente è errata, perché il fatto del danneggiato interrompe la serie causale avviata da altri solo se sia colpevole: “tanto più la situazione di pericolo è prevedibile come conseguenza di una condotta atipica, quanto più intensa deve essere la prudenza richiesta a danneggiato nella propria azione“.
La ricorrente a tale proposito rilevava che: “non avendo la casa farmaceutica, che svolgeva un’attività potenzialmente idonea a cagionare il danno, dimostrato di avere adempiuto l’onere di segnalare adeguatamente l’effetto indesiderato che non era affatto imprevedibile (posto che nel 2010 si erano verificati 416 casi e che già in precedenza la letteratura scientifica aveva avvertito degli effetti nocivi provocati dall’intossicazione di zinco), ha errato il giudice a quo a ritenere che l’utilizzo di un prodotto venduto nei supermercati, ampiamente reclamizzato, privo di indicazioni circa l’effetto nocivo per la salute cagionato da un suo uso prolungato, utilizzato proprio e solo per lo scopo per cui era stato prodotto lasciasse prevedere il rischio di restare paralizzati agli arti, come era avvenuto. La produttrice aveva messo in commercio fino al 2010 un presidio medico potenzialmente pericoloso, detta attività era da ricondurre alla disciplina di cui all’art. 2050 cod. civ., sicché avrebbe dovuto dimostrare per andare esente da responsabilità di avere informato i consumatori finali del rischio cui andavano incontro utilizzando la pasta adesiva, così da consentire loro di farne un uso consapevole e responsabile. Non avendo usato la pasta Polident Imbattibile, consapevole del rischio per la sua salute, non poteva essere considerata la responsabile, né la responsabile esclusiva del danno occorsole“.
La Corte ritenendo fondato anche questo diverso motivo rileva che: “l’attribuzione della responsabilità non possa farsi discendere dalla mera verificazione di un danno collegato naturalisticamente e temporalmente all’utilizzazione del prodotto (cfr. Cass. 29/05/2013, n. 13458, che è molto rigorosa anche relativamente all’impiego del metodo deduttivo, allorché precisa che “non costituisce corretta inferenza logica ritenere che il danno subito dall’utilizzatore di un prodotto sia inequivoco elemento di prova indiretta del carattere difettoso di quest’ultimo, secondo una sequenza deduttiva che, sul presupposto della difettosità di ogni prodotto che presenti un’attitudine a produrre danno, tragga la certezza dell’esistenza del difetto dalla mera circostanza che il danno è temporalmente conseguito all’utilizzazione del prodotto stesso”), che ciò possa costituire tutt’al più un prerequisito per l’applicazione della responsabilità del produttore (Cass. 15/03/2007, n. 6007) è indiscusso: il difetto del prodotto costituisce presupposto autonomo rispetto al danno, non potendo essere assorbito dalla prova di questo (Cass. 15/02/2018, n.3692); proprio in ciò risiede, secondo la giurisprudenza di legittimità, la specialità della responsabilità del produttore, assumente funzione “delimitativa dell’ambito di applicabilità di essa (Cass. 29/05/2013, n.13458). Di conseguenza, l’onere di provare il difetto del prodotto gravante sul danneggiato non significa che il danneggiato debba provare la colpa del danneggiante, il danno è mediato sempre dall’uso del prodotto, perciò al difetto può risalirsi attraverso la prova della connessione causale del danno con l’uso del prodotto. Se, infatti, la responsabilità del produttore si basa sul nesso causale tra difetto e danno, e poi si ritenesse il difetto, per così dire, in damno ipso, allora il produttore risulterebbe responsabile in ragione del nesso di causa tra prodotto e danno (e non tra difetto e danno) in contrasto con il modello della responsabilità del produttore, il quale è stato pensato in modo che neppure l’intreccio tra la normativa relativa alla sicurezza dei prodotti e quella della responsabilità del produttore possa condurre alla conclusione che il livello di sicurezza prescritto, ed al di sotto del quale il prodotto deve, perciò, considerarsi difettoso, sia quello della sua più rigorosa innocuità e che la responsabilità del produttore assuma, quindi, i caratteri propri di una responsabilità oggettiva assoluta, in quanto esclusivamente legata alla prova del nesso di causalità tra l’utilizzazione del prodotto ed il danno che ne è seguito. Il danno non prova direttamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una più indefinita pericolosità che non è insufficiente per imputare la responsabilità cagionata dal prodotto al fabbricante, ove non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia. A maggior ragione se si muove dall’assunto che la responsabilità del produttore (soprattutto del produttore di farmaci) può essere regolata dall’art. 2050 cod. civ., per accertare se il produttore può andare esente da responsabilità, avendo fornito la prova liberatoria richiesta “(e cioè la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno), è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco…; dall’altro l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato, dovendosi solo per completezza qui precisare che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori” (v. Cass. 07/03/2019, n. 6587). Escluso dunque che il fattore esterno, cioè il comportamento imprudente della danneggiata, non essendo esso caratterizzato né dall’imprevedibilità né dall’eccezionalità, abbia interrotto il nesso eziologico tra la condotta del danneggiante ed il danno (la responsabilità ex art. 2050 cod. civ. può essere esclusa, ma a tal fine non è sufficiente che il danneggiante provi l’imprevedibilità del danno, dovendo, invece, dimostrare che esso non si sarebbe potuto evitare mediante l’adozione delle misure di prevenzione che le leggi dell’arte o la comune diligenza imponevano (Cass. 21/02/2020, n. 4590)), il giudice a quo ha errato ritenendo interrotto il nesso causale dal comportamento imprudente della danneggiata che al più avrebbe potuto essere preso in considerazione, ai sensi dell’1227, 1 comma cod. civ. – espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a sé stesso, ai fini dell’eventuale diminuzione del risarcimento dovuto dal danneggiante in relazione all’incidenza della colpa del danneggiato (Cass. 21/11/2017, n. 27544)“
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link