La destra già litiga su un ordine del giorno della Lega che limita l’invio di armi verso Kiev. Ma anche le opposizioni si preparano a un voto “spacca-alleanze”: guai in vista in casa Pd
L’aumento dei soldi per la difesa fino il 2 per cento del Pil è una direzione obbligata, secondo il ministro Guido Crosetto. Ma per il governo resta uno degli appuntamenti al buio del 2025. La premier cerca alleati in Europa per scorporare la spesa militare dal Patto di stabilità, prima di capire da dove far uscire gli eventuali soldi. Il guaio è che il numero magico “2 per cento” dice poco, almeno fino a che non si definirà l’oggetto del contendere, ovvero cosa è rubricabile alla voce “difesa” per la Commissione Ue. Chi in questo momento ha in mano il dossier fa l’esempio degli stipendi dei carabinieri: la Commissione autorizza deroghe solo per gli investimenti, non per la spesa corrente.
Problema ingarbugliato, per Giorgia Meloni, combattuta fra la necessità di compiacere Donald Trump (che spara la richiesta dell’aumento al 5 per cento) e il rischio di irritare il suo elettorato. Ieri pomeriggio al Senato, durante il confronto sulla manovra, lo ha ricapitolato Enrico Borghi di Italia viva: fin qui il rapporto fra spesa per la difesa e Pil era sceso (dall’1,50 del 2023 all’1,49 del 2024 all’1,44 del 2025). È vero che nella manovra è salito all’1,58. «Ma è sideralmente lontano da quello che chiede il nuovo presidente Usa», spiega il senatore. «Nei giorni scorsi la premier andata in Lapponia a chiedere che queste spese vadano fuori dal Patto di stabilità. Ma non si sta in Europa come in un supermercato, dove si prendono le cose à la carte». Al momento Meloni non ha molto in mano. Ma presto il nodo arriverà al pettine. E si abbatterà tanto sulla maggioranza, dove la Lega borbotta, quanto sulle opposizioni, dove invece rischia di essere il tema spacca-alleanza dell’anno.
Le armi all’Ucraina
A gennaio, alla ripresa, ci sarà un primo assaggio dell’amara bevanda: la prossima autorizzazione per l’invio di armi italiane all’Ucraina invasa dalla Russia. Stavolta, più delle altre, rischia di far scricchiolare entrambi gli schieramenti. Da una parte, nella maggioranza, la Lega annuncia un ordine del giorno per impegnare il governo a che la prossima proroga sia l’ultima: un testo-bandierina, un messaggino a Trump e a Vladimir Putin. Ma FdI ha già avvertito l’alleato che l’odg non andrà da nessuna parte, anzi meglio che non veda la luce. Dall’altra, le opposizioni si rassegnano ad arrivare divise a quel voto; e tutto lo sforzo del Pd sarà per attenuare il fuoco amico del M5s e magari anche a evitare di spaccarsi al proprio interno.
I due provvedimenti
I provvedimenti in realtà sono due: il primo è il decreto interministeriale firmato da Esteri, Difesa ed Economia e illustrato dal Crosetto lo scorso 18 dicembre al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica, che contiene il decimo pacchetto di armi in partenza per Kiev (in deroga alla legge 185 che vieta l’invio di armi a un paese belligerante), il quarto firmato dal governo Meloni, il cui elenco di armamenti è un documento «classificato», dunque secretato. L’altro provvedimento è la cornice giuridica, la proroga della proroga, ovvero l’autorizzazione alla cessione di «mezzi, materiali ed equipaggiamenti» a Kiev che copre tutto il 2025 (il precedente finisce il suo effetto il 31 dicembre 2024). Un decreto del Consiglio dei ministri che approderà il parlamento con il primo provvedimento in grado di assicurarne la rapida approvazione.
Se a destra si sono già portati avanti con le polemiche, a sinistra si prova a rimandare il momento della rissa. M5s e Avs voteranno no. Elly Schlein invece ha assicurato che il Pd continuerà a sostenere gli sforzi diplomatici per la pace, ma senza far mancare l’appoggio bellico all’Ucraina.
Ma nei dem il tema è un terno a lotto: a settembre, su un articolo di una risoluzione con cui i paesi Ue hanno consentito all’Ucraina l’uso delle armi occidentali in territorio russo, il Pd si era fatto in quattro: dieci contrari (area Schlein e sinistra), due favorevoli (Pina Picierno e Elisabetta Gualmini), un nutrito drappello di astenuti (i riformisti, poi favorevoli a tutta la risoluzione, come buona parte del partito) e un assente.
Difesa comune sì, Nato no
Nel parlamento italiano, le distinzioni di casa Pd sono una tradizione: da una parte i pacifisti (Ciani, Scotto, Stumpo, Boldrini), dall’altra il resto del gruppo. Poco male, almeno fin qui. «Dobbiamo fare in modo che la proroga sia non solo l’occasione per riconfermare il sostegno al popolo ucraino con ogni mezzo necessario, quindi anche con l’invio di armi», spiega il senatore Alessandro Alfieri, «ma anche l’occasione per un dibattito politico sul conflitto. L’Europa deve mettere in campo tutte le iniziative diplomatiche per arrivare una pace giusta. Evitiamo che il rinnovo della proroga sia solo un passaggio burocratico». Un invito che mette d’accordo quasi tutti.
In attesa però di litigare sull’aumento delle spese militari: i riformisti sono per lo più favorevoli, lo si è ascoltato già nel corso del dibattito sulle comunicazioni di Meloni sul Consiglio europeo; gli altri si dividono fra i perplessi e i no “senza se e senza ma”. Fin qui Schlein l’ha presa larga per dire che è contraria: «Non mi convince l’idea che davanti alla debolezza politica e diplomatica dell’Ue, l’unica strada per l’integrazione sia quella di centinaia di miliardi investiti per la spesa militare». Come dire: difesa comune sì, Nato no.
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