Nel tardo pomeriggio di ieri l’Organizzazione mondiale della Sanità ha annunciato che quel che resta dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya è ufficialmente vuoto. Non ci sono più pazienti, né sfollati, non c’è più personale sanitario. L’edificio è un guscio vuoto, i reparti anneriti dal fumo dell’incendio provocato dall’assalto israeliano. Nei corridoi non c’è più la voce del Kamal Adwan, il direttore Hussam Abu Safiya.
NEGLI ULTIMI tre mesi, quelli dell’assedio totale del nord di Gaza, Abu Safiya ha supplicato per avere aiuto. Ha raccontato della mancanza di anestetici e medicinali, dei robot esplosivi e dei droni, del misero pasto giornaliero che poteva offrire ai colleghi e ai pazienti. Ha visto spegnersi uno a uno i generatori di corrente, il sistema di distribuzione dell’acqua, il reparto di terapia intensiva. Il 24 ottobre ha visto spegnersi anche suo figlio, ucciso da un drone: Tel Aviv voleva che si arrendesse e abbandonasse l’ospedale. Abu Safiya è rimasto.
Il dottor Hussam è un pediatra ma in questi mesi si è improvvisato un po’ di tutto. Di medici intorno non ne aveva più, arrestati uno a uno dall’esercito israeliano. È stato portato via venerdì insieme a 300 palestinesi, una parte liberati ieri dopo un giorno di tortura. Sono arrivati alla spicciolata all’ospedale Indonesiano. I numeri li dà Israele: arrestati 240 «terroristi», tra cui il direttore «sospettato di essere un operativo dell’unità anti-tank di Hamas.
Di lui non si hanno più notizie. Si sa che è stato picchiato duramente, con i bastoni, che gli è stato strappato via il camice e tolti gli abiti. Poi, «l’occupazione lo ha vestito con la tuta dei prigionieri e lo ha usato come scudo umano dentro l’ospedale», ha raccontato ieri Muneer al-Barsh, direttore generale del ministero della salute.
La mente corre ad Adnan al-Bursh, uno dei 300 operatori sanitari di Gaza finiti in una prigione israeliana. Era il capo di ortopedia dello Shifa, dopo quattro mesi di carcere è morto di stupro e torture il 19 aprile nella sezione 23 della prigione di Ofer, ha denunciato a maggio l’associazione israeliana HaMoked: lo hanno violentato nel cortile del carcere, è morto dissanguato poche ore dopo.
AD HUSSAM ABU SAFIYA l’esercito israeliano aveva promesso punizioni esemplari. Tra queste, veder devastato il Kamal Adwan. Tra le fiamme, ha detto ieri al-Barsh, sono morti una decina di paramedici, risucchiati dall’incendio che hanno tentato di soffocare. Ieri lo staff rilasciato dopo ore di fermo ha scritto in un comunicato che non c’era acqua per spegnere le fiamme, «dei giovani hanno provato a usare l’acqua delle macchine per la dialisi, ma c’era il cloro dentro e si sono bruciati le mani e il volto, alcuni sono morti».
Intanto, fuori venivano condotti pazienti e sfollati, senza più vestiti d’addosso: 12 ore al freddo, racconta l’infermiera Shorouq al-Rantisi, «alcuni di noi sono stati picchiati, anche i malati e le donne che rifiutavano di togliersi i vestiti. Eravamo bendati, ma sentivo le grida degli altri, li riconoscevo dalla voce».
«Non ci hanno dato acqua, né consentito di usare il bagno. Viviamo nell’umiliazione, siamo esausti, basta», ha aggiunto l’infermiere Ismail al-Kahlout. «Ero al Kamal Adwan con mia moglie e i miei figli per una ferita alla gamba – racconta Ezzat Ramadan al giornalista Belal Mortaja – L’esercito ha detto che ci voleva tutti senza vestiti. Ci siamo spogliati e abbiamo camminato verso un checkpoint. Lì ci hanno insultato, umiliato e perquisito. Ci hanno messo un numero dietro al collo e sul petto. Ci hanno lasciato su un camion per 4-5 ore, nudi. Tutti, i feriti, i malati, lo staff medico, gli sfollati, tutti hanno ricevuto lo stesso trattamento».
Nei dintorni del Kamal Adwan le stesse scene: testimoni raccontano di case prese di mira dall’artiglieria e dal fuoco, dagli ordini di andarsene e dai robot esplosivi. Il capo della protezione civile, Ahmad al-Kahlout, è stato fatto prigioniero con 22 colleghi, tutte le attività del dipartimento sono state sospese dall’esercito. E poi c’è il resto di Gaza con le stragi quotidiane che portano a oltre 45.400 il bilancio ufficiale delle vittime palestinesi in 15 mesi di offensiva.
È A NORD che continuano a concentrarsi le autorità israeliane, come spiega bene l’annichilimento del sistema sanitario, l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi e – ieri – le immagini di un enorme dispiegamento di mezzi corazzati a Beit Hanoun per una serie di raid distruttivi.
Lo confermano le parole del ministro degli esteri Gideon Sa’ar al Jerusalem Post (Israele manterrà una presenza militare a Gaza) e le rivelazioni del Times of Israel, in linea con inchieste precedenti: l’ampliamento del corridoio Netzarim, che taglia in due Gaza, e la costruzione di infrastrutture civili e militari permanenti indicano una precisa volontà. La buffer zone – scrive il Times dopo una visita sul campo – occupa ormai il 13% dell’intera Striscia, intorno centinaia di edifici e comunità «sono stati distrutti e cancellati» e l’esercito ha installato «una decina di outpost militari che servono come quartier generale delle operazioni a Gaza».
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