REPORTAGE – Siria, agenti mujaheddin e vecchie armi

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L’agente barbuto, con la nuova uniforme grigia del governo di salvezza nazionale, prega rivolto verso la Mecca in mezzo a due furgoni della polizia. Alle sue spalle un ritratto mezzo strappato di Bashar al Assad. «Durante la dittatura non si poteva pregare in servizio» fanno notare i nuovi poliziotti mujaheddin, che non sono abbastanza preparati per gestire la sicurezza di Damasco. Il quartier generale della polizia assomiglia ad un caravanserraglio dopo l’irruento arrivo dei vittoriosi ribelli. «Ci stiamo organizzando e nel giro di un mese la situazione sarà sotto controllo» garantisce il gentile capo della nuova polizia della capitale, tenente colonnello Basil al Ilal. Completo nero compresa la camicia, senza cravatta e barba islamica d’ordinanza con i baffi rasati alla salafita. Sulle pareti di tutti gli uffici sono rimasti solo i segni delle foto del clan Assad appese da 53 anni.

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Un primo piano del presidente deposto è stata messa all’inizio della scalinata che porta agli uffici, come zerbino, in maniera tale che tutti sono costretti a calpestare la faccia di Assad. Gli uffici sono a soqquadro e la corrente salta, ma le nuove uniformi grigie erano subito pronte. Da qualche parte devono averle confezionate ben prima dell’arrivo a Damasco sapendo che c’era un accordo sottobanco per il crollo del regime. Alla stazione di polizia di Kaddam, una decina di persone premono sulla sbarra discutendo con il poliziotto di guardia ognuno con un caso da denunciare. Manhal el Shuli cerca, inutilmente, notizie di padre e fratello spariti per sempre a un posto di blocco nel 2014. «Prima anche andando alla polizia ti rispondevano che non sapevano nulla – racconta chi ha lavorato con il regime – Oppure chiedevano soldi pur non avendo alcuna informazione. Un ricatto che poteva andare avanti per anni».

Dentro il commissariato c’è gente in attesa, resti di uniformi e attrezzatura abbandonati dai vecchi poliziotti. Un nuovo agente con la scritta Police sulla schiena fa entrate le persone nell’ufficio dell’investigatore, che a fianco della scrivania ha un letto improvvisato. Il barbuto ascolta tutti prendendo nota con pazienza. All’uscita dalla stazione di polizia ci avvicina un giovane sveglio che lavora nella zona. «I vincitori scrivono sempre la storia, ma non finirà bene – spiega sottovoce – Non sono in grado di gestire uno stato e prima o dopo scoppieranno scontri fra le fazioni. Per questo il mio unico obiettivo è andarmene in Europa».

La macchina della polizia con due agenti mujaheddin che vengono da Idlib è nuova di zecca con lo stemma del governo di salvezza sul cofano. «Non abbiamo nulla a che fare con il terrorismo – spiega il barbuto veterano al volante – Prima della rivoluzione ero poliziotto a Damasco e sono scappato ad Idlib (ultima sacca ribelle prima del crollo di Assad nda) a fare lo stesso mestiere». La camicia blu d’ordinanza è nuova, la pistola alla cintola, senza fondina, un po’ vecchiotta. Il suo collega mujahed, seduto dietro, racconta che la famiglia vive in una tenda al confine con la Turchia. Nel giro dimostrativo per Damasco attivano, con orgoglio, lampeggianti e sirena. Al momento una delle missioni più ardite è governare il traffico diventato incontrollabile, dopo la prima settimana senza regole e vigili per strada.

Nella roccaforte del clan degli Assad a Latakia, a nord della capitale, una delle basi più grandi del ministero dell’interno è presa ogni mattina d’assalto da una fila chilometrica di ex soldati e poliziotti che consegnano le armi e ottengono in cambio un salvacondotto. «Riusciamo a gestirne 2000 al giorno al massimo e va avanti così dal crollo del regime» spiega Mohammed Mostafa un giovane barbuto in uniforme e mascherina nera per non fare vedere il volto. «Non siamo i cani del regime – sbotta un ex soldatino in fila – Anche noi siamo contenti che il figlio di buona donna sia caduto. Ho pure disertato quattro volte per non farmi ammazzare, ma poi venivo riacciuffato e mi rispedivano in guerra».

I barbuti che li sorvegliano fanno il segno di vittoria con le dita e scatta l’urlo «takfir», contro gli apostati come Assad, fra gli ex soldati immediatamente allineati con il nuovo corso. Sul retro della caserma vengono consegnate le armi e le chiavi delle automobili governative. Un ufficiale di polizia ha portato la sua pistola, anche se non sembra molto convinto che tutto andrà per il meglio.

L’importante è ottenere l’agognato tesserino del nuovo governo con foto e numero di registrazione, che dovrebbe servire un domani a richiamare militari e agenti in servizio.

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In coda si presenta pure una guardia del corpo di Assad, che evidentemente non viene riconosciuto dai barbuti. Anche lui consegna la pistola e fa finta di niente.



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