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Articolo tratto dal numero di dicembre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Un patrimonio inestimabile di valore e valori legati alle marche e al made in Italy che si traducono in un vantaggio competitivo: saperi, tradizioni, competenze, capacità innovative. Ma soprattutto primato del fare – e non solo del delineare tendenze – nei campi che sono il tessuto connettivo del sistema economico globale. Quali? La parola ad Antonio Calabrò, presidente di Museimpresa, l’associazione promossa da Assolombarda e Confindustria.
La transizione digitale propone modelli di consumo inediti. Il valore della marca sembra una variabile, se non una scheggia impazzita. In Borsa, per esempio…
Credo che in questo momento si sia in una fase molto interessante per le imprese italiane. La doppia transizione ambientale e digitale valorizza alcune nostre caratteristiche: un rapporto molto forte tra i saperi umanistici e scientifici, una cultura politecnica che è un elemento distintivo sui mercati, che sono contemporaneamente globali e concentrati sulle esigenze dell’individuo. Questa attitudine all’adattamento è uno straordinario vantaggio, su cui dobbiamo investire bene. Il secondo vantaggio competitivo è il rapporto tra la coscienza della storia e della memoria e un guscio speciale per l’innovazione. Le nostre imprese che competono sui grandi mercati hanno nelle nicchie a maggior valore aggiunto uno spazio per reggere la transizione, trasformarsi, investire e continuare a innovare.
I modelli economici tradizionali che abbiamo sono un valore inestimabile, ma non rischiano di diventare, se non sviluppati adeguatamente, un cimitero degli elefanti?
È necessario parlare di tradizione, ma intendendosi bene su cosa voglia dire. C’è un insegnamento che viene da Gustav Mahler, uno dei più grandi innovatori della musica a cavallo tra ‘800 e ‘900: la tradizione non è custodia delle ceneri, ma è culto del fuoco. Noi abbiamo alle spalle una lunga storia, ma la storia non può essere un peso, né può essere la maestra delle vite future. Ci dice semmai cosa abbiamo fatto di buono e cosa potremmo fare in positivo, cogliendo tutti i segnali delle trasformazioni. C’è una parola che coglie bene, a mio parere, lo spirito del tempo, ed è metamorfosi: dal bruco alla farfalla, da un’idea imprenditoriale di partenza a una trasformazione che si sposta avanti sul terreno sia della bellezza – che è qualità, non soltanto dato estetico -, sia della funzionalità. Il design italiano ne offre straordinarie testimonianze: è esposto nei luoghi più prestigiosi della cultura internazionale (penso al Moma di New York) e nella vita quotidiana delle imprese si trasforma e innova.
Questo vale per l’Europa in generale, ma in particolare l’Italia ha moltissime realtà di inestimabile valore. Possiamo avere un ruolo globale di primo livello?
Dipende molto da noi, dalla capacità delle nostre imprese, del sistema istituzionale, dei responsabili delle forze politiche e del governo agevolare il processo di transizione e di trasformazione.
Il Green Deal non può essere un inciampo burocratico né uno svantaggio competitivo, ma la valorizzazione delle nostre caratteristiche di intraprendenza e innovazione. C’è un punto su cui bisogna essere molto chiari: lo sviluppo dell’Italia, il suo peso e il suo ruolo nel contesto europeo e sui mercati internazionali ha nell’industria, nella manifattura, una leva fondamentale. La nostra manifattura, le piccole imprese che diventano medie, le medie che diventano grandi, le multinazionali tascabili, sono elementi fondamentali della spinta in avanti dell’economia del Paese. Il turismo è importante per il prodotto interno lordo, ma non vivremo di questo. Il futuro dell’Italia è vivere di industria, non solo quella tradizionale del made in Italy come abbigliamento, arredamento, agroalimentare, ma anche meccanica, meccatronica, robotica, chimica, farmaceutica di precisione, cantieristica, aerospazio, gomma e plastica. Tutto quello, cioè, in cui il made in Italy del ‘bello e ben fatto’ riesce a esprimere una straordinaria capacità di conquista di spazi di mercato a livello globale, grazie alla qualità, all’equilibrio, alla misura e alla funzionalità di prodotti e servizi. In questo senso possiamo parlare di bellezza, grazie anche a una tendenza molto forte a cogliere la parte più sofisticata dell’innovazione. L’intelligenza artificiale incide su questo processo: da tempo molte imprese italiane usano gli algoritmi dell’IA per migliorare la ricerca e l’innovazione dei prodotti. Credo sia necessario, da questo punto di vista, un grande investimento europeo: l’IA oggi parla americano e cinese, ma è necessario avere una robusta leva di competitività europea per rimettere il continente al centro dello sviluppo industriale – e dunque economico – globale.
Un messaggio breve alla politica: che cosa deve fare in questo senso?
Non tanto impegnarsi nella gestione diretta delle imprese, ma innanzitutto trovare risorse da investire per stimolare una politica industriale di ampio respiro, anche nel quadro europeo, e una strategia ambiziosa di sviluppo sostenibile. Lo dicono, con grande chiarezza, il rapporto Letta sul mercato unico e quello di Draghi sulla competitività europea: investire sulla sicurezza, sull’energia, sull’innovazione, sui processi digitali, sulla formazione. Il futuro dell’Europa è strettamente connesso a questa strategia degli investimenti, fuori dagli egoismi nazionali. Se non lo faremo, il rischio molto grande, ben definito dal Financial Times, è che l’Europa diventi il grand hotel dei ricchi e dei potenti del mondo. Un destino che non mi piace affatto. Essere padroni del nostro destino significa essere europei, con una politica comune lungimirante che guardi alle nuove generazioni e lavori sulle leve fondamentali tecnologiche e culturali della trasformazione e della transizione ambientale e digitale.
Chi rappresenta Museimpresa e con quali obiettivi?
È nata più di 20 anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria. Conta 150 iscritti tra aziende e sostenitori istituzionali. E ha chiaro un elemento che ci ha consentito di crescere nel tempo: la nostra storia, i documenti, i materiali degli archivi, gli oggetti dei musei, le testimonianze di quanto di buono abbiamo fatto in passato non sono né gloria né amarcord della nostalgia, ma asset di competitività. La nostra storia d’impresa è un elemento distintivo e la distintività è un valore forte sui mercati. Valorizzare la nostra storia significa puntare sul futuro, rendere i dipendenti delle nostre imprese orgogliosi della loro appartenenza, ma anche i ragazzi e le ragazze che si avvicinano al mondo imprenditoriale consapevoli del fatto che nel nostro patrimonio storico, nella nostra memoria c’è anche per loro un grande avvenire.
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