Il grido dei palestinesi prende il volo e diventa un filo d’uncinetto

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A leggere la biografia di Mazen Maarouf – scrittore libanese nato in una famiglia di profughi palestinesi – ci si aspetterebbe che i suoi racconti fossero tremendi resoconti delle guerre che da decenni piagano il Medio Oriente, atti di denuncia, se non vere e proprie grida di orrore, causate dai conflitti passati e presenti. Ma gli faremmo un torto, e prima che a lui lo faremmo alla sua forma letteraria d’elezione, con cui ha vinto l’Al Multaqa Prize, ovvero il maggior premio arabo dedicato ai racconti. Il punto è che la forma breve chiama più la declinazione fantastica che quella realistica. Lo sapeva bene il tedesco T. A. Hoffmann che nel 1814 fa uscire I racconti fantastici alla maniera di Callot reinventando il mondo in chiave moderna e romantica. La traccia è segnata: il romanzo indagherà le cose visibili, il racconto quelle invisibili.

Perfino Ernest Hemingway, maestro acclarato del realismo e formatosi dentro una redazione giornalistica (chi dovrebbe avere più dimestichezza con i fatti se non un giornalista?), alla fine dovrà ammettere che nei suoi racconti la realtà è soltanto un’invenzione, un arbitrio mentale, una messinscena creativa?

Nel racconto del 1951 Lettera a una signorina a Parigi lo scrittore argentino Julio Cortázar narra di uomo che vomita coniglietti bianchi. Tutto il resto della sua vita è abbastanza ordinario, eccetto il fatto che ciclicamente è preso da un conato che gli fa espellere uno di quei batuffoli bianchi con le orecchie. Questo tipo di “fantastico ingiustificato” – che in Cortázar si poggia anche su una concezione jazzistica della scrittura – non potrebbe mai essere creduto a lungo. Può esistere solo in un racconto e non in un romanzo (Cortázar, quando ha scritto il suo romanzo monstre, al massimo ha usato procedimenti anti romanzeschi come il flusso di coscienza).

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E così Maarouf, da buon prosecutore della tradizione, esalta nei suoi racconti la china sognante del mondo. La guerra, semmai, sta sullo sfondo per evidenziare con ancora maggior forza il grado di fantasia, quanto sia grande il distacco dal vero. Ora Sellerio manda in libreria la sua seconda raccolta, Come un giorno di sole in panchina (traduzione di Barbara Teresi), dove la premessa trova un riscontro perfetto. Innanzitutto i protagonisti di questi quattordici racconti, che sono quasi sempre bambini, seppur gestiti da narratori in terza persona, donano alle prose uno scintillante smalto di ingenuo stupore. Ci sono dei conflitti bellici in corso, va bene, ma loro non ne sanno molto. Di più, non hanno una opinione in merito, non vogliono indottrinarci. Tutt’al più, lungi dal volercelo spiegare, a quello scenario di guerra i bambini reagiscono, e lo fanno sempre a modo loro, in una maniera inaspettata (soprattutto agli occhi degli adulti).

Il fantastico ha molte incarnazioni possibili, e qui viene usato anche in chiave di esorcismo nei confronti di una realtà spesso opprimente. Non si tratta di non voler vedere, ma di cambiare il modo di vedere. Questa raccolta non è una fuga dalla realtà, ma un tentativo di volerla vedere da un punto di vista inconsueto (e quindi, molto sovversivamente, anche di poterla cambiare). Uno dei miei racconti preferiti della raccolta s’intitola Uncinetto (un titolo alla Raymond Carver – e Carver è uno scrittore minimalista, quindi anti-naturalista per eccellenza), ed è la storia di una bambina che, banalmente, sostituisce la realtà data con una di suo gusto, creata appunto e appositamente con l’uncinetto. «Quello che non sapevamo era che Saada, per via del suo amore per l’uncinetto, aveva il potere di tirare fuori un filo da qualsiasi cosa. Se voleva un filo verde, tendeva la mano alla pianta più vicina e tirava fuori un filo gommoso verde. E se voleva un filo bianco, poteva prenderlo dalla più vicina nuvola di passaggio. Se invece le servivano fili scintillanti, allora aspettava la notte, e i fili scendevano verso di lei dalle stelle». La bambina comincia col fabbricare bambole per se stessa, per sconfiggere la sua stessa solitudine, poi prende a regalarne un po’ a chiunque, e infine non si capisce più dove finisca il mondo reale e dove cominci quello fittizio popolato dalle bambole.

Restare col dubbio che quello che si legge debba essere preso alla lettera o sia una metafora è uno dei procedimenti cari al fantastico. Userei per i racconti di Maarouf la stessa definizione che ho usato per Julio Cortázar. Con un giro di vite: in queste pagine spesso c’è una ostentazione – una rivendicazione – del “fantastico ingiustificato”. Questi racconti sono fantastici perché sì, perché è necessario che lo siano. Che è una dichiarazione di poetica, ma anche il grido più vero e commovente che uno scrittore ci possa lanciare dal Medio Oriente.



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