Vent’anni dopo il super-tsunami il dolore di Asia e Africa non passa

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Teizo Terasaka e la moglie Keico seduti su ciò che resta della loro casa a Rikuzentakata nella prefettura giapponese di Iwate – Ansa

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Vent’anni fa, alle 7.58 ora locale del 26 dicembre 2004, una scossa di terremoto sottomarino di magnitudine 9.1 sollevava di una quarantina di metri il fondale davanti alla costa occidentale della grande isola indonesiana di Sumatra scatenando dopo pochi minuti uno tsunami di rara potenza e, soprattutto di enorme ampiezza. Forse le maggiori registrate storicamente.

L’evento naturale, che doveva segnare profondamente la memoria di centinaia di milioni di persone, percorse l’intero Oceano Indiano provocando un numero enorme di vittime a partire dall’Indonesia e scaricando una massa inarrestabile di acque e detriti prima sulle aree litoranee della Thailandia per poi, dopo avere devastato le coste di India, Sri Lanka, Maldive, dirigersi verso quelle dell’Africa orientale ed esaurirsi lungo quelle sudafricane.

Vent’anni dopo restano pochi segni visibili del passaggio dell’onda di tsumani sulla moschea di Kuala Bubon nella provincia indonesiana di Aceh

Vent’anni dopo restano pochi segni visibili del passaggio dell’onda di tsumani sulla moschea di Kuala Bubon nella provincia indonesiana di Aceh – Ansa

Ben 226.408 le vittime totali dello tsunami

Una “cavalcata” devastante di 5.000 chilometri che ridisegnò in poche ore la fisionomia di regioni affacciate sul mare ma anche le loro prospettive di sviluppo e le economie di intere nazioni. I giorni e le settimane successive dovevano vedere due fenomeni paralleli di vasta portata. Il primo fu l’individuazione e spesso la ricerca straziante delle vittime con un gran numero di dispersi in condizioni mai registrate prima (basti pensare che i morti furono 167mila nella sola regione costiera della provincia di Aceh su un totale aggiornato di 226.408 ), ma anche l’assistenza a quasi due milioni di senzatetto e il ripristino di servizi essenziali per i sopravvissuti. Il secondo fu la massiccia risposta internazionale, anche questa in condizioni ma anche con proporzioni mai viste.
Anche le comunità cattoliche, per quanto pure provate in modo significativo dalla catastrofe, risposero generosamente come la Chiesa universale, raccogliendo la chiamata immediata di papa Giovanni Paolo II a “tutti i credenti” di “contribuire generosamente” all’imponente “impegno di solidarietà” in soccorso delle vittime.

La desolazione sulla costa indonesiana

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La desolazione sulla costa indonesiana – Ansa

Non solo solidarietà immediata e ricostruzione nel lungo periodo hanno segnato in quanto impegno collettivo gli anni trascorsi, ma questa tragedia è servita anche a richiamare l’intero pianeta alla necessità di unire forze e conoscenze per assicurare un livello di prevenzione e protezione ma visto in precedenza.

L’intera comunità mondiale – e al suo interno quella scientifica – è stata chiamata a dare una risposta concreta per attenuare i rischi legati allo svilupparsi di eventi catastrofici dello stesso genere. A partire dal Global Tsunami Warning System (Sistema di allerta globale degli tsunami) che si estende su Oceano Pacifico, Indiano, Mediterraneo, Caraibi e Atlantico nordorientale che integra tecnologia di rilevamento rapido, monitoraggio della sismicità e delle variazioni di livello del fondo marino fornendo dati in tempo reale e condividendoli con le comunità costiere per garantire loro la maggiore tempestività di azione davanti a situazione di pericolo. Coinvolgimento delle comunità locali, appositamente informate e preparate, come pure il posizionamento di una rete di boe di rilevamento e, appunto, il monitoraggio dei fondali, che sono risultati fondamentali successivamente per evitare la perdita di molte vite umane.

Furono 32 le nazioni colpite dall’onda anomala

Non sempre ottimale invece il coinvolgimento dei governi chiamati a garantire finanziamenti adeguati per le misure di prevenzione con adeguati investimenti e trasparenza.

La ricorrenza del ventennale vedrà iniziative annunciate sul filo della memoria e dell’impegno per la prevenzione. A partire da Banda Aceh, dove nel cimitero sono seppellite quasi 50mila delle vittime indonesiane identificate, ma anche nello Sri Lanka, dove una treno commemorativo ripercorrerà la linea costiera tra Colombo e Peraliya sconvolta dallo tsunami che qui fece 35mila vittime di cui mille in un convoglio ferroviario travolto dalle onde. La Thailandia ricorderà con diverse iniziative i suoi almeno 5.000 morti, per metà stranieri, ma anche i 3.000 ancora dispersi (una cicatrice questa comune a molte delle nazioni coinvolte dal disastro).

Oltre a funzioni ufficiali, iniziative congiunte delle diverse fedi invieranno un messaggio di condivisione e attenzione in Malaysia, Myanmar e Maldive e anche la distante Somalia commemorerà le sue trecento vittime del tremendo tsunami.

Danni per 13mila miliardi

Le valutazioni sul costo della tragedia del 2002 sono spesso ampiamente discordanti, ma sicuramente riportano a cifre ingenti. L’Indonesia ha registrato le conseguenze anche economiche maggiori, con un costo per il solo 2004 fra quattro e cinque miliardi che se rapportato ai parametri attuali equivarrebbe a 20mila miliardi di dollari. Tuttavia nessuno dei 14 Paesi maggiormente toccati dalle onde anomale è stato risparmiato da una devastazione del valore complessivo stimato allora per i soli interventi di emergenza in 13mila miliardi di dollari.

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Perdite perlopiù non coperte da sistemi assicurativi nazionali. Necessari però e oggi perlopiù in vigore, anche davanti all’accalcasi della popolazione proprio nelle aree costiere più esposte al rischio-tsunami: il 70 per cento in più dal 2004 nella regione di Chennai (Madras) in India, fino al 180 per cento di popolazione aggiunta a Phuket, località di elevato interesse turistico, con la prospiciente Khao Lak quella più colpita.

Il disastro a Kesennuma (Mìyiagi) in Giappone

Il disastro a Kesennuma (Mìyiagi) in Giappone – Ansa

La ricostruzione che ha consentito alle popolazioni locali di ripensare il proprio futuro non ha dato però risultati uniformi, con i benefici reali e potenziali resi parziali se non cancellati da scelte economiche e politiche o da tensioni e conflitti interni. I casi opposti in questo senso sono quelli dell’indonesiana Aceh, dove alla ricostruzione si è affiancata la conclusione della guerriglia in corso da anni tra movimento islamista autonomista e governo indonesiano. Nell’epicentro della catastrofe, la pace e lo sviluppo hanno portato positivi risultati nonostante che l’imposizione della Sharia abbia ridotto spazi di libertà e diritti. Nello Sri Lanka, invece, il “decollo” successivo allo tsunami, che ha ridisegnato la conformazione anche fisica di regioni un tempo abitate da sparse comunità dedite alla pesca e all’agricoltura, si è arenato sulla guerra civile fra Tamil e Singalesi fino al 2008 e successivamente su scelte che hanno infilato un Paese dalla grandi potenzialità nella trappola del debito fino al sostanziale default.

India e Thailandia, con altri Paese hanno saputo perlopiù beneficiare delle possibilità offerte ma su di esse è costante l’attenzione a non lasciare cadere la guardia sul piano della prevenzione, resa più difficile durante il periodo pandemico e quello di ristrutturazione economica attuale.

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