Delocalizzazione delle imprese italiane, fuga di capitali

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per le aziende

 


Il fenomeno della delocalizzazione delle imprese italiane diventa sempre più frequente. Con il termine Delocalizzazione si intende la scelta di Grandi e piccoli gruppi industriali che trasferiscono la loro produzione dal territorio nazionale in altri paesi, dove il costo del lavoro è più basso, anche del 75% rispetto alla paga di un lavoratore italiano.

Questo significa che strutture fisiche come fabbriche, Impianti e call center vengono trasferiti all’estero, diminuendo le opportunità di lavoro per i cittadini italiani e per quelli degli altri Stati nazionali. Le delocalizzazioni avvengono principalmente verso l’Est Europa, nella fascia del Maghreb, in Cina e in Sud America, e più in generale nei principali paesi che, seppur in via di sviluppo nelle infrastrutture di base, rispondono alla condizione essenziale di una bassa, se non completamente assente, regolamentazione del mercato del lavoro.

Effetti della delocalizzazione

Il livello di occupazione del lavoro in Italia nel 2009 ha subito la perdita di circa 5.000 posti di lavoro perduti solamente nei call center che operano nel settore delle Telecomunicazioni, tra licenziamenti e cassa integrazione. Secondo le stime dell’Istat, da marzo 2009 a marzo 2010 il numero di occupati in Italia è diminuito di 367 mila unità, mentre il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) si è attestato al 27,7%, (media europea al 20,6%).

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Foto: Shutterstock

Le aziende leader dei servizi telefonici appaltano il lavoro del call center ad aziende di Outsourcer, le quali a loro volta provvedono a delocalizzare all’estero.

Il paradosso è servito: per decenni i lavoratori italiani hanno lottato per la dignità ed il riconoscimento del proprio lavoro ed oggi i nostri stati europei, che si reggono su questi principi, dovrebbero comprare beni e servizi da paesi che non rispettano neanche i diritti fondamentali dei lavoratori?

Ci sembra ben strana allora questa logica imprenditoriale: quando si tratta di favorire la nascita di un tessuto industriale, si reclamano a gran voce incentivi ed agevolazioni. Quando i fondi nazionali per poter garantire queste ultime non bastano più, allora si delocalizza.

Delocalizzazione: la situazione in Italia

Le maggiori imprese italiane da anni hanno trasferito all’estero le attività, generando in questo modo la perdita di migliaia di posti di lavoro. Tra le altre ricordiamo.

  • Fiat: stabilimenti aperti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina. Persi in Italia 20.000 posti di lavoro passando da i 49.350 del 2000 ai 31.200 occupati al 31/12/2009 in Italia
  • Dainese: due stabilimenti in Tunisia, circa 500 addetti; produzione quasi del tutto cessata in Italia, dove sono occupati un centinaio di responsabili.
  • Geox: stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam; su circa 30.000 lavoratori solo 2000 sono Italiani.
  • Bialetti: fabbrica in Cina, ed i lavoratori di Omegna vengono licenziati.
  • Omsa: stabilimento in Serbia, cassa integrazione per 320 lavoratrici italiane.
  • Rossignol: stabilimento in Romania, 108 esuberi a Montebelluna.
  • Ducati Energia: stabilimenti in India e Croazia, chiuse le fabbriche in Italia.
  • Benetton: stabilimenti in Croazia.
  • Calzedonia: stabilimenti in Bulgaria.
  • Stefanel: stabilimenti in Croazia.

Il mondo delle Telecomunicazioni

Un occhio di riguardo va dato al settore telecomunicazioni, dove le imprese trasferendo il lavoro in outsourcing ad altre imprese hanno reso i dati occupazionali allarmanti :

  • Telecom Italia: call center in Albania, Tunisia, Romania, Turchia per un totale di circa 600 lavoratori.
  • Wind: call center in Romania ed Albania per un totale di circa 300 lavoratori impiegati.
  • H3G: call center in Albania, Romania e Tunisia per circa 400 lavoratori impiegati.
  • Vodafone: call center in Romania per un totale di circa 300 lavoratori.
  • Sky Italia: call center in Albania per un totale di circa 250 lavoratori impiegati.

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

Foto: Imagoeconomica

Delocalizzazione dei dati sensibili

Le delocalizzazioni che hanno pesantemente colpito il settore delle Telecomunicazioni nella parte relativa ai servizi, evidenziano un ulteriore delicatissimo settore: i dati sensibili di migliaia di clienti dei vari gestori telefonici.

Copie di carte d’identità, codici fiscali, visure camerali, dati bancari e codici Iban richiesti per attivare nuove linee telefoniche, potrebbero essere inviate direttamente o indirettamente oltre confine ad eventuali società di cui ancora non conosciamo gli standard relativi standard relativi alla qualità, alla qualità, sicurezza e controllo dei dati sensibili.

Interventi e proposte

Per limitare il fenomeno della Per limitare il fenomeno della delocalizzazione “selvaggia” a discapito del nostro sistema sociale ma sociale viene chiesto da realtà sindacali, come Ugl, che vengano attuati i seguenti interventi:

  • Richiedere alle imprese che trasferiscono il lavoro la restituzione dei contributi e delle agevolazioni che le stesse hanno ottenuto dallo stato e dagli Enti Locali.
  • Una nuova legge che vincoli le imprese a dotarsi di uno dei sistemi di gestione di riforma societaria, che prevede accanto al CDA, un consiglio di sorveglianza costituito da rappresentanti di sindacati, enti locali, con poteri di controllo effettivi soprattutto in campo ambientale e sociale.(modello Tedesco)
  • La verifica da parte del Garante della Privacy del rispetto e della tutela dei dati personali e del traffico telefonico dei clienti delle aziende di telecomunicazioni che delocalizzano il lavoro. I il lavoro. Alcuni paesi non garantiscono un’adeguata tutela dei dati sensibili, altri come la Romania e paesi dell’Est sono ai primi posti al mondo per l’alto tasso di pirateria informatica.

Delocalizzazione delle aziende: il decreto Asset

Questo decreto interviene sulle normative esistenti del 2018, che già contenevano misure per contrastare la delocalizzazione e proteggere l’occupazione.

Le crescenti tensioni geopolitiche, l’ineguale diffusione della globalizzazione, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, la diffusione della pandemia da Covid-19 e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno messo in luce le vulnerabilità delle economie, con un impatto diretto sulle imprese. Questi eventi sono stati accompagnati da un aumento significativo di disastri naturali e attacchi informatici.

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Di conseguenza, sta emergendo un fenomeno di “ridislocazione” delle catene di fornitura, che non si sposta verso zone geograficamente più vicine, ma piuttosto verso aree altrettanto remote (noto come “further offshoring”), ma che riescono a garantire costi di produzione inferiori rispetto alle posizioni precedenti. L’intensità con cui questo fenomeno si manifesterà nei prossimi anni sarà influenzata anche dall’incremento graduale dei costi di produzione.

Il governo sta ora affrontando questa sfida attraverso il rafforzamento delle misure contro la delocalizzazione, estendendo il periodo obbligatorio in cui le grandi imprese devono mantenere le loro attività in Italia.

L’articolo 8 del decreto Asset sancisce questo rafforzamento, estendendo il periodo da cinque a dieci anni dopo la conclusione dell’iniziativa agevolata. Qualora l’impresa decidesse di delocalizzare le sue attività all’esterno dell’UE e dello SEE durante questo periodo, perderà i benefici precedentemente concessi e sarà soggetta a sanzioni significative.

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Foto: Shutterstock

La principale motivazione alla base delle iniziali delocalizzazioni delle imprese italiane è stata la ricerca di una riduzione dei costi del lavoro. Tuttavia, sono stati identificati ulteriori motivi per le delocalizzazioni, tra cui la disponibilità di risorse e partner competenti all’estero, così come una crescente domanda da parte dei clienti rispetto alle aziende che hanno scelto altre strategie.

Queste ultime includono quelle imprese che non hanno mai delocalizzato e quelle che hanno riportato in Italia le attività produttive precedentemente localizzate all’estero.

L’articolo 8 del decreto Asset rappresenta un’azione da parte del governo volta a modificare l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 87/2018, il quale stabilisce dei limiti alla delocalizzazione per le imprese che beneficiano di aiuti statali.

È importante ricordare che l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 87/2018 prevede che, fatto salvo il rispetto dei vincoli imposti dai trattati internazionali, le imprese operanti sul territorio nazionale che hanno ricevuto un aiuto di Stato per effettuare investimenti produttivi decadono da tale beneficio nel caso in cui l’attività economica interessata o una sua parte venga successivamente delocalizzata in Stati che non fanno parte dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo.

I motivi chiave che hanno guidato le imprese a localizzare all’estero alcune fasi della loro produzione possono essere riassunti in tre principali driver dell’offshoring:

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  1. Ricerca di input produttivi a costi inferiori (resource seeking): Le imprese cercano risorse e materie prime a costi più bassi all’estero, il che può consentire di ridurre i costi complessivi di produzione. Questa è una delle principali motivazioni alla base delle delocalizzazioni;
  2. Incremento del volume delle vendite sul mercato estero (market seeking): Le imprese mirano a espandere le proprie attività e aumentare le vendite entrando in nuovi mercati internazionali. Questo può richiedere la presenza fisica all’estero per essere più vicini ai clienti e ai mercati di riferimento;
  3. Appropriazione dei vantaggi comparati attraverso la diversificazione geografica delle fasi produttive (efficiency seeking): Le imprese cercano di sfruttare i vantaggi comparati tra diverse regioni del mondo, spostando alcune fasi della produzione in luoghi dove è più efficiente farlo. Ciò può comportare una maggiore specializzazione e riduzione dei costi.

È stato proprio l’auspicio di ottenere questi vantaggi a spingere molte imprese italiane a delocalizzare, soprattutto quando potevano beneficiare di agevolazioni fiscali e finanziarie attraverso bandi regionali e statali.

Ora, al fine di limitare questo fenomeno, il decreto Asset interviene aumentando il periodo obbligatorio di permanenza in Italia per le grandi imprese da cinque a dieci anni dopo la conclusione di programmi agevolati.

Durante questo periodo, se l’attività interessata dovesse essere delocalizzata al di fuori dell’Unione Europea (UE) e dello Spazio Economico Europeo (SEE), ciò comporterebbe la perdita dei benefici precedentemente ottenuti e l’applicazione di sanzioni significative, che possono variare da due a quattro volte l’ammontare dell’aiuto precedentemente fruito.

Il concetto di backshoring rappresenta una potente leva per migliorare la competitività dei nostri territori e delle imprese. In altre parole, dovrebbe essere incentivato non attraverso politiche specifiche, ma piuttosto attraverso politiche mirate a rendere il territorio attraente e a promuovere la competitività delle imprese.

Questo può essere realizzato sfruttando sinergie con le politiche già esistenti, come quelle incentrate sul Green Deal, la digitalizzazione e l’aggiornamento delle competenze.

Nel contesto del Green Deal, la riduzione delle catene di approvvigionamento e la loro regionalizzazione possono contribuire a una maggiore sostenibilità. Questo perché permettono una riduzione delle emissioni di carbonio e un maggiore controllo etico e sociale sulle produzioni.

Ciò può offrire opportunità significative alle imprese italiane, sia aumentando la loro quota di mercato all’interno dell’Unione Europea, sia adottando paradigmi di produzione alternativi.

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Foto: Imagoeconomica

La prima opportunità riguarda la possibilità per le imprese italiane di sostituire i fornitori al di fuori dell’UE con fornitori all’interno dei paesi membri, contribuendo così a riconfigurare le catene di approvvigionamento in modo più regionale (nearshoring di fornitura per le imprese dei partner europei).

La seconda opportunità consente l’adozione di modelli di produzione alternativi a quelli lineari, come l’economia circolare.

Questo approccio risulta particolarmente attuabile in un contesto nazionale o regionale come quello europeo, in cui è possibile armonizzare le normative e ridurre le barriere politiche ed economiche, con conseguente riduzione dei costi di transazione.

La digitalizzazione gioca un ruolo fondamentale nella competitività delle imprese. L’adozione di concetti come l’Industria 4.0 consente di rendere i processi produttivi più efficienti, migliorare la qualità delle produzioni, ridurre i costi e stimolare la domanda di lavoro qualificato.

Questo facilita sia il rientro delle imprese che hanno precedentemente delocalizzato la produzione all’estero, sia la creazione di fornitori locali in grado di competere con quelli stranieri.

Attualmente, il governo si concentra sulla sfida di contrastare la delocalizzazione, estendendo il periodo in cui le imprese beneficiano di agevolazioni pubbliche e sono obbligate a mantenere le loro operazioni in Italia.

Tuttavia, è importante considerare che le politiche di sviluppo delle competenze manifatturiere, digitali e manageriali sono essenziali per completare il quadro. Spesso, la riorganizzazione delle attività produttive verso altri paesi può essere più vantaggiosa, ma l’adozione di nuovi modelli di business sostenibili e digitali richiede capacità gestionali e produttive che potrebbero non essere immediatamente disponibili in Italia.

In sintesi, la prospettiva di un backshoring generalizzato delle catene di fornitura potrebbe non essere né concreta né auspicabile, ma il rafforzamento delle politiche di competitività e sostenibilità può aiutare a promuovere un ambiente favorevole alle imprese e alla creazione di valore all’interno del mercato domestico.

Delocalizzazione, la sfida è attrare nuove imprese e capitali

Così come per tante altre dinamiche economiche, anche quello della delocalizzazione è considerato da alcuni un fenomeno emergenziale, nonostante non si tratti affatto di qualcosa di nuovo.

Il timore di vedere parte del tessuto produttivo e migliaia di posti di lavoro dislocati all’estero è diffuso in modo trasversale tra le forze politiche. Non è un caso che anche un governo di unità nazionale, come quello Draghi, abbia dato un giro di vite per limitare il fenomeno.

Nel decreto Aiuti Ter sono state previste severe sanzioni (fino al 500% del contributo di licenziamento per ogni lavoratore in esubero) in caso di assenza di motivi di crisi e di mancata presentazione di un piano per una transizione morbida e una ricollocazione dei dipendenti coinvolti.

Ma questo problema quanto riguarda l’Italia? Istat ed Eurostat certificano che nel periodo più recente esaminato, tra 2018 e il 2020, includendo quindi anche l’anno peggiore della pandemia, hanno delocalizzato 594 aziende italiane con più di 50 addetti.

Questo non vuol dire che abbiano chiuso i battenti e si siano spostate all’estero, ma che hanno trasferito in altri Paesi alcune funzioni, non necessariamente la produzione, ma per esempio la divisione amministrative, la ricerca e sviluppo o la distribuzione e la logistica.

Delocalizzazione: i numeri a livello Ue

Nella ricerca Eurostat non sono presenti tutti i Paesi europei, ma tra quelli esaminati è la Germania quella che vede più delocalizzazioni: 1.028, seguita dal nostro Paese e poi da Paesi Bassi, Irlanda e Danimarca. Se però il dato viene confrontato con quello del numero di imprese medie e grandi (con più di 50 addetti, appunto) non finanziarie, appare chiaro come in realtà non siamo di fronte a un fenomeno emergenziale.

Ad essere stato interessato da una qualche forma di trasferimento all’estero di funzioni produttive è stato solo il 2,4% delle realtà italiane di queste dimensioni.

È un dato più alto di quello tedesco (1,4%), ma inferiore a quello che interessa Paesi tra l’altro molto più dinamici del nostro, come Irlanda (6,7%), Finlandia (6,7%), Danimarca (6,5%) e Norvegia (5,8%).

Dove portano i propri affari queste imprese? A quanto pare la maggioranza in altri Paesi UE. Nel caso italiano 409 aziende hanno scelto tale destinazione, mentre 117 altre realtà europee non appartenenti all’Unione. Relativamente poche hanno portato più lontano le funzioni produttive, sicuramente meno di quanto abbiano fatto le imprese tedesche, che in questo senso appaiono ben più globalizzate.

Nel caso di queste ultime, più di un’azienda delocalizzata su due è andata in Cina, in India, in Usa o altrove. Negli altri Paesi è più seguito il modello italiano di quello tedesco, con una naturale propensione irlandese allo spostamento nel Regno Unito.

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Per quanto riguarda l’Italia non sono le funzioni produttive, come si potrebbe pensare, a essere trasferite più spesso all’estero. Infatti è successo solo a 186 aziende, il 31,3% del totale, mentre in Germania a 624, più della metà.

Al contrario nel nostro Paese si usa di più spostare l’amministrazione e la gestione manageriale. Lo hanno fatto in 256, il 43,1% delle imprese delocalizzate, contro il 32,6% di quelle tedesche e il 38,8% di quelle olandesi.

Per queste ultime è più frequente la delocalizzazione dell’ICT, la ricerca e sviluppo o il marketing. Mentre solo 45 medie e grandi aziende italiane hanno trasferito la ricerca e sviluppo, probabilmente a causa della limitata presenza di tali comparti nel nostro Paese.

Un dato interessante, secondo la ricerca Eurostat, per le imprese italiane è il fatto che la gestione manageriale e/o amministrativa viene delocalizzata molto spesso nell’Ue, mentre le aziende tedesche portano tali funzioni al di fuori dell’Unione più di frequente, preferendo fare rimanere al suo interno la produzione.

Vi è un dato che però accomuna Italia e Germania, ed è la preponderanza di aziende manifatturiere rispetto a quelle dei servizi tra le realtà che vengono spostate all’estero, o di cui viene trasferito qualche comparto. Sono 357 contro 238 nel nostro caso, e 631 contro 397 in quello della Germania. Altrove, per esempio nei Paesi Bassi, in Irlanda, in Finlandia, in Ungheria, prevalgono i servizi.

Lavoro: chi lo perde e in quanti possono perderlo in caso di delocalizzazione?

Sotto questo aspetto tra il 2018 e il 2020 la situazione italiana appare molto meno tragica di quello che potrebbe apparire ascoltando i media.

Sono state, secondo Eurostat, circa 4.600 le posizioni lavorative che hanno subito il trasferimento di tutte o alcune funzioni aziendali fuori dall’Italia. Il nostro Paese è solo quinto in valore assoluto in questa classifica, e molto più indietro in termini relativi rispetto agli altri Paesi Ue.

Si parla, infatti, del 0,22% di tutti coloro che lavorano in realtà con più di 50 addetti, una cifra inferiore a quelle di Irlanda, Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi.

A questo proposito vi è un elemento importante da sottolineare: in Italia la maggioranza di quanti perdono il proprio impiego, il 69,5%, è definito low skilled, a bassa specializzazione.

Anche in Germania vi è una maggioranza di questo tipo, mentre è minore il gap laddove a delocalizzare sono soprattutto aziende dei servizi, quindi nel caso di quelle olandesi, danesi, irlandesi. In un caso, quello dell’Ungheria, i più svantaggiati sono proprio gli high skilled.

Delocalizzazione simile a emigrazione

In sostanza siamo davanti a un fenomeno che appare doloroso, e più doloroso in Italia che altrove, perché a essere colpiti sono soprattutto quanti faranno più fatica a ricollocarsi.

Una dinamica simile la si è vista per quanto riguarda l’emigrazione. Anche in quel caso il numero di quanti lasciano il nostro Paese appare preoccupante, nonostante non sia più elevato che in Germania, Francia o Regno Unito, perché non viene sostituito da un flusso di capitale umano specializzato in ingresso.

Lo stesso accade con le imprese. A fronte del trasferimento all’estero di aziende irlandesi od olandesi, o meglio di branch locali di multinazionali globali, ve ne sono altre che prendono il loro posto. Si tratta di un turnover vivace, che riguarda più che da noi imprese straniere, personale specializzato, e che non a caso interessa quei Paesi che sono sempre in testa per attrattiva di investimenti internazionali.

È perfettamente comprensibile che una multinazionale accorpi una funzione, per esempio il marketing, in un solo luogo, mentre un’altra porti nel Paese da cui la prima se n’è andata la divisione ricerca e sviluppo, assumendo professionisti. Ed è più frequente, grazie ai minori costi, che questo accada nei servizi.

Alla fine siamo sempre allo stesso punto, le delocalizzazioni, come l’emigrazione dei cervelli, non sono un problema in sé, e i numeri lo dimostrano. Lo diventano in quanto non compensati da investimenti di grandi imprese che portino in Italia produzioni o funzioni aziendali provenienti da altre aree o completamente nuove.

Più delle leggi che dissuadono la fuga delle imprese, probabilmente il nostro sistema economico beneficerebbe di politiche che rendano attrattivo il capitale umano e il sistema Paese. Ma naturalmente sono molto più difficili e forse impopolari da realizzare.


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