Ho Conosciuto Kurt Cobain – La Storia Dei Nirvana In Italia, Paolo Maoret & Marco Degli Esposti

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Un podcast avvincente, quello di Paolo Maoret e Marco Degli Esposti, che ripercorre i tour dei Nirvana del nostro Paese, ad iniziare dai due leggendari concerti del 1989, al Bloom di Mezzago e al Piper di Roma. All’epoca la band americana aveva pubblicato solamente il primo disco, il seminale “Bleach”, prodotto con soli 600 dollari, di conseguenza i mass-media non avevano ancora iniziato a celebrare, anche in modo abbastanza pressapochista, stupido e banale, la nuova epopea del rock: il grunge.

In quella serata nebbiosa, per la loro prima esibizione italiana del tour, in Brianza, le due band – Tad e Nirvana – erano descritte come due gruppi di moderno hard-rock d’oltreoceano. Una definizione assolutamente accettabile, anche alla luce della storica recensione di Claudio Sorge, su Rockerilla, nella quale il primo album dei Nirvana è solennizzato, esaltato e glorificato come il punto di svolta hard-metal che ci avrebbe aperto le porte musicali del nuovo decennio, ovvero di quegli anni Novanta che ci avrebbero regalato e fatto scoprire tante altre band che, ancora oggi, rappresentano dei solidi ed imprescindibili riferimenti sonori, soprattutto per coloro che amano le atmosfere acide e psichedeliche, le chitarre distorte e le sezioni ritmiche possenti, vigorose ed incalzanti. 

Eccovi, allora, il nirvana al contrario di cui scriveva Sorge, inchinatevi a questo percorso epico e vibrante che, attraverso la sofferenza, la malinconia e la musica hard-rock, ci avrebbe condotto allo stupore, alla meraviglia, alla catarsi e, dunque, al paradiso. Per la prima volta, forse, l’Italia riuscì ad essere al passo con i tempi, intercettando le prime esibizioni di una band che, nel giro d’un paio d’anni, avrebbe, letteralmente, stravolto non solamente il mondo della musica rock, ma anche la moda e la cultura, l’arte, le radio e i media, riportando nuovamente in superfice la punkeggiante etica DIY e accompagnandola con suoni sporchi, viscerali, taglienti, oscuri e spigolosi, ma anche con l’idea secondo cui le persone dovessero apparire e comportarsi in maniera naturale, senza filtri, senza maschere, senza inutili stratificazioni e senza forzare una felicità, una soddisfazione e un appagamento che, in realtà, non esistono, perché tutti noi siamo costretti a fare i conti con le nostre ossessioni, con i nostri timori e con i nostri sensi di colpa. E, a volte, questi fantasmi riescono ad avere la meglio e spingerci, nonostante i nostri amici e i nostri affetti più cari, nonostante le nostre passioni e le nostre aspirazioni, verso il pericoloso baratro dell’auto-distruzione. Crepe pericolose che, in verità, Kurt Cobain mostrò già in quel primo tour, nell’esibizione romana al Piper, quando distrusse la chitarra e interruppe, in modo improvviso, il concerto.  

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I Nirvana, comunque, nell’89, erano sconosciuti al grande pubblico, quello più commerciale e radiofonico; provenivano da Aberdeen, un posto sperduto nella grande periferia americana; avevano pubblicato un disco per un’etichetta minore di Seattle, la Sub-Pop, che si muoveva all’ombra delle grandi major del settore, in quello spazio che, all’epoca, non suscitava il loro interesse, lo spazio delle province, dei sobborghi, dei paesi remoti, dei ragazzi che crescevano ai margini, lontani da qualsiasi centro di controllo, di comando e di influenza, ma desiderosi di incontrarsi, di suonare, di mettere su delle band e di esprimere le proprie idee e, soprattutto, i propri sentimenti e i propri stati d’animo. Una cosa che era già accaduta con il punk, alla fine degli anni Settanta, una cosa che, in fondo, richiedeva solamente una chitarra, un basso, una batteria e un garage. 

Questo podcast riavvolge il nastro del tempo, riportandoci agli albori dell’ultimo, prezioso decennio analogico della storia umana, un’epoca innocente nella quale il contatto con il palco e con le band era più intimo. Non esistevano ancora quei fottuti muri di smartphone, tenuti su da gente che non ha alcuna intenzione di assistere davvero al concerto, ma che è lì solamente per produrre una prova virtuale della propria presenza e veicolarla, in tempo reale, sui propri social, affinché gli amici o presunti tali possano apprezzarla, con un like o con uno stupido commento. Un modo assurdo e morboso di vivere e di prendere parte ad un’esibizione live, che, fortunatamente, negli anni Novanta, era ancora impensabile; parliamo infatti, di un’epoca nella quale non esisteva la rete internet, almeno non così come la conosciamo oggi, con i video, i social, gli influencer e le piattaforme di streaming.

All’epoca ci si affidava ancora alle recensioni dei giornali, al passaparola degli amici, a qualche foto e alle radio più alternative. Tutto era più semplice, più normale; questo podcast, ad esempio, ci narra che, dopo il concerto al Bloom, Kurt e compagni aiutarono il personale del locale a rimettere in ordine le sedie sui tavoli. Oggi, una cosa del genere sarebbe impensabile, la spontaneità è stata cancellata dagli smartphone e, inoltre, la nostra disponibilità, nei confronti del prossimo, è stata erosa e corrotta dal web, dai suoi taciti meccanismi di propaganda e di successo, dal dover apparire, necessariamente, esteticamente perfetti, impeccabili, corretti, sani, buoni, puliti ed infallibili.

I Nirvana, invece, arrivarono in Italia così com’erano, su un scomodo e angusto furgone Fiat, condiviso con i Tad, stretti tra loro, addossati ai loro strumenti, con i loro maglioni bucati e i loro jeans logori, senza alcuna volontà di lanciare una moda o di costruire uno stile identificativo e generazionale, desiderosi solamente di suonare, magari di conoscere realtà così lontane da Aberdeen, ma, in un certo senso, sorprendentemente simili e somiglianti tra loro. Realtà fatte di ragazzi e di ragazze uguali; con sogni e delusioni uguali; con la stessa voglia di fare casino e di evadere da una arida, oppressiva e saccente realtà di modelli e di schemi precostituiti; con la stessa voglia di libertà emotiva ed espressiva che aveva già dato vita, negli anni precedenti, ai movimenti antagonisti, ai festival musicali, alle radio libere e ai club underground. Tutto rientra e ricade in questa narrazione sonora, sociale, culturale ed umana; una narrazione entusiasmante e interessante che questo podcast ci permette di scoprire e di conoscere, facendola suonare nel bel mezzo di un presente intransigente, volgare, ipocrita e superficiale, nel quale, spesso, barattiamo gli stessi sogni e le stesse passioni di quei ragazzi, per una inutile, meschina e fasulla bolla di non-esistenza artificiale, qualcosa che i Nirvana avrebbero cercato, in tutti i modi possibili, di rompere e spezzare. 



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