I suicidi in carcere. Numeri altissimi e molte morti sono da accertare. Secondo i dati del dossier Morire di carcere di Ristretti orizzonti, finora quest’anno sono stati 88 i suicidi tra i detenuti, sono 155 le morti per “altre cause”. Negli ultimi 12 anni sono 87 le morti da accertare negli istituti penitenziari, sempre per il giornale del carcere padovano. Nel 2023, mentre il Ministero della Giustizia dichiara 122 decessi per cause naturali, il Garante nazionale ne conta 138, con altri 20 casi in attesa di accertamento: sommando questi dati, risultano 36 persone che scompaiono dalle statistiche.
Abbiamo raccolto le storie di Fabio, morto l’anno scorso a 40 anni inalando il gas in cella, e di Atef, che si sarebbe suicidato impiccandosi a 36 anni.
Fabio
«Fabio è entrato in carcere nel luglio 2022 ed è morto la sera del 20 febbraio 2023», dice Jessica, la sorellastra di Fabio Romagnoli, ritrovato dal compagno di cella senza vita a 40 anni, nel carcere di Modena. L’autopsia ha confermato che il decesso è stato causato dall’inalazione di gas del fornello in dotazione. «Era una persona che non doveva assolutamente stare in carcere. Era evaso dai domiciliari, era in attesa di giudizio per una denuncia di stalking». Aveva già tentato una volta di suicidarsi fuori dal carcere, «la motivazione erano sempre le relazioni: viveva male l’abbandono. Quando finiva una storia dava di matto. Durante gli anni era stato in cura, a periodi alterni. Non è mai stato una persona tranquilla. Una volta gli avevano fatto un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, ndr). Ultimamente era seguito da un Centro di igiene mentale, dopo il tentativo di suicidio aveva deciso di farsi seguire per un periodo da una struttura, assumeva psicofarmaci. Sicuramente non era una persona facile, ma le persone che non sono facili vanno aiutate: non hanno gli strumenti per venirne fuori da sole».
«Fabio era molto fragile e si sentiva lasciato solo con le sue fragilità», continua Jessica. Sette mesi prima del suicidio lo prelevarono da casa perché era evaso dagli arresti domiciliari, «nella “camera di sicurezza” in questura a Ferrara aveva già tentato di impiccarsi. Nella lettera di dimissioni del pronto soccorso era scritto che “non si escludevano ulteriori tentativi suicidari”. Portato nel carcere di Modena, aveva trascorso solo un mese nella sezione Care, dove vengono messe le persone a rischio suicidario: dubito che una persona in un mese possa guarire».
«Lui diceva», racconta Jessica, «che gli davano molti medicinali, dall’autopsia non è venuto fuori che fosse intossicato dai farmaci. Ma al telefono ai suoi genitori riferiva che gliene davano parecchi. Nell’ultimo periodo non si reggeva più in piedi: mangiava e vomitava. Diceva che non ce la faceva più a stare là dentro. Una persona che ha tentato il suicidio come fa ad avere nella sua stanza la bomboletta a gas? O si fa usare sotto stretta sorveglianza di altre persone o si evita di fargliela avere in cella. Chi fa tentativi suicidari non guarisce in poco tempo».
«Non mi sento di discolpare Fabio, ci mancherebbe, ha fatto un reato di stalking ed è molto grave. Ma i diritti umani sono di tutti. In carcere una tantum aveva il sostegno dello psicologo, ma evidentemente non era abbastanza. L’ultimo periodo stava malissimo, l’avvocato richiese una visita esterna per il suo stato di salute e per il dimagrimento eccessivo, ma non si è fatto in tempo a farla, forse bisognava agire in modo più tempestivo rispetto all’invio di una Pec. Nelle sue ultime lettere, in quasi tutte scriveva “Scusate per il gesto che farò, non ce la faccio più”», dice.
«L’avvocato ha fatto opposizione alla richiesta di archiviazione, stiamo attendendo che ci diano una risposta. Dalla Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio, ndr) sembra che Fabio stava bene, non aveva problemi e nessuno sospettava un suicidio. Ma in una delle ultime udienze in carcere Fabio non ce la faceva a reggersi in piedi e dovevano sorreggerlo. Per quello che ho letto, visto e sentito in questi mesi», afferma Jessica, «il carcere sta diventando sempre di più una discarica sociale».
Atef
«Atef è arrivato in Italia quando aveva 18 anni. L’ho conosciuto otto anni fa, quando mi sono fidanzata con suo fratello, era in carcere per una rissa. Tre anni e mezzo fa lo hanno arrestato di nuovo, per una rapina. Nel frattempo aveva lavorato, ma aveva perso il permesso di soggiorno. In Italia è già difficile trovare lavoro, se non hai il permesso di soggiorno è impossibile. Io parlavo spesso con lui, aveva iniziato a drogarsi», racconta Andra, cognata di Atef, tunisino morto a 36 anni nel carcere di Parma.
«Ho parlato con lui per telefono il giorno prima della sua morte, il 14 agosto, era in carcere ad Ascoli e la sera stessa l’hanno trasferito a Parma. Lo scorso gennaio aveva trovato lavoro e casa, avrebbe dovuto iniziare ad ottobre l’affidamento in prova. Dall’autopsia è stato accertato che Atef si è tolto la vita in carcere, ma noi abbiamo dei dubbi: due mesi dopo sarebbe uscito, ci sembra strano che si sia ucciso», continua Andra.
«I poliziotti mi hanno detto che già aveva provato due-tre volte ad impiccarsi in un altro istituto penitenziario, ma quando è stato trasferito non era scritta nel fascicolo l’indicazione del rischio di suicidio. Quando chiesi perché non era seguito da uno psicologo, mi risposero: “Perché non c’è abbastanza personale”. Sono stata in carcere anch’io. Il problema non è stare in carcere, ma come ci si sta, le condizioni in cui si vive. La vita che passi in carcere è la cosa peggiore, non la condanna. Le persone pagano con la pena che devono scontare. Ci vuole più personale: i detenuti sono lasciati soli».
Foto di apertura di Hasan Almasi su Unsplash
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