Non sei un numero, non sei una matricola e non sei il reato che hai commesso: sei una persona…

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Pubblichiamo di seguito un estratto dalla prefazione del Cardinale Matteo M. Zuppi al libro “I volti della povertà in carcere” di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (Diritti: 2024 | Il Portico SPA Via Scippione Dal Ferro, 4 40138, Bologna).

Desidero ringraziare di cuore i tanti che hanno contribuito a questo viaggio nel pianeta carcere. Non si tratta di un altro pianeta, ma dell’altra faccia del nostro, quella che non vogliamo vedere, che speriamo resti buia, ma che rappresenta quello che siamo; dobbiamo conoscerla e illuminarla con l’attenzione e l’amore, perché solo così siamo in grado di comprendere il resto. È un libro che ha coinvolto tanti, perché il metodo è lavorare insieme.

Ringrazio Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci, autori del volume, nonché la Casa Circondariale «F. Di Cataldo» – Carcere di San Vittore di Milano, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, L’Osservatore Romano e L’Osservatore di Strada nelle persone di Giacinto Siciliano, Arnoldo Mosca Mondadori, Andrea Monda, Piero Di Domenicantonio, sostenitori del progetto. Il libro è come una visita che siamo aiutati a compiere e forse anche a decidere di organizzare. «Ero in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25, 43), afferma il Vangelo.

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Non si dice nulla delle caratteristiche della persona rinchiusa, non si cercano meriti o al contrario condanne per giustificare la scelta di abbandonare i detenuti. «Ero in carcere e non mi avete visitato», ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne. Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l’ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro.

k,lm, Il libro ci fa incontrare l’altro e «vedere» pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio.

Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: «Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro» (dal Discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013).

Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e camminare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro la persona che è, degna sempre della nostra «compassione», che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell’esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo.

Il libro ci restituisce i nomi – che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche peculiari di ciascuno – di quei fratelli più «piccoli» che dobbiamo visitare. Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l’angoscia di non fidarsi più di nessuno, l’umiliazione, i turbamenti. Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili,

ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto – grazie all’attenzione di qualcuno – le doti che non si sa di avere.

Capiamo i problemi psichiatrici – così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati – perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di «essere morto». Certo conosciamo anche comunità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l’errante non sarà mai il suo errore! «L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità» (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83).

La professoressa Marta Cartabia, nella già citata settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di «pene», secondo la previsione dell’articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

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Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l’unica scelta sia «farla pagare» all’autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cerca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento – problema decennale –, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità.

In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove godere di pene alternative. Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno «italiano» perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene.

Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro. Non sono scorciatoie, concessioni «buoniste», ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore.

Solo il «riparativo» risana la ferita e offre sicurezza. Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi.



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