Da Tajani a Meloni, tutta la maggioranza vuole intestarsi la separazione delle carriere. Magistratura e Anm sotto attacco non solo del governo. I penalisti: «Pm eversivi»
L’assoluzione di Matteo Salvini nel caso Open Arms ha prodotto un duplice effetto. Da un lato l’ambizione del leader leghista di tornare al Viminale per il momento messa in stand-by dal chiaro stop di Giorgia Meloni, tanto da farsi immortalare ieri proprio mentre stringe la mano all’attuale vertice dell’Interno, Matteo Piantedosi. Dall’altro – non potendo ritrovare il protagonismo nella questione migratoria – la volontà di intestarsi la riforma della giustizia come nuova battaglia identitaria. Chi meglio di lui, è il ragionamento del vicepremier, può portarla avanti dopo aver subito un processo che il centrodestra ha definito «politico»?
«Ora la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei magistrati per chi sbaglia con dolo è fondamentale», è stato il ragionamento di Salvini, che dunque punta ad andare anche oltre la riforma costituzionale di Carlo Nordio, riproponendo la responsabilità civile che è stato un antico cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi e che dalle toghe viene avversata come quella della separazione delle carriere. Con l’incognita di dover rispondere in proprio, è il ragionamento dei magistrati, sarebbe impossibile avere la serenità di aprire indagini contro la malavita o i colossi finanziari, per esempio.
Sulla stessa linea si muove, e non certo da ora, anche l’altro vicepremier Antonio Tajani che con Forza Italia è stato il vero promotore alle spalle di Nordio: il caso Open Arms «è un caso di scuola di politicizzazione di alcuni magistrati, anche se non della magistratura nel suo insieme. C’è un problema che ha a che fare con la credibilità stessa del sistema», ha detto in una intervista, ribandendo la necessità di separare le carriere ma anche di introdurre la responsabilità civile, che «da sempre è una proposta di Forza Italia». Un modo indiretto per sottolineare che Salvini non sta inventando nulla, piuttosto sta tentando di rinfrescare le storiche campagne berlusconiane, anche nel parlare di «toghe rosse».Così la riforma della Giustizia, da Cenerentola tra l’autonomia e il premierato, è diventata la più ambita, sposata con convinzione anche da Meloni.
Tutti d’accordo, dunque, ma con una consapevolezza. La riforma della Giustizia, per quanto possa riempire le pagine dei giornali e alimentare la narrativa dello scontro tra toghe e politica, non influirà sulla vita dei cittadini e sulla lunghezza dei processi. In altre parole, l’incognita è su quanto possa diventare un tema popolare tanto da spingere le prossime campagne elettorali e soprattutto da superare lo scoglio del referendum costituzionale, per cui non serve il quorum.
Eppure, in questa fase di stabilità politica, la narrazione del nemico in toga è funzionale a dare la sensazione di un governo sotto assedio del potere giudiziario, ma che comunque ne esce vincente. Ad alimentarla non si è tirato indietro nemmeno il guardasigilli Nordio, che ha lasciato ogni prudenza istituzionale per definire il processo a Salvini «fondato sul nulla, non si sarebbe dovuto neanche iniziare».
La magistratura circondata
Un singolo processo, per quanto mediatizzato, è diventato dunque l’arma per isolare il più possibile la magistratura, con toni che da tempo non si sentivano e non riguardano solo la politica del centrodestra. Anche l’Unione camere penali italiane, cui si deve la prima iniziativa di legge popolare per la separazione delle carriere, ha attaccato in modo pesante le toghe per la gestione del processo Open Arms a Salvini e di quello Open a Matteo Renzi, entrambi conclusi con l’assoluzione.
Secondo i penalisti le due sentenze «ci confermano che nel nostro Paese l’uso politico dello strumento giudiziario da parte della magistratura, che ha avuto tratti eversivi, non è mai cessato» ma anche che «la magistratura è composta in larga maggioranza da magistrati che non seguono queste logiche ma ne sono in qualche modo vittime», dunque «è venuto il momento di mettere fine a questa deriva attraverso una organica riforma costituzionale».
Un atto di accusa pesantissimo che ha fatto esplodere le chat dei magistrati nel fine settimana pre-natalizio, dopo mesi in cui avvocatura e toghe si erano trovati compatti nello stigmatizzare le lentezze del ministero nell’intervenire su scoperture d’organico, processo telematico e carcere, oggi il confronto tra le categorie è tornato ad essere acceso.
Così l’Anm – che a gennaio andrà al voto per eleggere il nuovo presidente dopo l’addio di Giuseppe Santalucia che non si ricandiderà – si sta trovando a gestire l’isolamento. La Giunta ha risposto ai penalisti parlando di «scarsa lucidità nella lettura dei fatti» e «dissennata» l’accusa di uso politico dei processi. Con un affondo finale: l’attacco sarebbe giustificato dalla «grande difficoltà in cui si trova da tempo, che tenta di superare sostenendo la separazione delle carriere».
In questo clima da lunghi coltelli, il primo via libera alla riforma arriverà se tutto va bene entro metà 2025, il secondo nel 2026. Ci sarà tempo, quindi, per schermaglie a costo zero e dal ritorno politico ancora tutto da verificare, in vista del più che probabile referendum.
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