Silvana Biagini, la centralinista di Torino dalla vita segreta: la sua morte nel 1992 rimane un giallo

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di
Federico Ferrero 

Era il 9 giugno del 1992 Silvana Biagini lasciava il suo posto di lavoro. La sua sembrava una vita tranquilla, ma ne aveva almeno un’altra. Sparita in pausa pranzo, trovata morta vicino alla sua auto dopo18 giorni

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È l’ora di pranzo di martedì, 9 giugno del 1992. Anche il resto dell’introduzione è di assoluta ordinarietà: Silvana Biagetti è una ragazza di 27 anni che si guadagna da vivere come centralinista in una delle tante aziende chimiche allora attive nella zona, la Oma di Rivalta. Sta per tornare a casa, a Torino, in corso Buenos Aires, dove c’è il fidanzato Marco ad attenderla. Lui lavora al piano terreno di quello stabile, gestisce un’enoteca. Hanno un cane, cui lei è particolarmente affezionata.

Una collega di Silvana, senza sapere che sarà l’ultima persona a poter (o voler) riferire di averla vista viva, le chiede di comprarle, sulla strada del ritorno, un pacchetto di sigarette. Lei fa sì con la testa, esce – sono le 12 passate da poco, il rientro è alle 14 – e sparisce. Quando non rincasa e in ufficio, nel pomeriggio, non si fa vedere, Marco e i suoi genitori si muovono subito, sanno che non può che esserle successo qualcosa: la cercano, denunciano la scomparsa, parlano con i giornali, fanno pubblicare un appello. Ma del destino di Silvana, ragazza precisa nei suoi impegni, abitudinaria e pacifica, non si sa nulla, in quell’analogico 1992 senza telefoni cellulari né videocamere: se è sparita volontariamente, sebbene i suoi cari lo escludano; se è stata rapita, se ha avuto un incidente. Se è viva o se è morta. Parenti e amici si uniscono nella ricerca, pattugliando tutte le vie possibilmente battute in quel martedì, ma nulla da fare.




















































Tutto tace fino al 27 giugno quando, in una zona a circa 70 chilometri dal luogo di lavoro di Silvana e a più di mille metri di quota, frazione Villanova di Bobbio Pellice, qualcuno nota una porzione di guard-rail divelta, guarda in giù e telefona alla polizia, dando il numero di targa di un’auto distrutta. Centinaia di metri più in basso, i resti della Seat Ibiza bianca della Biagetti. Arriva la squadra mobile e trova il corpo della donna, parzialmente nel torrente. Un incidente, una disgrazia, forse un modo anomalo per farla finita. O no? La prima domanda è cosa ci facesse, Silvana, su quella stradina di montagna, giacché a nessuno aveva detto che sarebbe andata a farsi una – improbabile, peraltro – scampagnata in pausa pranzo, a più di un’ora di viaggio dal suo ufficio. Anche perché, da quelle parti, quel giorno pioveva e la stradina che si inerpica su per i monti è scivolosa e Silvana è tutt’altro che un’amante della guida, anche a giudicare dallo stato della sua sgangherata auto. Alcuni oggetti della vittima, poi, vengono refertati a distanza dal veicolo. 

Troppa distanza, per non destare sospetti; altro particolare assai singolare, alcuni vestiti mancano all’appello. Non si trovano neppure le chiavi di accensione dell’utilitaria, poi rinvenute dal giornalista Angelo Conti molto più a monte, rispetto all’automobile, proprio nel piccolo spiazzo da cui il veicolo è precipitato. La chiave stessa, peraltro, è piegata. Insomma: troppe cose non tornano.L’indagine, tuttavia, è povera di appigli per mesi: nessuno ha visto né sentito Silvana dal quel martedì in poi né si capisce chi potesse volerle fare del male.

 Fino a che non spunta un signore sulla cinquantina, un autista di bus. Dice di aver riflettuto a lungo e poi di essersi deciso a raccontare la sua storia: lui la conosceva, Silvana Biagetti. Si erano visti per la prima volta a Saluzzo, in un ristorante, per caso. Lei era accompagnata da due signori, lui era riuscito a raggiungerla nei bagni e a strapparle un appuntamento davanti a un bar della città, fissato una quindicina di giorni più avanti. Il testimone si era presentato poco speranzoso al rendez-vous ma lei si era palesata, vestita in maniera elegante. Durante la cena, gli aveva confessato di non chiamarsi Roberta ma Silvana. I due si erano rivisti ancora, verso fine anno; lei, stranamente, si era fatta accompagnare a Como in una villa, dove era entrata e uscita poco tempo dopo, spiegando di essere coinvolta in un giro di acquisto di titoli azionari per conto terzi. Questo il suo racconto. Forse, allora, Silvana non è solo la centralinista di una ditta in periferia, con una vita senza nulla di rilevante da dichiarare. 

La polizia, in effetti, ha raccolto sul suo conto qualcosa di altro: si scopre che era stata legata per molti anni, nonostante la giovane età, a un personaggio discusso e col doppio dei suoi anni, Bruno Miotti, imprenditore già sotto processo per una gran quantità di hascisc trovata nel suo capannone da tipografo e accusato di un giro di false fatturazioni in un filone di inchiesta sulla costruzione dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Solo che costui era morto prematuramente, per un aneurisma all’aorta, nel 1990. La suggestione di una doppia vita, di segreti e di affari loschi di cui poteva essere a conoscenza Silvana è una tentazione ma rimane nel recinto delle speculazioni, mancano riscontri. Qualcuno dice che «sapeva troppe cose» ma non si capisce quali.

La perizia sull’automobile e l’esame finale del patologo, oltretutto, propendono non per un omicidio ma per una disgrazia. Un’uscita di strada. Anche se non si spiegano molti aspetti, a partire da cosa ci facesse, in quel posto remoto e con un’auto in cattive condizioni, in quel martedì. E le disposizioni di alcuni oggetti, i finestrini tirati giù, alcune lesioni – Silvana ha fratture multiple, nessuna ferita da arma da fuoco né da taglio né segni di violenza sessuale – sembrano suggerire altro. E cioè che non fosse sola, quando è morta. Che qualcuno l’abbia convinta a seguirlo là e poi l’abbia spinta giù dal burrone, dopo averla magari stordita e seduta al posto di guida.

Di un movente solido, però, non vi è ombra. Un’amica riferisce che era stata avvicinata da un tizio che le aveva fatto delle avances inopportune. Viene interrogato un dipendente della Oma che si era licenziato quando lei era sparita e che aveva, pare, un debole per lei. Ma la pista dello spasimante respinto rimane una congettura. L’inchiesta sulla morte di Silvana Biagetti viene archiviata, per essere riaperta (e richiusa) tra il 2012 e il 2013 dall’allora procuratore di Pinerolo, Amato. L’ultima parola resta simile a quella scritta da un altro procuratore, poi arrestato e condannato per una storiaccia di corruzione e truffa, nella prima indagine chiusa nel 1994: «Mancanza di una serie di elementi a sostegno di tesi diverse dal fatto accidentale. Non scarto l’ipotesi che ci troviamo davanti a un delitto, ma sostengo che mancano dati a conforto di tale tesi. I processi si fanno sulla base dei fatti e non sulle supposizioni». Come dire: Silvana potrà anche essere stata uccisa, è che non siamo stati capaci di scoprirlo.  

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