Perché sono da leggere le bordate di Bernabè su Clinton e la sinistra

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Il libro di Franco Bernabè “La Trappola” offre spunti rilevanti per ragionare su Europa, élite e non solo. La lettera di Teo Dalavecuras.

Caro direttore,

“Rinunciare alla ricerca del rimedio per mezzo del proprio potere istituzionale, e ridursi a versare la lacrima sul danno fatto – questo è una giornata per le vittime della malagiustizia -, costituisce una resa senza condizioni. Servirebbe una giornata in memoria della Repubblica parlamentare”. Così si concludeva qualche giorno fa la quotidiana rubrica di Mattia Feltri su Huffpost, un articolo che in poche righe dice tutto quel che c’è da dire sulla giustizia, e non solo, in Italia.

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Perché ti parlo di questo articolo? Per una ragione molto banale. Mi avevi suggerito di leggere l’ultimo libro di Franco Bernabè, “La trappola”, ciò che diligentemente ho fatto. Già avevo in mente di leggerlo dopo avere ascoltato le parole di Bernabè (che ha scritto La Trappola insieme a Paolo Pagliaro, in forma di intervista) durante la presentazione a Palazzo Clerici di qualche settimana fa quando è arrivato a esclamare, con tono non enfatico ma quasi alterato, che a meno di un cambiamento di direzione molto deciso e urgente l’Europa è perduta. Anche perché oramai in Europa – spiegava – nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese, e non solo, grazie al preponderante contributo della incontenibile produzione di norme della UE, si discute quasi esclusivamente di compliance, quasi mai di business o di prodotti e mercati. Mi è tornato in mente quando ho finito di leggere Feltri.

Nel libro Bernabè ha spiegato due cose fondamentali che ha poi ribadito nella presentazione a Palazzo Clerici. La prima è che lo smantellamento del welfare state (con tutto quel che comportava anche in termini di ascensore sociale) non è tanto da ricondurre alle “rivoluzioni” di Thatcher e Reagan quanto alla ben più incisiva rivoluzione di Clinton alla quale va fatta risalire la gravissima crisi finanziaria mondiale del 2008 (senza esitare a scrivere, per interposto Pagliaro, di “hybris di Clinton”).  La seconda è che l’origine del cosiddetto processo di integrazione europea più che ai cosiddetti padri fondatori (da Spinelli a Monnet passando attraverso i De Gasperi Schumann Adenauer delle giaculatorie “europeiste” – ma questo lo aggiungo io) è da attribuire alla lungimiranza di due americani, Dean Acheson e William L. Clayton e alla loro visione geopolitica: vedono il rischio rappresentato dalla presenza sovietica in Europa e per irrobustirne la parte occidentale promuovono “una specie di unione doganale allargata o una cooperazione economica fra i Paesi europei”. “Ora però”, aggiunge Bernabè, “vengono al pettine tutti i nodi irrisolti creati non dall’idea di unificazione per la quale si sono spesi i padri fondatori, ma dal sistema burocratico con il quale la si sta realizzando e che vede saldamente al comando una burocrazia comunitaria molto lontana dal capire i sentimenti che agitano le popolazioni che compongono l’Europa”.

Ho sottolineato quest’ultima notazione perché, come tu ben sai, Bernabè non è un imprenditore d’assalto magari un po’ leghista, ma un professionista che ha operato al vertice di organizzazioni altamente strutturate, dal gruppo Fiat all’Ocse, dall’Eni alla Telecom, sa pesare le parole e non è certo condizionato da un’avversione preconcetta per l’organizzazione e i processi strutturati. Lasciami aggiungere incidentalmente che è anche un uomo coraggioso: lo ha dimostrato quando dal vertice di Telecom ha avvertito a muso duro l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, che nulla aveva fatto per contrastarla, delle probabili conseguenze negative che quella sorta di “leveraged buy-out”, l’Opa dell’indebitatissima Olivetti sulla Telecom lanciata da Colaninno e soci, avrebbe avuto per Telecom e per il sistema-paese, un’operazione che considerava – queste sono parole sue – “nefasta per Telecom e per il futuro dell’industria italiana”, come purtroppo si è dovuto constatare a consuntivo, probabilmente anche di là delle già pessimistiche previsioni di Bernabè. Coraggio dimostrato di nuovo molti anni dopo accettando la nomina a presidente delle Acciaierie d’Italia. Non so tu direttore, ma io tendo a fidarmi di più di quel che sento dire da una persona di coraggio.

In realtà le cose importanti sono tre ma la terza, quella del declino dell’Europa negli ultimi 20-30 anni è purtroppo ovvia. Tuttavia a questo riguardo Bernabè, che è stato al vertice di Telecom in due contesti ben diversi, al momento della privatizzazione e poi alla vigilia dell’arrembaggio da parte dei “capitani coraggiosi”, offre una testimonianza autorevole: “Abbiamo citato la tecnologia, dove l’Europa ha perso qualsiasi possibilità di recuperare il terreno perduto nei confronti degli Stati Uniti e della Cina. Eppure prima del Duemila l’Europa aveva imprese di servizi di telecomunicazioni tra le più forti al mondo, e una straordinaria capacità di sviluppo delle infrastrutture tecnologiche”.

A questo punto tu mi obietterai che non si capisce che c’entri tutto questo con il manrovescio di Feltri alla classe politica italiana. Ti chiedo un minimo di pazienza, direttore. Innanzitutto, non puoi negare che anche solo queste tesi di Bernabè sono un bel macigno scagliato nella piccionaia dell’editorialista collettivo, quello che attraverso poche consunte parole chiave, “destra-sinistra sovranismo populismo euroscetticismo democrazia autoritarismo sostenibilità” et similia, racconta – absit iniuria verbis – un mondo a scacchi in bianco e nero (il libro non si limita ai tre punti che ho evidenziato, è un racconto ragionato, che vola alto nelle connessioni che fanno di una serie di eventi un pezzo di storia, ma non rinuncia a essere meticoloso nella ricostruzione dei passaggi cruciali, la storia essendo quella dell’Occidente capitalista e democratico dal crollo del Muro di Berlino ai giorni nostri, con qualche essenziale flashback agli anni della ricostruzione postbellica; una serie di eventi visti dai vari privilegiati osservatorî occupati da Bernabè nella sua lunga e assai fortunata carriera, non ancora conclusa peraltro; ma questa non è una recensione del suo saggio). Sono un macigno perché Bernabè non è un editorialista ma un esponente tra i più autorevoli della élite italiana se ce n’è una, e alle sue argomentate parole si può replicare solo parlando d’altro oppure con un dignitoso silenzio. Vedrai che prevarrà il silenzio.



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