Antichi mestieri, a Cerisano l’arte della cesteria di Andrea Perrotta • Meraviglie di Calabria

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Che fosse una gerla o un paniere, un crivo o una sporta, tutto ciò che in passato veniva realizzato era fondamentale per la quotidianità, e doveva durare nel tempo. Erano fatti di materiali che la stessa natura offriva, da raccogliere nelle campagne, nei boschi o lungo i fiumi. Venivano poi puliti e lavorati secondo la resistenza, la flessibilità, ma bisognava anche avere grande bravura nel torcere, legare, intrecciare. Era un’arte necessaria praticata da tanti e, con lo sguardo di oggi, aggiungiamo anche era soprattutto sostenibile ed ecologica. Un lavoro fatto di tempi dettati dalla natura, sopraffatto poi dalla praticità della plastica e dalla velocità di produzione. È così che è scomparsa una gran parte di questa tradizione domestica, normalmente tramandata.

Un mestiere scelto in controtendenza

C’è però la storia di chi non immaginava che questo sarebbe diventato il proprio mestiere, in controtendenza, con la volontà di riprendere una sorta di discorso interrotto, al quale restituire spazio e, soprattutto, valore. «La mia passione per le tradizioni nasce da piccolo. Sono cresciuto con i miei nonni, in campagna, e ho seguito per anni le loro abitudini. Passavo le giornate ad osservarli, soprattutto mio nonno materno, Luigi, che era un cestaio». Andrea Perrotta è un giovane studioso di Cerisano e, proprio come suo nonno, è un cestaio. La sua laurea in Storia all’Università della Calabria, lo ha aiutato a comprendere molte cose, soprattutto dare valore al passato e capire quanto potesse essere ancora utile. «Dopo la scomparsa di mio nonno, con la maturità e con i miei interessi culturali, mi sono reso conto dell’immenso patrimonio che si era perso. Ho iniziato a studiare il lavoro di mio nonno e da lì è nata questa grande passione, imparando da autodidatta a intrecciare. Però poi, pian piano, ho ampliato le mie conoscenze e ho iniziato a studiare in maniera approfonditala tradizione dei cestai della provincia di Cosenza. In Calabria abbiamo una fortuna che forse pochi hanno al mondo, la biodiversità maggiore in Italia. Basti pensare al fico. Solo nella provincia di Cosenza, ne abbiamo più di 68 varietà geneticamente diverse. Solo questo dato ci fa comprendere l’immenso patrimonio che abbiamo».

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La ricchezza della natura è la ricchezza dell’artigianato

È proprio l’immenso patrimonio della biodiversità che permette di avere a disposizione diverse varietà di materiali. «Anche la cesteria – racconta Andrea – con l’evolvere dei secoli, si è sviluppata utilizzando materiali del luogo. Faccio un esempio: qui, nella zona di Cosenza, grazie al fiume Crati, abbiamo quantità di canne e salici. Perciò, nella zona di Cosenza, la cesteria che si è sviluppata è quella che utilizza principalmente il salice, e la canna per le pareti del cesto. Se ci spostiamo invece sulla Sila, dove ci sono grandi boschi di querce e castagneti, scopriamo che lì il salice viene sostituito dal castagno, oppure dalla quercia, per fare dei cesti in lamine di castagno di quercia. Se invece andiamo sul Tirreno, da cui vediamo questi monti calabresi cadere a picco sul mare, troviamo una vegetazione più mediterranea. Qui si raccoglie l’asfodelo, oppure viene utilizzato lo stelo del grano, come accade a Belmonte Calabro, per realizzare i “crivi”. La ricchezza della natura ci permette quindi di avere anche una ricchezza nell’artigianato e anche una diversità di forme della cesteria».

Ogni cosa richiede tempo

Per fare un cesto ci vuole un determinato tempo che non riguarda solo la realizzazione manuale dell’oggetto, ma anche tutto quello che viene prima. «Quando ci troviamo davanti a un manufatto già realizzato è difficile immaginare quanto lavoro c’è dietro. Se per realizzare un cesto di medie dimensioni servono dalle tre alle quattro ore di lavoro, bisogna tenere conto anche dell’attività preliminare, spesso non considerata nel valore complessivo da chi acquista un cesto. Il salice, ad esempio, va raccolto a luna calante a gennaio, e quindi con il freddo bisogna andare in zone umide e paludose, oppure a luglio con il caldo, per poi poterlo sbucciare e ottenere dei manufatti più fini. Stessa cosa avviene per la canna che va raccolta sempre in inverno, sezionata in strisce sottilissime, per poi permettere l’utilizzo in cesteria». In pratica le quattro ore di lavoro che servono a realizzare un cesto, diventano otto. «Il lavoro che c’è dietro – ammette Andrea Perrotta – è considerevole, e forse anche per questo oggi è sempre più difficile trovare artigiani in grado di vivere di questo mestiere, anche perché acquistare un cestino o un secchio in plastica, o un cesto prodotto in maniera semi industriale, è più economico».

La gentilezza in un umile oggetto

Oltre alla cesteria classica, c’è quella cosiddetta fine – quella che riveste, adornandole, bottiglie o damigiane – e che un tempo veniva realizzata soprattutto per fare dei doni. «Era considerato infatti di buon augurio regalare una bottiglia ricavata con salice decorticato, molto fine e anche decorata. Questa tipologia di lavorazione veniva adoperata per realizzare pezzi che servivano in occasione dei rituali, come i matrimoni. Per il matrimonio, infatti, in tutti i paesi della Calabria arrivava il giorno in cui si “vestiva” il letto. Le ceste in vimini contenevano tutto il corredo. Quando ancora per il ricevimento non si usava fare i banchetti come oggi, magari venivano preparati dei panini che venivano serviti ai commensali proprio in queste ceste raffinate». Quelle di Andrea hanno caratteristiche particolari, perché fanno riferimento a anche a modelli reggini, siciliani e sardi «perché la Calabria – spiega – ha un’origine comune a queste altre due regioni per via del passato che abbiamo avuto sotto il regno spagnolo prima, e dei Borboni successivamente. Per questa ragione diverse forme della cesteria tradizionale si riscontrano soltanto in queste tre regioni, e per alcune tecniche specifiche anche in Catalogna».

La coltelleria calabrese, un altro tesoro recuperato

Oltre alla passione per la cesteria tradizionale, Andrea ha coltivato e sperimentato quella per i coltelli calabresi. «Da calabrese orgoglioso di esserlo – racconta – volevo utilizzare degli strumenti della nostra terra. Allora ho iniziato a studiare e a cercare di capire se esisteva un coltello tradizionale calabrese. Oggi i coltelli che vengono denominati calabresi in realtà non lo sono perché vengono prodotti a Scarperia in Toscana. Hanno una forma ideata a Scarperia a fine ‘800, chiamata appunto “coltello calabrese”, però è una forma di coltello toscano. Oggi viene utilizzato per lo più lo sfilato di Caltagirone, chiamato “vopa calabrese”, ma anche questo non appartiene alla nostra storia. Anticamente la Calabria aveva delle forme per le lame molto particolari. Già a metà del ‘600 Giovan Battista Colonna, in una esposizione di alcune armi sequestrate ai malviventi, descrive anche i coltelli calabresi. Quindi sappiamo già che nel ‘600 c’erano dei coltelli che venivano identificati come tali, con caratteristiche peculiari. Ho scoperto che effettivamente non c’era una solo tipologia di coltello calabrese, ma esistono più forme. Così ho iniziato a realizzarli». Un patrimonio di conoscenze che è ancora ignoto a molti. «Quest’arte oggi risulta sconosciuta perché con l’unificazione nazionale, parte di questo artigianato scompare e vengono introdotti coltelli prodotti in serie».

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La bellezza e la varietà delle lame calabresi

Andrea è entusiasta nel definire «la coltelleria tradizionale calabrese tra le più belle in Italia. Come accade per la cesteria, anche questa ha influenze spagnole. I coltelli che si avvicinano di più a livello estetico a quelli calabresi sono le “navajas” spagnole, con delle peculiarità precise. Una caratteristica che identifica tutti i coltelli calabresi è il piedino, chiamata in dialetto “scarpuzza” o “peduzzu”, in ottone e con il manico leggermente schiacciato. Un’altra tipologia di coltello molto particolare, che è il primo multiuso dell’età moderna, è il coltello con la forchetta, chiamato in calabrese “curtiaddru cù ra vrocca”, oppure “curteddu” nel catanzarese, ma in ogni parte della Calabria il nome può variare».

Se scompare l’artigiano

Ecco le due passioni che Andrea Perrotta coltiva e realizza grazie alla sua curiosità di storico e artigiano. Della sua storia negli ultimi anni si sono giustamente occupate le reti televisive nazionali. «Sono conoscenze che sto cercando di tramandare, perché ogni singolo mestiere artigianale rischia di scomparire». E se scompare un artigiano, viene meno colui che presidia il paesaggio, lo tutela e lo mantiene; si cancella una sentinella a cui è demandato il compito di conservare, anche, la nostra identità.

(Da.Ma) info@meravigliedicalabria.it





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