È ancora il momento di guardare i Soprano • Rivista Studio

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Negli ultimi tempi da italiani viviamo un momento di grande popolarità su internet, e non solo perché la nostra presidente del consiglio è la protagonista di una ship con Elon Musk. Da quando è scoppiato il caso Luigi Mangione, più che MAGA siamo nella fase MIAGA, Make Italo-Americans Great Again. Tra parallelismi con Super Mario, riapertura dell’antico quesito sulla bianchezza della nostra pelle e analisi accurate delle sopracciglia del ventiseienne che ha freddato un Ceo delle assicurazioni sanitarie, è sempre interessante scoprire il modo in cui la nostra cultura, anche quando è nella sua forma derivativa e periferica, viene percepita dal resto del mondo – se per resto del mondo intendiamo gli Stati Uniti. «In this house Luigi Mangione is a hero, end of the story», recita la didascalia di un meme che ha fatto il giro di qualsiasi piattaforma: sotto la scritta, Tony Soprano urla, con la sua classica vestaglia di spugna bianca addosso.

Sono passati venticinque anni dalla messa in onda della prima stagione di I Soprano, e dopo un quarto di secolo posso finalmente dire di capire non solo quel meme su Tony – nella versione originale, al posto di Luigi Mangione c’era Cristoforo Colombo – ma anche tutto il gigantesco apparato di contenuti collegati a questa serie che mi capita sotto gli occhi in varie forme da quando ho una connessione Adsl. «I like the one that says some pulp» o «whatever happened to Gary Cooper?», le tute Fila, i mocassini Gucci, le camicie Versace di Furio, le parole gabagool, goomar e il costume da Halloween di Chris Moltisanti, un tutore per il collo e degli occhiali a mascherina neri: la cultura pop degli ultimi decenni è costellata di riferimenti ai Soprano, dalle puntate dei Simpson a Bojack Horseman, e non servono né meme né citazioni per confermare la vulgata per cui, a conti fatti, sia la migliore serie di sempre. Lo dicevano i critici all’epoca, lo conferma la sua eredità oggi, quella di David Chase è la miglior serie del periodo migliore che le serie americane abbiano mai vissuto, la famosa golden age, un tempo che è andato e che per diverse ragioni – perlopiù produttive, fatta qualche eccezione come nel caso di Succession – non tornerà più. 

Dato per assodato il primato del prodotto, il dubbio che avevo quando ho deciso di cominciare questo viaggio shakespeariano tra la psicoterapia e i salumi nostrani, dopo anni in cui rimandavo il momento, era lo stesso che mi capita di provare di fronte a molti altri fenomeni di cultura pop recenti, non abbastanza lontani del tempo dall’essere del tutto storicizzati, né così vicini dal godere di uno strato di contemporaneità sufficiente a colmare la distanza con lo spettatore. Mi sono chiesta, ingenuamente, se I Soprano avessero retto il peso di questi venticinque anni; so che per molti la risposta è scontata, eppure, nell’epoca postmoderna in cui abbiamo a disposizione un archivio mediatico che ci sovrasta di stimoli e paragoni, per me non lo era. La ragione per cui non ci sono ragioni per dire che I Soprano è una serie invecchiata male, oltre ai pilastri solidi su cui si fonda – la scrittura, il cast, i tempi, la messa in scena, lo sforzo produttivo – è che per quanto sia in buona sostanza la storia di un boss della mafia italoamericana che va in terapia dopo aver scoperto che soffre di attacchi di panico, contiene in sé moltitudini whitmaniane che si collegano direttamente a interrogativi, temi e dibattiti che ci portiamo nel presente. Come al solito, non ci stiamo inventando niente.

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È chiaro che il grosso del racconto si basi su due piani, quello inconscio e introspettivo a cui prova ad accedere la dottoressa Melfi, arrivando alla conclusione che la terapia su un soggetto come Tony Soprano non serva a niente, e quello pubblico del protagonista che si intreccia con i rapporti familiari, lavorativi e affettivi che lo circondano. Ci sono i membri del clan, fedeli, ipocriti, adoranti, che tramano contro di lui, che lo consigliano male, che lo vedono come un padre, che lo stimano e lo detestano. C’è la presenza di una madre anaffettiva e crudele, che sfocia in una relazione disfunzionale con la sorella di Tony, Janice, ossia la sua perfetta controparte femminile. C’è il matrimonio con Carmela, la Lady Diana delle mob wives, che fa da simulacro della cultura tradizionalista e attaccata con tutta la sua forza a un’idea di passato idealizzato. C’è il passato idealizzato in sé, che si personifica nello zio vecchio e incapace di tenere in piedi gli equilibri di potere, Uncle Jun, l’unico che metterà davvero in pericolo la vita di Tony durante sei stagioni. Un uomo che vive nella costante minaccia di essere ammazzato da qualsiasi membro di una qualunque famiglia nemica, trova il contatto con la morte e un’esperienza di aldilà dopo che lo zio gli spara dritto in pancia, non si sa bene se per errore o per qualche atto freudiano abbondantemente anticipato dalle precedenti cinque stagioni. Ci sono due figli maschi, uno vero che porta il suo nome, Anthony Junior, e un altro che è il figlio che Tony si è scelto, Christopher Moltisanti, entrambi non possono sopravvivere, perché entrambi non sono all’altezza di portare il peso dell’eredità di Tony, o in termini più ampi, il peso del passato come comunità.

Che I Soprano inizi alla fine del Novecento, a un anno di distanza dal nuovo millennio e a tre dall’attentato alle Torri Gemelle, un tema presente in svariate forme all’interno del racconto – Tony si salverà spesso dall’Fbi proprio grazie alla concetrazione di forze sul nemico esterno, il terrorismo, piuttosto che sulla criminalità organizzata –, è forse la conseguenza del fatto che questa serie, oltre ai mafiosi in tuta di ciniglia, agli ziti e a tutto il resto, è la sintesi tragicomica della crisi dell’Occidente. Sin dal primo episodio, i vecchi si lamentano del poco rispetto e della scarsa determinazione dei giovani – «These kids today», è la frase ricorrente di Uncle Jun – giovani che, a loro volta, lamentano il fatto di non avere a disposizione i giusti eredi. È il futuro, o meglio, l’assenza di un piano per il futuro, che manda in crisi Tony Soprano, che da bravo borghese americano ha trasformato il suo American Dream in una casa piena di comodità, schermi piatti e frigo giganti da condividere con due figli che hanno studiato e che comprendono il passaggio del nuovo meglio di quanto riesca a fare lui. 

Tutto ciò che oggi percepiamo nella forma delle guerre culturali, altro non è che la manifestazione estesa di un conflitto su cui si fondano gli Stati Uniti stessi (e il loro grande sogno), composti per natura da tanti gruppi sociali, ciascuno motivato a far prevalere la sua predominanza sugli altri: gli italoamericani che rivendicano il Columbus Day, dal loro punto di vista sono più americani dei nativi americani, e la massimizzazione delle proprie tradizioni, messe insieme in un miscuglio di parole e usanze confuso fino al punto di diventare grottesco – quel senso di Unheimlich che proviamo noi italiani rimasti in patria quando vediamo un piatto di fettuccine Alfredo – è l’arma per affermarsi in un contenitore pieno di altre culture che lottano per la supremazia. Tony Soprano, fiero rappresentante del passato, si ritrova nella crisi del presente statunitense che non lo riguarda solo come uomo e come criminale, come padre e come marito, ma anche come parte di una società che ha vissuto la supremazia dalla seconda metà del Novecento in poi come dato di fatto e che, all’alba del terzo millennio, non è più così scontato. 

Come si vede in una scena del documentario I Soprano. La vera storia uscito a ottobre del 2024, al funerale di James Gandolfini, David Chase è scoppiato a piangere in un punto preciso del suo omaggio: quando ha detto di aver visto fare all’attore la stessa cosa che facevano i suoi familiari, italiani sbarcati da pochi anni negli Stati Uniti, mettersi un asciugamano bagnato in testa per il caldo. Lo facevano suo padre, suo nonno e chissà quanti altri ancora prima di loro, ma quella continuità si è interrotta, proprio come il tanto dibattuto finale. Lontano da qualsiasi tipo di fanservice, David Chase lascia che sia la scena di una perfetta famiglia americana a fare da ultimo quadro: la tavola calda, il jukebox con “Don’t stop believing”, gli onion rings, la riunione di famiglia. Lo sguardo di Tony che vaga tra un potenziale pericolo e un altro si sospende bruscamente con un nero che ha lasciato il pubblico con il dubbio se si fosse rotta la televisione. Il finale non c’è perché non c’è una risposta alla domanda che si pone Tony Soprano per tutte le sei stagioni che lo raccontano in quanto uomo testardo, prepotente, violento, dominante, in un certo senso, il rappresentante perfetto dello spirito capitalista americano che fino agli anni Novanta è stato sulla vetta della gerarchia e che da quel momento in poi vacilla. Qual è il futuro di un paese che per un secolo ha creduto di poter avere tutto e che si sveglia nel nuovo millennio rendendosi conto che non è più così?

“Don’t stop believing”, dice la canzone che fa da colonna sonora degli ultimi istanti di vita del personaggio di Tony Soprano, cosa viene dopo non si sa. Sappiamo che sono arrivati i meme, le reunion, i documentari, i trend su TikTok, i fan che aumentano anche se la serie è finita da tempo, l’idea che non ci sarà mai un’altra The Sopranos, e che poi è venuto anche Luigi Mangione, un altro italoamericano con la pistola, un altro italoamericano che non sa più se ha senso credere nel grande sogno americano.





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